Mi sarete testimoni - Capitolo
secondo
Capitolo secondo
Tu sei il Cristo, il
Figlio del Dio vivente
Gesù Cristo è il “cuore” dell’evangelizzazione e della
fede
16. Scrive
sant’Ambrogio: «Come sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio
di bene; che annunziano la pace! (cfr. Is 52,
7; Rm 10, 15). Chi sono quelli che recano il lieto annunzio se non
Pietro, se non Paolo e gli apostoli tutti? Che cosa ci annunziano se non il
Signore Gesù? Egli è la nostra pace, egli è il nostro sommo bene: perché è
buono e procede dal Padre buono… Venga questo bene nella nostra anima,
nell’intimo della nostra mente, perché Dio dà generosamente a coloro che glielo
chiedono. Egli è il nostro tesoro, la nostra via, sapienza e giustizia nostra.
Egli il nostro pastore, anzi il buon pastore. Egli è la nostra vita. Vedi
quanti beni si assommano in uno solo? Tutto questo ci annunziano gli
evangelisti. Lo stesso Signore Gesù è dunque il sommo bene annunziato dai
profeti, predicato dagli angeli, promesso dal Padre, evangelizzato dagli
apostoli. Egli venne a noi… e per primo ci recò un lieto annuncio di bene…
Andiamo dunque a colui che è il sommo bene… Egli è il sommo bene che non ha
bisogno di nulla ed è ricco di tutto. È talmente ricco che “dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto” (Gv 1, 16) e in lui siamo colmati, come dice
l’evangelista » (Lettera 11, 29, 6-9).
«Che cosa ci annunziano se non il
Signore Gesù?». Sì, il “cuore” dell’evangelizzazione è la persona stessa di
Gesù Cristo. Lui è l’annunciato, la “buona notizia”, il Vangelo vivo e
personale.
«Andiamo dunque a colui che è il
sommo bene». Sì, il “cuore” della fede è la persona stessa di Gesù Cristo.
Lui è l’accolto, il creduto, l’approdo di ogni aspirazione al bene e alla
felicità. La fede, infatti, è libera e amorosa adesione a Gesù Cristo, il
Figlio di Dio fatto uomo; è comunione personale con lui; è condivisione della
sua “pienezza” di grazia.
Gesù Cristo, il “cuore” dell’evangelizzazione
17. Come scrive il Catechismo della
Chiesa Cattolica, «la trasmissione della fede cristiana è innanzitutto
l’annunzio di Gesù Cristo, allo scopo di condurre alla fede in lui. Fin
dall’inizio i primi discepoli sono stati presi dal desiderio ardente di
annunziare Cristo: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e
ascoltato” (At 4, 20). Essi invitano gli uomini di tutti i tempi ad
entrare nella gioia della loro comunione con Cristo: “Ciò che era fin da
principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri
occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita …, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi
siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo
Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta”
(cfr. 1Gv 1, 1-4)» (n. 425).
Ma chi è Gesù, il “cuore”
dell’annuncio e della fede? Facciamo nostra, mossi dalla grazia dello Spirito
Santo e attratti dal Padre, la confessione di Pietro a Cesarea di
Filippo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16, 16).
In realtà, la confessione di Pietro continua oggi nella Chiesa fondata
da Cristo: ogni credente – in un certo senso – prolunga e rinnova nel tempo la
stessa confessione di fede dell’Apostolo. Anzi, è questa stessa fede, che si
prolunga e si rinnova in quella del singolo credente: «In tutta la Chiesa
Pietro dice ogni giorno: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,
16) e ogni lingua che confessa il Signore è formata dal magistero di questa
voce» (San Leone Magno, Discorso
3).
Con le sue parole, Pietro
compendia – e così faranno anche gli Apostoli e la Chiesa lungo il trascorrere
dei secoli – il “mistero”, ossia le «imperscrutabili ricchezze di
Cristo» (Efesini 3, 8).
È un mistero che, presente da
sempre nella Trinità, si è venuto manifestando nella storia del mondo e
che assume il volto di Gesù di Nazaret. Nella fede così lo possiamo
riconoscere e confessare:
Gesù Cristo è il Verbo eterno di
Dio,
che vive da sempre presso il
Padre,
nel quale e per mezzo del quale
tutte le cose sono state create.
Unigenito e prediletto Figlio di
Dio,
preannunziato dai profeti e atteso
dalle genti,
al tempo del re Erode
e dell’imperatore Cesare Augusto,
è nato a Betlemme,
facendosi uomo,
per opera dello Spirito Santo,
nel grembo verginale di Maria.
Vissuto a Nazaret come figlio del
carpentiere,
ha percorso le strade di Palestina
annunciando il Regno di Dio,
guarendo molti malati e facendo
del bene a tutti.
Dopo averci lasciato il suo Corpo
e il suo Sangue
nell’Eucaristia,
tradito da uno dei suoi,
processato dal Sinedrio e davanti
a Ponzio Pilato,
è stato flagellato e condannato a
morte.
Fu crocifisso
e, con la sua morte, ha vinto il
peccato
e ha riconciliato gli uomini
con il Padre e tra di loro.
Disceso agli inferi,
sperimentò la profondità della morte
e portò la salvezza agli uomini di
tutti i tempi.
Il terzo giorno risuscitò da
morte,
distruggendo la morte e rinnovando
la vita.
Salito alla destra del Padre,
dove condivide in pienezza la sua
gloria,
è il Vivente che vive per sempre
e dona la vita agli uomini,
comunicando loro il suo Spirito.
Presente e operante nella sua
Chiesa,
è colui che viene continuamente
nel mondo
mediante la missione e l’azione
della Chiesa stessa
e che, alla fine dei tempi,
ritornerà glorioso,
come giudice dei vivi e dei morti,
per dare la vita eterna a coloro
che credono in lui,
resi pienamente partecipi della
sua risurrezione,
e per ricapitolare in sé tutte le
cose.
È proprio contemplando questo
“mistero” che possiamo riconoscere, comprendere e accogliere l’assoluta
novità e unicità di Gesù, nei confronti di qualsiasi realtà, persona o
religione, e la sua totale singolarità e irriducibilità a qualunque
altro profeta, capo religioso o presunta divinità. Gesù è ciò che di più
“inaudito” e “impensabile” e “incomprensibile” ci possa essere, perché nessuna
persona al mondo ha mai udito che un Dio si sia fatto uomo, nessuna mente umana
ha mai potuto immaginare quanto solo la gratuita e amorevole “fantasia” di Dio
ha generato, nessuna realtà e nessuna potenza creata possono capire fino in
fondo l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità di questo mistero e,
tanto meno, possono pretendere di possederlo e dominarlo.
Di questa “novità assoluta”,
che è il Signore Gesù, due sono gli aspetti che qui vogliamo riprendere e
mettere in luce: Gesù è vero Dio e vero uomo; Gesù è l’unico, universale e
necessario Salvatore dell’uomo e del mondo.
Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo
18. Gesù è vero Dio e vero uomo! La
fede ci consente di affacciarci – con umiltà e trepidazione grandi e, comunque,
in una oscurità non totalmente superabile – sull’abisso di questo “mistero”: «E
il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua
gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Giovanni
1, 14).
Nell’unione intima e
indissociabile di queste due realtà – il Verbo e la carne, la gloria divina e la sua
tenda tra noi – sta l’identità unica e singolare di Gesù Cristo: «una
persona in due nature», la persona del Verbo eterno nella natura divina e in
quella umana (cfr. Concilio di Calcedonia del 451). Così recita il
Simbolo detto “atanasiano”: «Questa è la nostra fede: credere e proclamare che
il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo. Dio dalla sostanza
del Padre, generato prima di tutti i secoli; uomo dalla sostanza della Madre,
nato nel tempo. Dio perfetto, uomo perfetto, composto di umana carne e di anima
spirituale. Uguale al Padre secondo la divinità, minore del Padre secondo
l’umanità; e, benché sia Dio e uomo, non ci sono due, ma c’è un unico Cristo…
Questa è la fede cattolica: solo chi crederà con perseveranza e fermezza potrà
essere salvo».
Ai credenti viene data, nella
Chiesa, la grazia di poter condividere la fede dell’Apostolo: «Come l’apostolo
Tommaso, la Chiesa è continuamente invitata da Cristo a toccare le sue piaghe,
a riconoscerne cioè la piena umanità assunta da Maria, consegnata alla morte,
trasfigurata dalla risurrezione: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani;
stendi la tua mano, e mettila nel mio costato” (Gv 20, 27). Come
Tommaso, la Chiesa si prostra adorante davanti al Risorto, nella pienezza del
suo splendore divino, e perennemente esclama: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,
28)» (Novo millennio ineunte, 21).
C’è un aspetto di particolare importanza
derivante dal fatto che Gesù è vero Dio e vero uomo. È questo: la visione di
Dio e del suo mistero (teologia) e la visione dell’uomo e della sua
dignità (antropologia) si incontrano e si saldano indissolubilmente
nella persona stessa di Gesù (cristologia). Si incontrano e si saldano
così indissolubilmente e felicemente che – se si prescinde dalla persona
concreta, viva, operante e trasformante di Gesù – non si può comprendere né la
verità di Dio né quella dell’uomo. Allo stesso modo, prescindendo da Gesù
Cristo, la vita dell’uomo è irrimediabilmente votata al non senso, alla
inutilità e, ultimamente, alla morte senza rimedio. Come scrive il Concilio,
«Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo
amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni
uomo…» (Gaudium
et spes, 22).
In tal modo Gesù, nella sua
carne santa e santificante, salva e redime la stessa umanità dell’uomo
(cfr. Novo millennio ineunte, 23). Per questo, la fede cristiana non può
non intercettare, in modo nuovo e radicale, la vita dell’uomo e della società.
La illumina nella sua verità integrale, la libera, la salva, la esalta, la
rende capace di vivere in modo perfetto il disegno di Dio sull’uomo e sul
mondo.
Ecco perché – nonostante
pregiudizi, paure e affermazioni contrarie, che troviamo in una parte non
piccola della nostra società e cultura – il Vangelo e la fede non sono
mai – né possono esserlo! – “contro” l’uomo, il suo bene, la sua
felicità. Sono, invece, – e devono esserlo! – sempre e solo “a
favore” dell’uomo, del suo bene vero, della sua felicità autentica. Ce lo
ricorda anche il Concilio che, in un suo testo semplicissimo e folgorante, così
esprime il fecondissimo rapporto tra la fede in Cristo e il “compimento”
dell’uomo: «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo» (Gaudium
et spes, 41). Se e quando ciò non accade, è perché il Vangelo annunciato e
la fede professata non rimangono pienamente fedeli alla loro verità originaria
e vedono così sminuita, o addirittura quasi azzerata, la loro intima forza
salvifica e, quindi, la loro energia umanizzante.
19. Tutto questo dice la grandezza
e la bellezza della fede cristiana: vale davvero la pena di
credere! Credendo, diventiamo più uomini e ci realizziamo in pienezza.
Lungi dall’essere un peso o, peggio ancora, una schiavitù, la fede cristiana è
la fortuna più grande a cui l’uomo possa aspirare, è il dono più bello di cui
l’uomo possa godere, è il senso più autentico che la vita dell’uomo possa
sperimentare.
Che il Padre, nella sua bontà e
misericordia, doni a noi cristiani di essere, per primi, pienamente convinti di
ciò. Ci conceda di esserne testimoni umili e limpidi, capaci di attrarre anche
altri in questo vortice di gioia e di amore. Ci dia di irradiare attorno a noi,
ogni giorno e soprattutto nelle situazioni maggiormente scosse dalla paura e
dal dolore, quella fiducia, serenità, speranza e pace che ci sono donate dal
suo Figlio Gesù e dal suo Spirito.
Tutto questo dice anche che l’evangelizzazione
e la trasmissione della fede sono un grande gesto di amore all’uomo!
Lo conducono e lo aiutano a condividere, con chi crede, la stessa gioia e
pienezza di vita.
Ma, non poche volte, questa opera
missionaria incontra resistenze e sordità. Appare difficile e fragile nella
nostra situazione culturale, perché è largamente diffusa la certezza che la
realizzazione piena dell’uomo dipende dalle sue conoscenze e capacità tecniche.
L’uomo di oggi, infatti, si crede l’unico e indiscusso artefice del proprio
perfezionamento e della propria felicità e va cercandoli dentro di sé e
mediante le sole sue forze. Quando poi si accorge – come capita sovente – che
questa è solo un’illusione, l’uomo o cade nella disperazione o si accontenta di
piccole e fragili gioie passeggere, cercate e raggiunte mediante forme diverse
di piacere, spesso di stampo edonistico.
Tutto ciò dice l’esistenza di un
terreno arido, non immediatamente aperto all’annuncio della Buona Notizia di
Gesù. Ma, nello stesso tempo, può presentare una significativa opportunità da
cogliere: lo stesso terreno, in realtà, si mostra, seppure inconsciamente,
assetato di un’acqua ristoratrice e vivificante. Quest’acqua, «che zampilla per
la vita eterna» (cfr. Giovanni 4, 14), è proprio Gesù e il suo Vangelo!
Gesù Cristo, l’unico, universale e necessario
Salvatore
20. Gesù è l’unico, universale e
necessario Salvatore dell’uomo e del mondo! Lo è perché è vero Dio. Dio
solo, infatti, può salvare, perché lui è l’unico redentore e liberatore, il
solo che può dare vita, perdono e gioia. Lo è perché è vero
uomo. In lui
tutto ciò che è umano è stato assunto e, proprio per questo, viene purificato,
sanato ed elevato fino a essere “divinizzato”.
Come ci dice l’evangelista
Giovanni, Gesù è il solo che ci rivela il Padre: «Dio nessuno l’ha mai
visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha
rivelato» (Giovanni 1, 18). È il solo che ci dona l’amore e la vita
del Padre: «in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini… a quanti
l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio» (Giovanni 1,
4.12). È il solo che ci riconduce al Padre: «Nessuno viene al Padre se
non per mezzo di me» (Giovanni 14, 6).
Come ci dice l’apostolo Paolo,
Gesù è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini: «uno solo, infatti, è
Dio, e uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù che ha
dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Timoteo 2, 5-6). Alle autorità
religiose giudaiche che interrogano gli Apostoli sulla guarigione dello
storpio, da lui operata, Pietro risponde: «Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno,
che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta
innanzi sano e salvo… In nessun altro c’è salvezza: non vi è infatti
altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale sia stabilito che
possiamo essere salvati» (Atti 4, 10.12).
L’affermazione di Pietro, rivolta
al Sinedrio, ha un valore propriamente universale, perché per tutti – giudei e
pagani – la salvezza non può venire che da Gesù Cristo. Sì, al di fuori di
Cristo «via universale di salvezza che non è mai mancata al genere umano,
nessuno – come scrive sant’Agostino – è mai stato liberato, nessuno viene
liberato, nessuno sarà liberato» (La Città di Dio, 10, 32.2). E questo
poiché – ce lo ricorda il Concilio con frasi appassionate e incisive – il
Signore Gesù «è il fine della storia umana, “il punto focale dei desideri della
storia e della civiltà”, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la
pienezza delle loro aspirazioni» (Gaudium et spes, 45).
21. Proprio perché è l’unico Salvatore
di tutti, Gesù ci è assolutamente necessario. Egli è la grande, vera
e unica “ricchezza” della Chiesa e dell’umanità. È una ricchezza infinitamente
superiore all’oro e all’argento; è la sola capace di ridare vita, come attesta
l’apostolo Pietro guarendo lo storpio: «Non possiedo né argento né oro, ma
quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (Atti
3, 6). Gesù è il vero tesoro nascosto nel campo, è la vera perla di
grande valore, per avere i quali occorre essere pronti a vendere ogni cosa
(cfr. Matteo 13, 44-46). Come ci ha ricordato sant’Ambrogio: «Egli è il
sommo bene che non ha bisogno di nulla ed è ricco di tutto» (Lettera 11,
29,9).
Gesù è necessario alla
Chiesa!
Senza di lui, la Chiesa non esiste e non vive, perché da lui prende origine, di
lui è ripresentazione e continuazione nella storia, a lui continuamente rivolge
il suo sguardo, da lui si attende forza e salvezza, a lui e alla comunione
piena, beata e beatificante con lui è da sempre e totalmente finalizzata e
chiamata. Di Gesù la Chiesa è il Corpo, è la Sposa. E lui è il suo Tutto!
Gesù è necessario a ogni
uomo! Senza
di lui, l’uomo non può conoscere la verità del suo essere e del suo destino,
non può comprendere pienamente che cosa è bene e che cosa è male, non può
scoprire e ritrovare le ragioni vere della fraternità tra gli uomini e i
popoli, non può garantire la giustizia e trovare il grande bene della pace, non
può cogliere il senso della sofferenza, non può superare la disperazione della
morte, non può aprirsi alla speranza di una vita senza fine.
Gesù è necessario
all’intera società! Senza di lui, la convivenza sociale pone le sue fondamenta sulle sabbie
mobili di valori troppo deboli perché continuamente negoziabili, si perde nelle
secche del relativismo, dell’indifferentismo e del nichilismo agnostico,
consumista ed edonista, è attraversata da paure e solitudini, rischia di
smarrire ogni fiducia nel futuro, si abbandona ad atteggiamenti di
irresponsabile sfruttamento della natura, finisce per calpestare i diritti
dell’uomo, specialmente dei più deboli, vede affievolirsi la solidarietà e cade
in forme inaccettabili di chiusura e di discriminazioni, rende fragili le
radici della democrazia, non può aprirsi al perdono e alla riconciliazione che,
con la giustizia, possono far sbocciare e assicurare la pace.
Signore, salvami!
22. Enormi e decisive sono le conseguenze
che scaturiscono da quanto fin qui abbiamo detto.
Se Gesù è l’unico, universale e
necessario Salvatore dell’uomo e del mondo, ogni uomo ha iscritto dentro
di sé, in modo nativo e indistruttibile, il “diritto” a conoscere Gesù
Cristo e a incontrarlo. Si tratta di un diritto “irrinunciabile”: se l’uomo
vi rinuncia, non può realizzarsi in pienezza, secondo la sua autentica natura e
il suo originario destino. Lo stesso diritto appartiene, altrettanto
nativamente e indistruttibilmente, alla società, poiché essa esiste come
l’ambito proprio e naturale nel quale ogni persona umana può vivere secondo la
sua altissima e inviolabile dignità.
Nello stesso tempo e
inscindibilmente, sulla Chiesa e sui cristiani – che, per gratuito amore di
Dio, hanno ricevuto il dono di conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo – incombe
il gravissimo e irrinunciabile “dovere” di annunciare e testimoniare lo
stesso Signore Gesù. Quanto abbiamo ricevuto gratuitamente, dobbiamo darlo
gratuitamente (cfr. Matteo 10, 8). Ci aiuti il Signore a sentire quanto
sia urgente e responsabilizzante la parola di san Paolo che, nella sua passione
apostolica e missionaria, diceva di se stesso: «Non è… per me un vanto
predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il
vangelo!» (1 Corinzi 9, 16).
Lo stesso Signore ci doni di
avvertire che tutto questo, prima e più che un dovere, è per noi, ancora più
radicalmente, un insopprimibile “bisogno del cuore”. Come Paolo diciamo:
«Anche noi crediamo e perciò parliamo» (2 Corinzi 4, 13). Come tenere
solo per noi la gioia e la fortuna – anzi, la grazia! – di conoscere Gesù e di
amarlo? Non è possibile! Se la tenessimo solo per noi, la no-stra stessa gioia
non sarebbe piena (cfr. 1 Giovanni 1, 3).
Proprio per realizzare questa
“effusione”, la Chiesa è stata mandata dal Signore a tutti gli uomini. Essa sa
– come scriveva Paolo VI – che «la fede è dono di Dio» e che «Dio solo segna
nel mondo le linee e le ore della sua salute. Ma la Chiesa sa d’essere seme,
d’essere fermento, d’essere sale e luce del mondo. La Chiesa avverte la sbalorditiva
novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della
storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui mancate» (Ecclesiam
Suam, 200).
23. Dobbiamo, tuttavia, riconoscere
che oggi tutto questo incontra non poche né piccole difficoltà. Mancano alcune
condizioni perché l’annuncio di Gesù come unico, universale e necessario
Salvatore sia percepito e accolto come “il grande dono” di cui non si può fare
a meno. Spesso manca addirittura “la condizione delle condizioni”. L’uomo
contemporaneo – e talvolta anche il cristiano! – non sente il bisogno di
“essere salvato”; non sente il bisogno di “un” salvatore, anzi “del” Salvatore.
Nella cultura oggi dominante, la
realtà della salvezza non viene percepita nella sua importanza, nella sua
urgenza, nella sua assoluta necessità. Una mentalità profondamente
secolarizzata induce l’uomo a coltivare sogni, speranze e traguardi che
rimangono imprigionati nell’orizzonte di una visione dell’uomo dimezzata e
immanentistica, chiusa cioè a ogni trascendenza e a ogni dimensione di
eternità. Lo induce anche a ritenere che questi sogni, speranze e traguardi
sono pienamente raggiungibili con le sue sole forze. L’uomo di oggi, dunque,
non sembra anelare alla salvezza. E, se vi anela, crede di potersi salvare da
solo.
Ma è proprio questa situazione a
mostrare come sia ancora più necessario e urgente far brillare nel cuore
dell’uomo il sogno di una salvezza vera e proporgli il nome e il volto,
cioè la persona, dell’Unico che può pretendere di regalargliela.
È quanto può avvenire aiutando
l’uomo a rientrare in se stesso. Solo così può riconoscere con onestà
che la sua esistenza è continuamente alla rincorsa, spesso affannosa, di
soddisfare gli innumerevoli desideri che avverte e coltiva dentro di sé.
E può anche riconoscere che questi stessi desideri non fanno altro che
moltiplicarsi a dismisura, se non trovano un approdo pacificante, capace di
comprenderli e di purificarli tutti, perché tutti li supera, li trascende e li
invera.
Ed è proprio a questo punto che
anche l’uomo contemporaneo, nonostante tenti in ogni modo di nasconderlo o di
negarlo, può riconoscere quella profonda “nostalgia” che abita il suo cuore. È
la nostalgia di Dio, nel quale ogni desiderio e ogni aspirazione possono
placarsi, perché non c’è essere umano che non venga da lui e non sia fatto per
lui. Non c’è uomo o donna che possa non condividere e non fare propria la
parola rivelatrice e consolante di sant’Agostino: «Tu ci hai fatto per te, o
Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te» (Confessioni,
I, 1).
Signore Gesù, lo confessiamo con
tutto l’ardore del nostro cuore: “Tu ci sei necessario!”. Ma, a volte,
viviamo come se potessimo fare a meno di te, come se non avessimo bisogno della
tua salvezza. Aiutaci a rivolgerti con verità le parole che Pietro, impaurito,
ti gridò un giorno sul lago di Tiberiade: «Signore, salvami!» (Matteo
14, 30). Salvaci, o Signore, perché senza di te noi siamo perduti (cfr. Matteo
8, 25).
Questa stessa invocazione
salga dal cuore e dalle labbra dell’uomo di oggi. È emancipato e si crede
indipendente, ma ha assoluto bisogno di te! Forse non lo sa o non lo vuole
riconoscere, ma senza di te non troverà la felicità alla quale anela e per la
quale è stato creato. Possa la nostra testimonianza di persone salvate, ma
costantemente bisognose di salvezza, spronare questo stesso uomo a ritrovare la
sua vera grandezza e libertà proprio riconoscendo in te solo il suo unico e
necessario Salvatore. Anch’egli, con cuore umile e fiducioso, possa ripetere
la stessa invocazione che dà serenità e gioia: “Signore, salvami!”.
24. La realtà personale di Gesù Cristo
vero Dio e vero uomo e, conseguentemente, il suo essere l’unico, universale e
necessario Salvatore dell’uomo e del mondo sono le verità che il Vangelo,
con tutta la rivelazione biblica, ci propone e che la Chiesa,
lungo tutta la sua storia, ha accolto e continuamente riproposto.
L’ha fatto fin dalle sue origini,
esprimendo e trasmettendo la propria fede con formule brevi e normative per
tutti, di cui abbiamo traccia nello stesso Nuovo Testamento (cfr. Romani 10,
9; 1 Corinzi 15, 3-5). L’ha fatto nel corso dei secoli e in risposta ai
bisogni più urgenti delle diverse epoche, mediante compendi organici e
articolati – chiamati “professioni di fede” o “Credo” – consegnati ai credenti
come “Simboli della fede”, come il “segno distintivo”, la “tessera di
riconoscimento” dei cristiani in mezzo a tutti gli altri uomini e tra tutti i
credenti.
È
necessario che tutti noi conosciamo in modo integrale e profondo quanto la
Chiesa ci propone di credere e che ci riconosciamo in queste stesse verità, che
nascono da Gesù, quale Vangelo vivo e personale, e che a lui rimandano. Solo
così possiamo essere cristiani autentici, pronti a vivere con coraggio ed
entusiasmo l’impegnativa e affascinante missione della testimonianza e
trasmissione della fede.
Proprio per sollecitare e favorire
tutto questo – come avevo promesso nella Veglia “in traditione Symboli” del 12
aprile 2003 – nelle prossime settimane pubblicherò una “Spiegazione del
Credo”, che chiedo a tutte le comunità parrocchiali e alle altre
diverse realtà ecclesiali di fare oggetto di ripresa e di catechesi –
soprattutto per i giovani e gli adulti – preferibilmente lungo l’anno
pastorale 2003-2004, o in uno degli altri anni pastorali del triennio.
Gesù Cristo, il “cuore” della fede
25. Come è il “cuore”
dell’evangelizzazione, così Gesù Cristo è il “cuore” della fede, che è
l’ascolto del Vangelo. A Dio che – in Gesù Cristo, come vero Dio e vero uomo e
come unico, universale e necessario Salvatore – viene incontro all’uomo, l’uomo
risponde liberamente mediante la fede. Questa è, più precisamente, la risposta
cosciente e libera al dono del «Dio invisibile [che] nel suo immenso amore
parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli ed
ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum, 2).
La fede cristiana è risposta a
una parola. Ma questa parola ha un nome e un volto: è il Signore Gesù,
«il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione» (Dei Verbum, 2)! La
fede è tutta centrata solo su Gesù Cristo: lui ne è il principio, il
contenuto, il termine vivo e personale. Con la fede, l’uomo diventa
interlocutore di Dio e amico di Cristo ed è ammesso alla comunione intima
d’amore e di vita con lui. È a questa intimità che pensa sant’Ambrogio quando
scrive: il Verbo di Dio è tenuto stretto «dalle braccia della fede», perché «è
con la fede che si tocca Cristo; è con la fede che si vede Cristo» (Esposizione
del Vangelo secondo Luca, II, 59; VI, 57).
Ritroviamo, dunque, tutta la
ricchezza e la pregnanza nascoste in questo dinamismo della fede!
Gesù è sì la parola di Dio,
alla quale si risponde nella fede. Ma, più precisamente, Gesù è la parola pronunciata,
la parola che si fa carne crocifissa e gloriosa, la parola che genera
la vita nuova mediante il dono dello Spirito. Ecco il triplice e unitario
contenuto centrale di tutta la fede cristiana, colta nella sua autenticità e
novità: l’ascolto della Parola, l’incontro personale con Gesù nei
Sacramenti e nella preghiera, l’obbedienza al precetto evangelico
dell’amore che serve e si dona.
Il vero volto del credente
è, quindi, quello del discepolo, dell’amico, del servo per amore. Ne troviamo
una concreta e suggestiva illustrazione in tre notissimi passi biblici. Il
primo, nella figura di Maria sorella di Marta, descrive il credente come discepolo
della Parola di Dio, che è Gesù stesso: «Maria, sedutasi ai piedi di Gesù,
ascoltava la sua parola» (Luca 10, 39). Il secondo passo, nella figura
dei discepoli di Emmaus, indica nel credente l’amico di Gesù,
che lo incontra nella preghiera e, nell’Eucaristia, lo riconosce e diventa suo
commensale: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione,
lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero»
(Luca 24, 30-31). Il terzo e ultimo passo, presentandoci l’esempio di
Gesù che lava i piedi agli apostoli (cfr. Giovanni 13, 13-15), delinea
il volto del credente come colui che serve con umiltà e dona se stesso
fino alla fine, in obbedienza al nuovo comandamento dell’amore.
26. Come si vede, la fede,
nella sua straordinaria ricchezza, si configura come “una” e “unificante”. È
una triade indivisa e indivisibile di Parola-Sacramento-vita. È, per
così dire, una “totalità unificata”, nella quale questi contenuti sono
compresenti e tra loro indissociabili, si illuminano e si arricchiscono a
vicenda. E tutto questo perché la fede, nella sua intima articolazione, altro
non è che un riflesso splendido, nella risposta del credente, dell’unità viva e
originaria di Gesù stesso, quale Parola pronunciata-celebrata-vissuta.
L’autenticità e la maturità
della fede, allora, si misurano dalla capacità di saper custodire,
favorire, promuovere e testimoniare questa “totalità unificata”. Sono da
superarsi le tentazioni di cedere a una “parzialità disgregante”, che
seleziona, privilegiandolo e assolutizzandolo, un contenuto della fede a
detrimento degli altri. È quanto avviene allorché il credente o non si
preoccupa di ascoltare la Parola di Dio, o si concentra solo su una pratica
sacramentale o di preghiera, o abdica ai doverosi impegni della carità. Ma, in
questo modo, si finisce per impoverire, anzi per tradire, la fede stessa.
Già negli anni novanta, in
riferimento diretto non solo alla fede ma anche alle dimensioni stesse della
Chiesa, i Vescovi italiani ci proponevano l’importante obiettivo di «favorire
un’osmosi sempre più profonda fra queste essenziali dimensioni del mistero
e della missione della Chiesa. Se la comunità ecclesiale è stata realmente
raggiunta e convertita dalla parola del Vangelo, se il mistero della carità è
celebrato con gioia e armonia nella liturgia, l’annuncio e la celebrazione del
vangelo della carità non può non continuare nelle tante opere della carità testimoniata
con la vita e col servizio. Ogni pratico distacco o incoerenza fra parola,
sacramento e testimonianza impoverisce e rischia di deturpare il volto
dell’amore di Cristo» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 28).
Nella medesima linea, questa
“totalità unificata” della fede chiede di essere rispettata e promossa anche nel
processo dell’evangelizzazione e trasmissione della fede. Occorre superare
il rischio di ridurre l’educazione nella fede alla sola, pur necessaria e
fondamentale, dimensione della predicazione e della catechesi; oppure a quella,
altrettanto essenziale, della preghiera e della celebrazione liturgica e
sacramentale; o a quella, sempre indispensabile e qualificante, del servizio ai
fratelli.
Ancora più in particolare, non è vera
trasmissione della fede quella che porta a coltivare l’intimità personale con
Dio fino al punto di trascurare l’amore fattivo e concreto per il prossimo e il
servizio alla società. Non lo è neppure quella che si appassiona a tal punto
nel curare le ferite e le piaghe delle antiche e nuove povertà da non radicare
questo servizio nell’amore per Dio, nell’ascolto della sua Parola, nella
preghiera e nella celebrazione dei Sacramenti. Non dimentichiamo mai che solo
la spiritualità può animare e salvare la solidarietà e che solo la solidarietà
può dare concretezza e assicurare autenticità alla spiritualità.
Contemplare il volto di Cristo
27. L’evangelizzazione, il cui
“cuore” è Gesù Cristo, può essere definita, in termini assai semplici e insieme
quanto mai concreti e profondi, come l’impegno della Chiesa e dei cristiani di “far
vedere” il volto di Gesù Cristo agli uomini che non lo conoscono affatto o
lo conoscono solo superficialmente. Così pure la fede, il cui “cuore” è
sempre Gesù Cristo, si risolve nel “vedere” il volto del Signore,
nell’impegno del credente di guardare a questo volto con un desiderio di
conoscenza, di ammirazione, di amore, di adesione e di comunione personale con
Cristo sempre più intensi: in una parola sintetica, di contemplazione.
È questa la prospettiva che ci
offre il Papa nella sua Lettera post-giubilare. Ricordando la richiesta che
alcuni greci, recatisi a Gerusalemme per il pellegrinaggio pasquale, avevano
rivolto all’apostolo Filippo: «Vogliamo vedere Gesù» (Giovanni 12, 21),
Giovanni Paolo II scrive: «Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini
del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di
oggi non solo di “parlare” di Cristo, ma in certo senso di farlo loro
“vedere”». E conclude con un interrogativo che interpella tutti noi, membri
della Chiesa: «E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo
in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle
generazioni del nuovo millennio?» (Novo millennio ineunte, 16).
Di qui l’esigenza fondamentale per
la Chiesa e per il cristiano di tenere sempre fisso lo sguardo sul volto del
Signore, di diventare sempre più contemplatori di questo volto.
La contemplazione del volto di Gesù assume,
tra gli altri, il significato di essere una condizione essenziale e
insostituibile e, nello stesso tempo, una forza propulsiva per l’annuncio
del Vangelo. Solo se Gesù Cristo è “visto” da noi, da noi può essere “fatto
vedere” agli altri! È questa l’esperienza di Andrea, il discepolo di Giovanni
Battista, che, dopo aver visto dove “abitava” Gesù, coinvolge nella sua
esperienza il fratello Simon Pietro. Come scrive l’evangelista: «Egli incontrò
per primo suo fratello Simone, e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia (che
significa il Cristo)” e lo condusse a Gesù…» (Giovanni 1, 41-42). È la
stessa esperienza di ogni autentico credente: non può “vedere” Cristo, senza
avvertire dentro di sé il bisogno irresistibile di “farlo vedere” anche agli
altri; non può incontrare veramente Cristo, senza sentirsi spinto ad
annunciarlo. Come diceva Paolo VI: «Chi è stato evangelizzato a sua volta
evangelizza. Qui è la prova della verità, la pietra di paragone della
evangelizzazione: è impensabile che un uomo abbia accolto la Parola e si sia
dato al Regno, senza diventare uno che a sua volta testimonia e annunzia» (Evangelii
nuntiandi, 24).
La contemplazione del volto di Gesù
presenta, inoltre, il significato di essere la finalità dell’annuncio del
Vangelo, anzi il suo stesso contenuto: «noi non possiamo tacere
– dicono Pietro e Giovanni al Sinedrio di Gerusalemme – quello che abbiamo
visto ed ascoltato» (Atti 4, 20). Per questo, come scrivono i Vescovi
italiani, «la Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo
ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesù Cristo, parola di Dio
fatta carne» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 10).
Questo che diciamo
dell’evangelizzazione vale per tutta l’azione pastorale della Chiesa, dal
momento che il mistero di Cristo è «fondamento assoluto di ogni nostra azione
pastorale» (Novo millennio ineunte, 15). Proprio questa è la prospettiva
– semplicissima, quasi disarmante, ma assolutamente necessaria e qualificante
in senso cristiano – entro la quale il Papa pone l’intera programmazione
pastorale e spirituale della Chiesa di fronte alle grandi sfide del nostro
tempo: «Non ci seduce la prospettiva ingenua che… possa esserci una formula
magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa
ci infonde: Io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo
programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e
dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso,
da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e
trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste.
È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se
del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione
efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio» (Novo
millennio ineunte, 29).
In realtà, l’evangelizzazione non
è un semplice “parlare” di Gesù, della sua persona e del suo messaggio. È
propriamente un “comunicare” Gesù stesso, un rendere cioè possibile l’incontro
vivo e personale di Gesù con l’uomo e dell’uomo con lui. È questo un incontro
che passa attraverso la “rivelazione”, ossia lo “svelamento” del volto di
Cristo a chi ancora non lo conosce o lo conosce solo imperfettamente. A sua
volta, la conoscenza legata a questo incontro – una conoscenza che coinvolge il
tutto della persona: corpo e mente, cuore e spirito – conduce a una ulteriore e
sempre progressiva conoscenza.
La contemplazione del
volto di Gesù
assume, ancora, il significato di essere il contenuto del progressivo
cammino di fede, il frutto e la misura della sua maturazione. In questo
senso, si possono comprendere l’augurio e la preghiera dell’Apostolo agli
Efesini: «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e
fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia
l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di
Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza
di Dio» (3, 17-19).
La contemplazione del volto di
Gesù stimola il credente a sviluppare un interessantissimo itinerario di
vita spirituale che, attraverso diverse tappe, conduce a una
“assimilazione” sempre più ampia e profonda dei “sentimenti” di Gesù (cfr. Filippesi
2, 5). Occorre, anzitutto, una preghiera umile e fiduciosa, che faccia
propria la spiritualità dell’orante di Israele e dei santi: «Di te ha detto il
mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco» (Salmo
27[26], 8). La preghiera, a sua volta, accende il desiderio del credente
di “cercare” il Signore, lo sostiene e lo rende forte e perseverante di fronte
alle difficoltà e alle crisi che può subire la ricerca di Cristo. E quando
Cristo si fa “trovare”, occorre vigilanza perché lo si può perdere, e occorre
coraggio per “trattenerlo” con «i vincoli dell’amore, le briglie della mente,
l’affetto dell’anima», come scrive sant’Ambrogio (La verginità, 67).
In particolare, nell’ambito
dell’annuncio del Vangelo e della trasmissione della fede, rileviamo la
necessità di contemplare il volto di Gesù come “il missionario del Padre”.
Come ci ha ricordato Paolo VI, «Gesù medesimo, Vangelo di Dio, è stato
assolutamente il primo e il più grande evangelizzatore. Lo è stato fino alla
fine: fino alla perfezione e fino al sacrificio della sua vita terrena.
Evangelizzare: quale significato ha avuto questo imperativo per Cristo? Non è
certo facile esprimere, in una sintesi completa, il senso, il contenuto, i modi
dell’evangelizzazione, quale il Cristo la concepiva e l’ha realizzata. D’altra
parte, questa sintesi non potrà mai essere terminata» (Evangelii nuntiandi,
7).
Paolo VI stesso, nella sua
Esortazione appena citata, ci presenta «alcuni aspetti essenziali» di questa
sintesi (cfr. nn. 8-12). Questi aspetti sono, per così dire, come i lineamenti
che compongono e illuminano il volto missionario di Gesù. Su di questi siamo
invitati a fissare gli occhi del nostro cuore credente da Giovanni Paolo II,
che, nell’enciclica Redemptoris missio, ci rimanda alle pagine del Vangelo:
queste, nel narrare la missione di Gesù, presentano sì punti in comune o
un’unità fondamentale, ma anche accenti caratteristici o «un certo pluralismo…
anche frutto della spinta dinamica dello stesso Spirito» (n. 23). In questo
senso, invito a ricorrere ai non pochi studi biblici che ci possono essere di
prezioso aiuto nel coltivare l’avventura spirituale della contemplazione del
volto missionario di Cristo.
Gesù Cristo, l’insuperabile
28. Gesù Cristo è il “cuore”
dell’evangelizzazione e della fede. È il “cuore”! Questo termine vuole
certamente dire che Gesù Cristo è il “centro”, il “fondamento”, il “nucleo”
essenziale e irrinunciabile dell’annuncio del Vangelo e della risposta di fede.
Ma, nel linguaggio comune, il termine “cuore” richiama immediatamente altri
significati che, a una lettura di fede, risultano non meno ricchi e stimolanti.
Il “cuore” è il principio che dà vita e imprime dinamismo, è il simbolo
dell’amore.
Sì, sei tu, o Cristo Signore, che,
in quanto Vangelo fatto carne, dai origine, vita e calore all’annuncio del
Vangelo e generi e accresci la fede nel credente. Tu, con l’effusione dello
Spirito, infondi e alimenti il dinamismo proprio dell’evangelizzazione e della
fede. Con il dono del tuo Spirito e la forza del Vangelo, tu fai ringiovanire
la tua Chiesa e la rinnovi continuamente (cfr. Lumen gentium, 4). Sei tu
che, con l’annuncio del Vangelo e con la fede, riveli e comunichi l’amore del
Padre, quale ragione unica del disegno eternamente pensato e voluto da Dio per
l’uomo e per il mondo (cfr. Efesini 1, 1ss).
A questo “cuore”, che è Gesù
Cristo, la Chiesa e l’uomo sono chiamati a rispondere, a rispondere col
loro “cuore”. Sono chiamati, cioè, ad accogliere in libertà crescente Gesù
Cristo, precisamente come “cuore” dell’evangelizzazione e della fede e, dunque,
nella sua assoluta novità, unicità e irriducibilità.
Con tutta la forza del nostro
“cuore” – con intima convinzione e adesione totale – confessiamo che Gesù
Cristo, e solo lui, è il sommo bene. Niente dentro di noi e
attorno a noi vale più di Gesù. Nessuno, neppure il più grande della
terra, vale più di Gesù. Lui è l’insuperabile!
Tutto dobbiamo essere disposti a
perdere, pur di non perdere Cristo! È questo l’esempio luminosissimo di Paolo:
«Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a
motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla
sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho
lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di
guadagnare Cristo e di essere trovato in lui…» (Filippesi 3, 7-9).
Con gioia prorompente, facciamo
nostri le parole e l’animo di Paolo VI, il cantore innamorato di Cristo e della
sua assoluta unicità e necessità nella storia del mondo e nella vicenda
dell’uomo:
«Gesù è al vertice delle
aspirazioni umane, è il termine delle nostre speranze e delle nostre preghiere,
è il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, è cioè il Messia,
il centro dell’umanità, Colui che dà un senso agli avvenimenti umani, Colui che
dà un valore alle azioni umane, Colui che forma la gioia e la pienezza dei
desideri di tutti i cuori, il vero uomo, il tipo di perfezione, di bellezza, di
santità, posto da Dio per impersonare il vero modello, il vero concetto di uomo,
il fratello di tutti, l’amico insostituibile, l’unico degno di fiducia e di
ogni amore: è il Cristo-uomo.
E nello stesso tempo Gesù è alla
sorgente d’ogni nostra vera fortuna, è la luce per cui la stanza del mondo
prende proporzioni, forma, bellezza ed ombra; è la parola che tutto definisce,
tutto spiega, tutto classifica, tutto redime; è il principio della nostra vita
spirituale e morale; dice che cosa si deve fare e dà la forza, la grazia per
farlo; riverbera la sua immagine, anzi la sua presenza in ogni anima che si fa
specchio per accogliere il suo raggio di verità e di vita, che cioè crede in
Lui e accoglie il suo contatto sacramentale; è il Cristo-Dio, il Maestro, il
Salvatore, la Vita. […]
Gesù è per tutti, per ogni singola
anima, per ciascuno di noi; e per ogni singolo popolo: ogni stirpe, ogni
nazione, civiltà lo può raggiungere, lo può avere; anzi lo deve raggiungere, lo
deve avere; Gesù è per tutti» (Allocuzione all’udienza generale del 3
febbraio 1965).