Capitolo primo
Come mai questo tempo
non
sapete giudicarlo?
Per un discernimento del tempo presente
6. L’inizio del nostro
cammino ecclesiale è dato da una parola di Gesù. Essa, con la forza di un
richiamo così puntuale da apparire quasi un rimprovero, risuona come invito
pressante e sprone benefico per la nostra responsabilità di discepoli e
testimoni.
È la parola che il Signore
rivolgeva alle folle del suo tempo, le quali, guardando le nuvole salire da
ponente e sentendo soffiare lo scirocco, sapevano giudicare e prevedere se si
preannunciava la pioggia o il caldo (cfr. Luca 12, 54-55). A queste
folle diceva: «Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo,
come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi
ciò che è giusto?» (Luca 12, 56-57).
Discernere il presente, pronti a scrutare il futuro
La stessa parola risuona anche per
noi oggi, in questo preciso momento della storia, e assume il tono di un invito
esplicito a scrutare il cielo e la terra, ossia quanto accade nel nostro mondo
contemporaneo, per coglierne e interpretarne la direzione, per discernere i
segni dei tempi.
«Come mai questo tempo non sapete
giudicarlo?». È l’invito a comprendere la realtà, a riconoscerla, a
leggerla e a interpretarla in profondità, andando oltre la semplice e pur
necessaria descrizione dei fatti. Nello stesso tempo, è l’invito a prendere
delle decisioni nel segno della libertà e della responsabilità.
Non basta descrivere e spiegare i
fatti. Occorre riconoscere in questi fatti dei “segni dei tempi”, una chiamata
che Dio ci rivolge. Ogni situazione, oltre che come “dato”, ci si presenta come
“compito”. In essa ritroviamo l’appello di Dio che chiama la Chiesa e ciascuno
di noi, “qui e ora” – in questo momento della storia e in questo angolo del
mondo –, a prendere quelle decisioni e a fare quelle scelte che la stessa
situazione ci suggerisce.
7. Ci è chiesto, allora, di
accogliere l’invito del salmo: «Ascoltate oggi la sua voce» (Salmo 95,
8), e di aprire i nostri orecchi e il nostro cuore per intendere ciò che lo
Spirito dice alle Chiese (cfr. Apocalisse 2, 7), a questa nostra Chiesa
di Milano.
È, quella dello Spirito, una
parola che risuona per l’oggi della nostra Chiesa, per il presente che stiamo
vivendo. Ma questa stessa parola è un invito a discernere il presente,
avendo però lo sguardo in avanti, pronti a scrutare il futuro, che già
si sta delineando, e a farcene carico con grande senso di responsabilità.
È necessario che ci chiediamo, con
realismo, qual è oggi il volto concreto della nostra Chiesa ambrosiana
e, in essa, di ogni singola parrocchia e comunità. Nello stesso tempo, occorre
cogliere, per quanto ci è dato di intuire, la fisionomia futura della nostra
Chiesa, almeno nelle sue linee di tendenza più marcate e generali. In realtà, le
scelte di oggi, anche se non ne abbiamo sempre lucida e puntuale coscienza,
influenzeranno di fatto il cammino futuro, concorrendo a delineare il
volto concreto delle nostre comunità cristiane di domani.
Non possiamo accontentarci di
continuare a fare come abbiamo sempre fatto, senza domandarci se lo
Spirito di Dio – attraverso le vicende della storia e la concretezza delle
situazioni in cui viviamo – non ci indichi di intraprendere strade nuove,
nel segno della vera prudenza e del coraggio. In questo senso, una “semplice
pastorale di conservazione”, oltre a essere sterile, si dimostra irresponsabile
e oggettivamente “peccaminosa”, perché sorda, se non addirittura ostile,
alla voce di Dio e alla sua chiamata.
Occorre il coraggio di chi,
afferrato da Cristo e libero da ogni intralcio di qualsiasi genere, sa aprirsi
alla novità di Dio e sa iniziare a percorrere strade diverse, inusuali se non
inedite, purché il Vangelo di Gesù risuoni nel cuore di ogni uomo e trasformi
il mondo. Con l’animo di Paolo: «Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per
sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a
rallegrarmene» (Filippesi 1, 18).
Sono strade da intraprendere e
percorrere certamente nel segno della più grande prudenza, non
dimenticando, però, che la stessa prudenza, se è autentica, chiede di
abbandonare ogni timore, fa capaci di osare, rende sovranamente liberi di
fronte a ogni consuetudine e tradizione di uomini, perché mette sulla lunghezza
d’onda del pensiero stesso di Dio e della sua sapienza.
L’oggetto specifico del
discernimento, a cui ora siamo chiamati, riguarda il volto missionario
della nostra Chiesa, il suo essere testimonianza vivente di Gesù risorto e
del suo Vangelo.
Per una lettura del vissuto di fede
e della situazione religiosa
8. Interroghiamoci, anzitutto, sul vissuto
di fede delle nostre comunità cristiane e, più in generale, sulla situazione
religiosa nei nostri paesi e nelle nostre città. Chiediamoci – nel segno
del realismo disincantato, ma senza indulgere a inutili lamentele – quali sono
le potenzialità e gli ostacoli, le facilitazioni e le fatiche che si incontrano
oggi tra noi nella diffusione della Buona Notizia cristiana.
Come ho affermato fin dal mio
ingresso in Diocesi e come ora, man mano che vado conoscendo più da vicino le
nostre realtà, posso confermare con maggiore convinzione, la nostra di Milano «è
una Chiesa viva, ricca di fede e ricolma di una straordinaria ricchezza di
grazia…. Lo testimoniano le sue risorse morali e spirituali; le sue espressioni
di carità e di impegno educativo, a iniziare da quello profuso nei nostri
oratori; la generosità pastorale e lo slancio missionario dei sacerdoti, dei
diaconi, delle persone consacrate e dei fedeli laici, uomini e donne; il
cammino ecumenico, il dialogo tra le religioni, l’attenzione ai non credenti,
l’accoglienza di chi viene da lontano, l’apertura all’Europa e al mondo» (Chiesa
di Milano: rinnova la tua vitalità. Omelia per l’ingresso in Duomo, 29
settembre 2002).
Se tutto questo è fonte di gioia e
di gratitudine, non possiamo però non riconoscere che questa ricca vitalità
di fede è oggi seriamente minacciata. Lo è perché, anche tra noi,
non mancano situazioni in cui la fede appare come una realtà ripetitiva,
stanca, adagiata, priva di smalto, ripiegata su se stessa. Lo è, in
particolare, per il continuo avanzare dei noti processi di secolarizzazione, di
vera e propria scristianizzazione, di indifferenza religiosa, di
“neopaganesimo”.
Come non pensare alle tante
persone che vivono tra noi e che, pur avendo ricevuto il Battesimo, non
condividono con noi l’impegno e la gioia della vita ecclesiale e della “pratica
della fede”? Non possiamo non pensare – come già faceva l’arcivescovo Giovanni
Battista Montini quando, nel giugno 1957, presentava ai predicatori la Grande
Missione di Milano – che «la maggior parte della popolazione… non ha la fede
viva, non la preghiera, non la conoscenza del catechismo, non ha l’impegno
della vita cristiana… Vi sono immensi strati di popolazione che non hanno
alcuna relazione con la vita religiosa. Troppi ambienti hanno perso il più
piccolo segno di religiosità».
Eppure, insieme a tutto ciò,
dobbiamo riconoscere che persiste, anzi sembra crescere, la ricerca
dell’esperienza religiosa. Basti pensare, ad esempio, al pullulare di sette
e di gruppi accomunati da un generico e spesso selvaggio riferimento al sacro,
al diffondersi del fenomeno del “New Age” con tutte le forme nelle quali si
manifesta, al ricorso a esperienze di meditazione tipiche di alcune tradizioni
religiose soprattutto asiatiche, alle proposte avanzate da nuovi movimenti
religiosi che si presentano espressamente alternativi alla Chiesa e alle grandi
tradizioni cristiane. Anche se questa ricerca dell’esperienza religiosa va
assumendo una molteplicità di forme non sempre coerenti tra di loro, vissute
all’insegna di una “religiosità soggettiva” che fa della religione un fatto
privato e della fede una semplice opinione o sentimento personale, non si può
non intravedere in questi fenomeni una sfida – una provocazione e
un’opportunità – per il cristianesimo e la nostra vita di fede.
Come si vede, la nostra è una
situazione contrassegnata da una spiccata ambivalenza, a causa della
continua e, per tanti versi, inestricabile compresenza di elementi positivi e
di fattori negativi. Ancora più profondamente, è una situazione paradossale,
perché nei suoi aspetti problematici spesso contiene già, almeno in germe,
qualche antidoto e qualche anelito verso il positivo. Così, mentre contrasta,
rinnega e rifiuta il cristianesimo, la situazione in atto offre non pochi
spiragli perché la proposta cristiana, nella sua pienezza e verità, possa
essere presentata nuovamente e accolta come capace di dare senso e gioia alla
vita.
La trasmissione della fede oggi
9. Il nostro discernimento deve
focalizzarsi sul problema specifico della comunicazione e trasmissione della
fede. Qual è l’attuale capacità di trasmettere la fede alle nuove
generazioni da parte delle nostre comunità cristiane, a iniziare dalle
parrocchie, dalle altre realtà ecclesiali, dalle famiglie e dai diversi
soggetti e operatori pastorali? È questo, in un certo senso, il punto
decisivo e qualificante l’intera missione evangelizzatrice della Chiesa. È
la “cartina di tornasole” dell’identità stessa della Chiesa. Per precisa
volontà di Cristo (cfr. Matteo 28, 18-20; Marco 16, 15), la
Chiesa esiste proprio per predicare e insegnare il Vangelo e per proporre a
ogni uomo e donna di diventare discepoli del Signore, attraverso l’obbedienza
della fede, in risposta al dono di Dio che li chiama.
Ecco come ci si presenta oggi il
concreto vissuto delle nostre realtà ecclesiali.
La trasmissione della fede alle
nuove generazioni continua a essere un impegno fondamentale nella nostra
Chiesa. Si può anzi dire che, forse mai come oggi, si moltiplicano gli
sforzi pastorali e si tentano nuove vie. Basta pensare, ad
esempio, a tutto quanto si sta operando nell’ambito della catechesi, sia
attraverso il coinvolgimento e la formazione di numerose persone come
catechisti, sia mediante un rinnovamento dei metodi, per mettere in atto una
“catechesi per la vita cristiana” meglio capace di coinvolgere i ragazzi e di
introdurli nella comunità credente.
Ma, nonostante questo sforzo
davvero encomiabile, continuano ad aumentare le difficoltà e – per quanto è
possibile cogliere e valutare dall’esterno a proposito di fenomeni che solo Dio
può conoscere e giudicare fino in fondo – i risultati, almeno sul piano
quantitativo, appaiono spesso precari, scarsi, insufficienti e, non
poche volte, deludenti.
Si deve anche notare che sono
spesso difficilmente praticabili quei percorsi di trasmissione delle fede che,
fino a qualche decennio fa, erano consueti e socialmente radicati nelle
famiglie, nella scuola e in altri ambienti di socializzazione. È sempre più
evidente che molto spesso oggi non si può presupporre quasi nulla riguardo
all’educazione cristiana dei ragazzi nelle famiglie di provenienza e che non si
può pensare che sia l’ambiente sociale a favorire, quasi connaturalmente e
“spontaneamente”, l’educazione cristiana delle giovani generazioni. Siamo di
fronte a un cambiamento così profondo che chiede di essere riconosciuto e
interpretato con urgenza.
Se questa è la situazione,
dobbiamo chiederci da che cosa dipenda e che cosa sia in grado di spiegarla.
Qualche “spiegazione” sul versante ecclesiale
10. La scarsità dei risultati nella
trasmissione della fede non poche volte dipende anche da noi cristiani, dal modo con cui
comprendiamo, interpretiamo e viviamo la fede. Ci sono dei
modi di intendere la fede che non facilitano affatto la sua trasmissione, anzi
che non sfociano in essa perché, di fatto, ne minano alla radice il senso e ne
escludono l’opportunità e la doverosa necessità.
Così accade, ad esempio, quando la
fede viene ridotta a pura opinione soggettiva, perché smarrisce il suo
riferimento essenziale e fondativo a Gesù Cristo e al suo Vangelo come “verità
oggettiva e vincolante” per ogni uomo e per ogni situazione. In questi casi,
non ha senso, anzi risulta indebito e quasi prepotente far conoscere Gesù agli
altri e proporre loro la vita nella sequela del Signore come l’unica veramente
e pienamente umana.
Così pure, la trasmissione della
fede appare come non dovuta – anzi come opera da evitare o da attuare solo se
se ne avverte l’opportunità o la convenienza –, quando la fede è vista come un
peso e non come un dono e un bene, o quando, pur riconosciuta come
un bene, non viene percepita e apprezzata come il bene più necessario
e decisivo, di cui essere immensamente grati e da offrire, per bisogno
d’amore, anche agli altri perché ne possano godere con noi.
Ci sono, poi, delle spiegazioni
che riguardano il modo di educare alla fede e di vivere la fede nelle nostre
comunità cristiane. La scarsità dei risultati nella trasmissione della fede, in
altri termini, può dipendere dai difetti, dalle lacune, dalle pigrizie
e dagli immobilismi che purtroppo, talvolta, caratterizzano
in modo determinante alcune nostre comunità cristiane.
Quale forza di attrattiva può
esercitare una fede troppo “ritualistica”, staccata e avulsa dalla vita? O una
fede troppo “formalistica”, intesa, in modo prevalente o esclusivo, come
adempimento di un precetto e non come gioiosa e impegnata risposta di amore
personale all’amore di Dio per noi? O, ancora, una fede troppo “ripiegata sul
soggetto”, intesa quasi solo come soddisfazione dei propri bisogni religiosi e
delle proprie esigenze di gratificazione?
La scarsa capacità di trasmettere
la fede può dipendere anche dal fatto che oggi, diversamente da quanto accadeva
in passato, le nostre comunità parrocchiali non si presentano come
realtà omogenee. Esse sono spesso contrassegnate da un forte pluralismo,
per la diversità e molteplicità di appartenenze, di esperienze, di storie
personali e anche per la compresenza di diverse religioni. Di qui, il pericolo
del relativismo e dell’indifferenza religiosi. Tutto questo può rendere più
facilmente impermeabili alla proposta della fede cristiana, soprattutto se
questa non viene differenziata a sufficienza per meglio raggiungere ciascuno
nella propria personale situazione.
Alle radici culturali del fenomeno
11. Ma tutte queste motivazioni non
sono sufficienti a spiegare la situazione nella quale ci troviamo. Sarebbe anzi
parziale e ingiusto addebitare le gravi difficoltà che incontriamo nella
trasmissione della fede al solo versante ecclesiale e alle sue più o meno reali
carenze nel vivere la fede e nello svolgere il compito educativo. Né basta a
spiegare questi fatti il rimando, pur sempre necessario e irrinunciabile, alla
libertà di ogni persona. Tale libertà, contravvenendo alla propria identità
e verità, può rimanere indifferente anche di fronte alla più perfetta proposta
di fede e può addirittura respingerla, chiudendosi alla stessa azione della
grazia di Dio. Anche al Signore e al suo amore, l’uomo libero può opporre il
proprio “no”!
Alla radice della situazione che
stiamo vivendo e di cui soffriamo c’è, in realtà, una motivazione di ordine
culturale. Il contesto, in cui oggi il credente si trova a vivere e
nel quale i singoli cristiani e la Chiesa sono chiamati a comunicare la fede, è
spesso impermeabile al Vangelo, a esso “estraneo” o persino contrario.
Di tale contesto, quattro elementi, tra gli altri, concorrono a rendere
molto arduo e faticoso il compito della trasmissione della fede.
In primo luogo, dobbiamo
registrare la tendenza ad assolutizzare l’attimo presente, così
come esso è percepito e sperimentato dal singolo soggetto. Ciò conduce,
irrimediabilmente, a smarrire il senso della storia, facendo sì che il
passato e il futuro perdano ogni loro consistenza e spessore.
Diventa così molto difficile
cogliere il valore e l’importanza del messaggio evangelico. Questo è messaggio
di grazia per l’oggi, proprio perché affonda le sue radici nel passato
dell’evento unico e singolare di Cristo morto e risorto e perché è aperto alla
speranza di un futuro, che trova ancora in Cristo e nel suo ritorno
glorioso il proprio senso e compimento.
Nello stesso tempo, la
trasmissione della fede appare come un’impresa quasi impossibile, perché tra le
cose di cui non si ha più memoria c’è, appunto, anche lo stesso “deposito”
della fede (depositum fidei), il quale è giunto fino a noi di
trasmissione in trasmissione (traditio fidei). In tal modo, in un quadro
più ampio e generale di rottura del patto tra le diverse generazioni,
viene intaccato alla radice e nel suo nucleo centrale il processo di
comunicazione della fede.
Dobbiamo ancora registrare, in
secondo luogo, una generale crisi del processo comunicativo, che
comporta gravi conseguenze anche nell’ambito della comunicazione della fede.
Oggi, suoni, immagini, messaggi e proposte si sono talmente moltiplicati, da
rendere quasi impossibile ogni ascolto che voglia aprirsi al confronto e al
dialogo, per poter poi prendere decisioni veramente libere. I messaggi vengono
selezionati in modo del tutto arbitrario e accolti a prescindere totalmente
dalla loro verità e dal loro significato.
In questa linea, anche il
messaggio cristiano finisce per essere “uno dei tanti” e per presentarsi come
non capace, di per se stesso, di suscitare una risposta veramente libera e
responsabile. La riduzione della possibilità di un dialogo rende, inoltre, in
larga parte incomprensibile e, soprattutto, difficilmente praticabile quel
“dialogo di salvezza” che appartiene all’esperienza fondamentale e costitutiva
della fede cristiana.
C’è, in terzo luogo, il fenomeno
del pluralismo etnico, culturale e religioso, che si fa sempre più
concreto in mezzo a noi, a causa della crescente presenza di persone
provenienti da altri Paesi. In questo contesto, il rischio che si
affievolisca il senso della unicità salvifica del cristianesimo si fa più
reale e non pochi sono indotti a ritenere che “una religione valga l’altra”. Ne
segue una minore convinzione e determinazione nel testimoniare e annunciare il
Vangelo di Gesù.
Quando poi alla trasmissione della
fede si vuol dare il giusto posto che le spetta, ci si imbatte in problematiche
non sempre facili e, comunque, abbastanza nuove. Esse riguardano, in
particolare, la capacità di vivere un corretto dialogo interreligioso,
senza rinunciare alla verità, e di mantenere la propria identità senza cadere
in forme di intolleranza. Sono, tutti questi, degli aspetti che rendono meno
semplice la trasmissione della fede e meno scontato il suo risultato.
C’è, infine, un elemento ancora
più profondo, che rende oggi particolarmente difficile, più fragile e meno
garantita la trasmissione della fede, perché induce a un modo di pensare e di
vivere nel quale il messaggio evangelico non trova un aggancio concreto nella
realtà e rischia di non poter essere compreso nella sua autenticità. Si tratta
della stessa concezione di persona umana che va sempre più
diffondendosi. È una concezione a forte caratterizzazione naturalistica,
che riduce praticamente l’uomo alla sola dimensione materiale e ne nega quella
trascendenza che lo fa radicalmente diverso da ogni altro essere che esiste
sulla terra.
Ma è proprio questa forma di
“riduzionismo” a rendere “incomprensibile”, o quasi, il nucleo stesso del
messaggio cristiano. Esso, in realtà, è dialogo di salvez-za in quanto è
rivelazione dell’amore di Dio che si do-na all’uomo, creandolo a sua immagine e
somiglianza, facendogli il dono eccelso della libertà e chiamandolo a una vita
personale che va oltre la morte.
12. Per tutti questi motivi, ci
troviamo in un momento veramente delicato della nostra vicenda storica. È il momento
in cui giunge a maturazione il processo di dissoluzione dell’identificazione
tra fede cristiana e cultura civile. Sì, quella «rottura tra Vangelo e
cultura», che Paolo VI aveva visto con acuto anticipo e aveva denunciato come
il dramma della nostra epoca (cfr. Evangelii nuntiandi, 20), oggi appare
come pienamente consumata. Ed è proprio questo che rende particolarmente
difficile e precaria la trasmissione della fede.
Se è sempre stato vero che –
secondo la nota espressione di Tertulliano – «cristiani non si nasce ma si
diventa» (cfr. Apologeticum 18,4), oggi questo “diventare
cristiani” si presenta come un’impresa particolarmente ardua e difficile.
La ostacolano profondi e diffusi processi culturali di secolarizzazione, di
scristianizzazione e, ancora più radicalmente, di “disumanizzazione”. Come ha
sottolineato Giovanni Paolo II il 20 maggio 2003 all’Assemblea Generale dei
Vescovi italiani, nell’attuale contesto sociale e culturale «molti fattori
concorrono a rendere più difficile, e per così dire “contro corrente”,
l’impegno di diventare autentici discepoli del Signore, mentre la velocità e la
profondità dei cambiamenti fanno crescere la distanza e a volte quasi
l’incomunicabilità tra le generazioni» (n. 2).
Diventare cristiani è oggi
più difficile che nei decenni passati. Non principalmente perché – come forse a volte
può anche accadere – la nostra catechesi si è annacquata nei contenuti o non si
è aggiornata nei metodi, né perché nelle nostre comunità cristiane non si è
capaci di offrire un’autentica e attraente testimonianza di fede. Ma perché ci
troviamo tutti dentro questo drammatico cambiamento, costituito dalla
rottura tra fede e cultura, che non permette più ai percorsi tradizionali del
“diventare cristiani” di essere efficaci e incisivi come lo erano in
precedenza. È questo un cambiamento di cui dobbiamo essere consapevoli: serenamente,
ma seriamente!
Quale presenza dei cristiani nella storia?
13. Fin
qui abbiamo parlato del discernimento da at-tuare in ordine al nostro vissuto
di fede e al punto nevralgico e decisivo della trasmissione della fede.
Ma c’è ancora un aspetto di questo
discernimento, che non possiamo tralasciare e che riguarda il nostro essere,
come singoli e come Chiesa, “anima” del mondo e della società. La fedeltà
alla missione evangelizzatrice affidataci da Gesù comporta, infatti, anche
l’obbedienza al suo comando di essere “sale della terra” e “luce del mondo” (cfr.
Matteo 5, 12) e di essere “lievito” che fa fermentare tutta la pasta
(cfr. Matteo 13, 33). È quanto deve avvenire attraverso una presenza e
una testimonianza nella storia, in tutti i luoghi e in tutte le relazioni
dell’esistenza degli uomini, delle donne e dei popoli, diffondendo nel mondo i
“valori del Regno di Dio”, che è «regno di giustizia, di amore e di pace» (Prefazio
nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo). Tali
valori aiutano gli uomini ad accogliere il disegno di Dio e a ordinare e
strutturare l’intera convivenza umana secondo il suo progetto, nel rispetto e
nella realizzazione della verità stessa dell’uomo, del mondo, della storia
(cfr. Redemptoris missio, 20; Lumen gentium, 31).
Anche a questo riguardo, dobbiamo
riconoscere, anzitutto, che proprio il contesto culturale a cui abbiamo
già accennato rende più difficile e, insieme, reclama in
modo ancora più radicale e urgente una presenza testimoniante dei cristiani
nel mondo. È vero anche da noi quello che il Papa ha scritto recentemente
descrivendo la più ampia situazione europea: «Molti non riescono più ad
integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quotidiana; cresce la
difficoltà di vivere la propria fede in Gesù in un contesto sociale e culturale
in cui il progetto di vita cristiano viene continuamente sfidato e minacciato;
in non pochi ambiti pubblici è più facile dirsi agnostici che credenti; si ha
l’impressione che il non credere vada da sé mentre il credere abbia bisogno di
una legittimazione sociale né ovvia né scontata» (Ecclesia in Europa,
7).
Questo stato di cose rischia di
rendere sempre più irrilevanti la presenza e la testimonianza dei cristiani
nella società, se essi non sono particolarmente luminosi e coerenti. L’irrilevanza
sociale dei cristiani – e, conseguentemente, del cristianesimo
– diventa ancora più marcata quando i criteri di giudizio di chi si
dichiara cristiano sono totalmente appiattiti sulla mentalità del mondo e
sembrano non avere più nulla a che fare con l’irriducibile novità del Vangelo e
quando il comportamento dei cristiani appare come apertamente incoerente
con il Vangelo e con le sue esigenze.
In questi casi, diventa più che
comprensibile il giudizio comune che qualifica i cristiani come “uguali agli
altri e peggio degli altri”. Si tratta di un giudizio che può diventare, per
chi lo pronuncia, anche un alibi per non confrontarsi con la proposta del
Vangelo, ma che rivela comunque come certi modi di pensare e di fare dei
cristiani non hanno proprio niente da dire agli uomini e al mondo di oggi. Sono
come il sale che non ha più sapore e che serve soltanto a essere gettato per
terra e calpestato dagli uomini (cfr. Matteo 5, 13). E purtroppo
dobbiamo riconoscere, con profonda umil-tà e non poca confusione, che di cose
come queste non mancano esempi anche tra di noi. In ogni caso, è questo un
pericolo sempre incombente, da cui facciamo bene a guardarci.
In questa opera di discernimento,
si deve sottolineare anche la presenza di una certa “mondanizzazione”
che, a volte, va caratterizzando anche noi, singoli cristiani e comunità
ecclesiali. È una mondanizzazione che si manifesta attraverso un modo di
presenza e di testimonianza segnato, ad esempio, da poca comunione o,
addirittura, da litigiosità, da mancanza di povertà e di gratuità, da forme di
dipendenza e di assoggettamento a diversi poteri, da chiusure e indifferenze,
da sfiducia, da pessimismo e continua lamentosità. Tutto ciò, quando accade,
non ci fa certo essere, come dovremmo, una “comunità alternativa” alle
logiche del mondo e, proprio per questo, in grado di offrire al nostro mondo
quel “supplemento d’anima” di cui ha immensamente bisogno.
Se abbiamo ricordato più
ampiamente questi elementi, è anche per coltivare in noi stessi quella virtù
della vigilanza che ci fa attenti a non renderci responsabili di simili
atteggiamenti. “Siate vigilanti!”, ci ammonisce il Signore.
Il nostro discernimento, però, non
sarebbe veritiero se non riconoscessimo che – per grazia di Dio e nella scia di
una positiva tradizione della nostra Chiesa – sono davvero molti gli esempi
di singoli cristiani che si sforzano di impegnare la loro esistenza nel
costruire una storia secondo il Vangelo. Essi si sono formati con severi
tirocini di vita ecclesiale nelle nostre parrocchie e nelle nostre realtà
aggregative. E ora, giorno dopo giorno e spesso nella semplicità e nel
nascondimento, testimoniano il Vangelo nell’ambito della vita familiare e in
quello del lavoro, nella scuola e nei luoghi del tempo libero, dello sport e
del divertimento, nel volontariato come nell’assistenza e nella cura delle
persone malate, sole o bisognose, nel mondo della comunicazione sociale, come
in quello della cultura, dell’economia e della politica.
Dobbiamo pure riconoscere che,
salvo casi eccezionali e tranne qualche momento particolare, le nostre comunità
ecclesiali, proprio grazie al loro stile di vita evangelico, continuano a
essere reali e significative interlocutrici della società, nelle sue
varie articolazioni, e a presentarsi come esperienze di vita nelle quali è
ancora possibile incontrare e vivere valori che fanno più bella e sensata la
vita di tutti.
Un discernimento da continuare e precisare
14. Quanto emerge da questo ampio
esercizio di discernimento chiede ora di essere continuato e precisato da parte
di ciascuno e, in particolare, in ogni parrocchia della Diocesi e
in ogni altra aggregazione e comunità in cui si articola la nostra Chiesa.
È un compito che affido a tutti, a
iniziare dai presbiteri e dai Consigli pastorali parrocchiali e decanali. È
questa una delle prime linee operative che indico all’attenzione della
Diocesi. È questo il secondo passo che, dopo la lettura e
l’assimilazione del testo di questo Percorso pastorale diocesano, mi piacerebbe
compissimo tutti nel segno della comunione e della condivisione di un cammino
comune.
Mi aspetto che in ogni
articolazione della nostra Chiesa ambrosiana – preferibilmente nell’anno
pastorale 2003-2004 e secondo un calendario e nelle modalità che in
ciascuna di esse verranno responsabilmente decisi – si dia vita a questa
attenta opera di discernimento. Si tratta di verificare quanto di ciò che
siamo venuti illustrando fin qui si ritrova nella propria comunità e con quali
modalità e accentuazioni questi aspetti si riscontrano in concreto.
In questa prospettiva, va accolto
e vissuto anche il monitoraggio, promosso nelle Diocesi di Lombardia, sugli
itinerari di preparazione dei fidanzati al Matrimonio, che si svolgerà lungo
tutto l’anno pastorale 2003-2004. Nella sua concretezza e apparente
tecnicità, vuole essere un’occasione favorevole per interrogarci sulle modalità
e sui contenuti della trasmissione della fede nel Matrimonio cristiano a quei
giovani che, partendo da diverse situazioni personali di fede e di vita
cristiana, chiedono di “sposarsi in chiesa”. Ai Parroci, ai Responsabili e agli
Animatori degli itinerari per i fidanzati rivolgo l’invito a collaborare
volentieri con il Servizio per la Famiglia della nostra Curia e a interpretare
anche questa fatica come un modo, semplice ma reale, con cui mettersi in ascolto
di ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
Con fiducia, serenità e rinnovata responsabilità
15. Nel fare questo discernimento,
dobbiamo certamente cogliere la serietà, anzi la drammaticità del momento
che stiamo vivendo. Sono davvero numerose e gravi le difficoltà e le fatiche
che oggi mettono in evidenza quasi solare come l’evangelizzazione e la
trasmissione della fede costituiscano, in termini sempre più pesanti, il
“caso serio” della Chiesa. Ma, proprio per questo, il «Mi sarete testimoni» di
Cristo risorto (Atti 1, 8) manifesta oggi tutta la sua urgenza e domanda
il massimo di impegno. Sì, di impegno evangelico: di im-pegno,
cioè, che trova la sua originalità nella fiducia e nella serenità.
Dobbiamo e possiamo essere fiduciosi
e sereni perché, pur in mezzo ai profondi cambiamenti che caratterizzano la
nostra epoca, condividiamo l’atteggiamento della Chiesa che «crede… di trovare
nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia
umana» e «afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che
non cambiano», in quanto «trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è
sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli (cfr. Eb 13, 8)» (Gaudium
et spes, 10).
La nostra fiducia e la nostra
serenità affondano le loro radici nella certezza che – anche nei pur grandi e
formidabili cambiamenti che riguardano l’uomo, la sua identità e la sua
esistenza – c’è qualcosa che rimane immutato e immutabile nel variare dei
tempi, delle circostanze e dei luoghi. E questo “qualche cosa” è l’uomo,
con le domande di senso che porta dentro di sé e che riaffiorano anche quando
vengono compresse o addirittura negate. Immutato e immutabile rimane,
soprattutto, Cristo Signore, “fondamento” vivo e personale di ogni
nostra speranza. Rimane Cristo con la sua incontrovertibile assicurazione:
«Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Matteo
28, 20). E con «la potenza della sua risurrezione» (Filippesi 3, 10).
Rimane allora immutata e immutabile la pretesa del Vangelo – una pretesa
non arbitraria ma fondata sulla verità della creazione – di offrire all’uomo di
oggi e di domani la risposta autentica e definitiva, che è Gesù Cristo vero
uomo e vero Dio, rivelazione piena del mistero di Dio e del mistero
dell’uomo.
Dobbiamo e possiamo essere
fiduciosi e sereni anche perché non partiamo da zero. Di fronte al
mutare del contesto culturale e dell’influsso che tale cambiamento ha sulla
situazione e sulla trasmissione della fede, rimangono vivi e vitali alcuni
atteggiamenti e prassi pastorali. Anzi, è già in atto, almeno in qualche
misura, quella “conversione pastorale” che ci si presenta come
particolarmente urgente e non rinviabile. È vero che non mancano momenti e
situazioni di pigrizia, di stanchezza, di stagnazione e di immobilismo, ma è altrettanto
vero che, nella maggior parte dei casi, non mancano buona volontà e lodevoli
tentativi di innovazione. La nostra situazione può essere paragonata a quella
delle sette Chiese di cui parla l’Apocalisse (cfr. Apocalisse 1-3).
Sì, ci sono anche tra di noi
concezioni e mentalità incompatibili con la vera tradizione cristiana. Non
mancano sintomi preoccupanti di mondanizzazione, di perdita della fede
primitiva e di compromesso con la logica del mondo. Anche delle nostre comunità
si può dire che, a volte, hanno «abbandonato» il loro «amore di prima» (cfr. Apocalisse
2, 4). Ma, insieme, si può e si deve dire che non tutto è perduto: c’è
ancora qualcosa che rimane e chiede di essere ripreso, riscoperto, valorizzato
e rinvigorito. È qualche cosa che la potenza salvifica di Gesù sa assumere
e rendere partecipe della sua vittoria (cfr. Giovanni 16, 33).
In questo senso, mentre coltiviamo
atteggiamenti di serenità e di fiducia, sentiamo rivolta anche a noi la parola
di Gesù che ci invita a conversione e a nuova responsabilità:
«Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire» (Apocalisse 3,
2). Nel dilagare delle novità c’è, dunque, da rimanere fedeli alla tradizione
che risale alle origini. C’è da tornare alla fede e allo slancio di un tempo.
C’è da affrontare senza paura le difficoltà e le fatiche. C’è da affidarsi con
umiltà grande a Dio, nella certezza di trovare in lui la grazia per la
conversione e la forza per il cambiamento, oltre che l’alleato più interessato
e fedele perché il Vangelo sia testimoniato e annunciato in tutto il mondo e a
ogni persona.
Da tutto questo nasce, urgente e
improcrastinabile, il bisogno di dare vita a un nuovo risveglio missionario,
di rispondere con rinnovato ardore alla vocazione apostolica e missionaria, che
il Battesimo ha stampato indelebilmente nel cuore del nostro essere. È lo
stesso discernimento sulla situazione a indicarci questa strada come quella da
percorrere. Se oggi si è “pienamente” consumata la rottura tra Vangelo e
cultura, ciò non significa affatto che tale rottura si è consumata
“irrimediabilmente” e “definitivamente”. Anzi, è proprio la consumazione di
questa rottura a esigere un’instancabile e rinnovata scelta missionaria. A
chiedere, cioè, che il Vangelo sia sempre più interpretato, testimoniato e
annunciato come l’unica realtà capace di plasmare e cambiare la cultura – ogni
cultura, compresa quella oggi dominante –, liberandola dalle sue secche e
rendendola vera perché autenticamente e pienamente rispondente alla dignità
della persona umana e alla genuina identità del mondo e della storia.
Proprio perché oggi il mondo
sembra essere sordo e chiuso all’annuncio del Vangelo, occorre ridire questo
stesso Vangelo con più forza e con più convinzione. E con più
entusiasmo! Occorre farlo per amore di Dio e per amore vero a questo mondo
e a quanti lo abitano.