Mi sarete testimoni - Capitolo terzo   

Mi sarete testimoni - Capitolo terzo   

Capitolo terzo

 

Come il Padre ha mandato me,

anch’io mando voi

La missione di Cristo continua nella sua Chiesa

 

 

 

29.    Gesù Cristo, con amore libero e gratuito, ha scelto la Chiesa come suo “sacramento”, segno e strumento della salvezza, e l’ha resa partecipe della sua stessa missione di annuncio del Vangelo. Ma come Cristo ha scelto la sua Chiesa?

Prima di salire al cielo, Gesù risorto si rivolge ai suoi discepoli con queste parole programmatiche, affida loro una consegna, imparte un comando: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Marco 16, 15). È quanto, a suo modo, riferisce Luca all’inizio degli Atti degli Apostoli: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (Atti 1, 8).

 

Partecipi e continuatori della missione di Cristo

 

Il comando di Gesù rimanda a un dono: lo Spirito Santo, frutto della sua morte in croce. Come ci ricorda Giovanni, la sera di Pasqua, il Risorto viene incontro ai suoi nel cenacolo e, dopo aver mostrato loro le mani e il fianco con i segni della sua crocifissione, dice loro: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Giovanni 20, 21).

Così la missione di Gesù continua e si prolunga nella missione degli Apostoli. Essi condividono la missione di Gesù. Quella stessa missione che il Figlio ha ricevuto dal Padre, ora gli Apostoli, i discepoli, la ricevono da Cristo. Anche l’evangelista Matteo ci fa attenti a questa missione “partecipata”, introducendo il mandato missionario di Gesù con le parole: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni…» (Matteo 28, 18-19).

È una partecipazione che scaturisce e che è fatta vivere dal dono pasquale e pentecostale di Gesù. Infatti, all’affermazione «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi», l’evangelista Giovanni fa seguire il racconto di un gesto e di una parola di rinnovata “creazione”: «Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo…”» (Giovanni 20, 22). E Luca, a sua volta, introduce la consegna missionaria con la rinnovata promessa: «Avrete forza dallo Spirito Santo» (Atti 1, 8). La promessa si compie il giorno di Pentecoste: «Ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi» (Atti 2, 4).

 

Il comando missionario di Gesù ci si presenta, dunque, come frutto ed esigenza di un dono: il dono dello Spirito Santo, che costituisce gli Apostoli, i discepoli, la Chiesa come realmente partecipi della missione del Signore Gesù. Ma e il comando e il dono affondano le loro radici nell’essere stesso di Gesù, come l’inviato del Padre: il primo, grande e, in certo senso, unico missionario del Padre. E sono radici che si situano nell’insondabile mistero delle “relazioni personali” di cui vibra, dall’eternità, la vita intima della Trinità, del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

 

30.    Così il volto missionario di Cristo si riflette, con il dono e la forza dello Spirito, sul volto missionario della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha voluto iniziare il suo importante “Decreto sull’attività missionaria della Chiesa” con uno sguardo al mistero trinitario di Dio: «La Chiesa peregrinante è missionaria per sua natura, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il piano di Dio Padre. Questo disegno scaturisce dall’“amore fontale”, cioè dalla carità di Dio Padre, che essendo il principio senza principio, da cui il Figlio è generato e lo Spirito Santo attraverso il Figlio procede, per la sua immensa e misericordiosa benignità, liberamente creandoci e inoltre gratuitamente chiamandoci a partecipare nella vita e nella gloria, ha effuso con liberalità e non cessa di effondere la divina bontà, sicché lui, che di tutti è il creatore, possa anche essere “tutto in tutti” (1 Cor 15, 28), procurando ad un tempo la sua gloria e la nostra felicità» (Ad gentes, 2).

Tutta la ragion d’essere della Chiesa, il senso del suo esistere e operare, il fine verso cui è tutta protesa, è di mettersi e di rimanere al servizio del compiersi del disegno di Dio, condividendo l’opera salvifica di Cristo nella forza dello Spirito Santo. È l’opera missionaria della Chiesa, della Chiesa che annuncia il Vangelo e trasmette la fede di generazione in generazione.

 

È di grande importanza comprendere e approfondire il rapporto tra Cristo e la sua Chiesa nell’evangelizzazione. Solo così si potrà cogliere la singolare profondità alla quale scende l’opera evangelizzatrice della Chiesa e dei cristiani: è una profondità che raggiunge e tocca il nostro essere nelle sue stesse radici.

Si potrà, inoltre, capire la natura intima e originale, come pure le caratteristiche essenziali di quest’opera evangelizzatrice. Proprio perché è partecipazione alla missione di Cristo, la missionarietà tocca l’agire della Chiesa in quanto, più radicalmente, ne tocca l’essere, che, a sua volta, origina e struttura le sue caratteristiche essenziali. È come dire che la missionarietà non è qualcosa di esteriore, di secondario e di contingente, ma di intrinseco, essenziale e permanente: «raggiunge il cuore stesso della Chiesa» (Redemptoris missio, 62).

 

Il mistero della Chiesa “Corpo” e “Sposa” di Cristo

 

31.    Ora, il rapporto tra Cristo e la sua Chiesa si configura nel senso di un legame intimo, di un’unità viva. Un legame e un’unità talmente radicali da dover definire la Chiesa così: la Chiesa è Gesù Cristo stesso oggi vivente e operante in essa mediante il suo Spirito. In questo senso, l’apostolo Paolo, nel parlare della Chiesa, ama servirsi dell’immagine del corpo, affermando che la Chiesa è il “Corpo” di Cristo. Essa non è soltanto radunata attorno a Cristo; è unita a lui e unificata in lui. È un solo Corpo, di cui Cristo è il Capo e i cristiani sono le membra.

Riascoltiamo un commento, colmo di stupore e invitante alla gioia, di sant’Agostino: «Rallegriamoci, rendiamo grazie a Dio, non soltanto perché ci ha fatti diventare cristiani, ma perché ci ha fatto diventare Cristo stesso. Vi rendete conto, fratelli, di quale grazia ci ha fatto Dio, donandoci Cristo come Capo? Esultate, gioite, siamo divenuti Cristo. Se egli è il Capo, noi siamo le membra: siamo un uomo completo, egli e noi… Pienezza di Cristo: il Capo e le membra. Qual è la Testa e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa» (Commento al Vangelo di San Giovanni, Omelia 21, 8).

 

Ma la Chiesa è presentata anche con l’immagine della sposa: Cristo è lo Sposo e la Chiesa la sua “Sposa”. Questa nuova immagine ribadisce l’unità, ma pone in luce anche la distinzione di Cristo e della Chiesa in una relazione personale: è una distinzione per una collaborazione.

Leggiamo nella lettera agli Efesini: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (5, 25-27). L’amore di donazione di Cristo fa esistere la Chiesa e la costituisce come Chiesa santa. Ma la singolare grandezza e l’affascinante bellezza dell’amore di Cristo le vediamo e le ammiriamo nel fatto che il Signore Gesù non si limita a santificare la sua Chiesa, ma la rende collaboratrice della sua opera di santificazione. La Chiesa da “santa” diviene “santificante”.

È questo il mistero della Chiesa amata e voluta da Cristo crocifisso come “sacramento”: «dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa» (Sacrosanctum Concilium, 5). Essa è nata dal cuore trafitto di Cristo morto sulla croce, come Eva è stata formata dal costato di Adamo addormentato. La Chiesa è “sacramento” perché è segno che rivela e strumento che dona Cristo: come Sposa che splende del fulgore dello Sposo e come Madre che continua a generare Cristo nei cristiani. Ricorrendo alla suggestiva immagine del fiore, sant’Ambrogio così canta la “sacramentalità” della Chiesa: «E un fiore, vero e proprio, è la Chiesa, che annuncia il frutto, cioè il Signore Gesù Cristo» (Commento al Salmo 118/1, V, 12).

 

Nella Chiesa, i due aspetti di una salvezza-santità “ricevuta” e “donata” sono tra loro collegati. Quanto più la Chiesa si lascia salvare da Cristo, quale Sposa “vergine” – ossia tutta e sola del suo Signore –, tanto più diventa sacramento di salvezza: diventa Sposa “feconda”, Madre di grazia, compimento perfetto di Eva “la madre dei viventi”.

Tutto questo viene espresso anche con l’immagine della luce: Cristo è il Sole di giustizia, la luce delle genti, e la Chiesa è il riflesso luminoso di Cristo. Non a caso, la grande “Costituzione dogmatica sulla Chiesa”, del Concilio Vaticano II, si apre con questo solenne “incipit”: «La luce delle genti è Cristo; e questo santo Sinodo, riunito nello Spirito Santo, desidera ardentemente illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che si riflette sul volto della Chiesa, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16, 15)». E volendo mostrare la misteriosa e reale pregnanza di questo “riflesso luminoso”, che è la Chiesa stessa nel suo essere e operare, il Concilio immediatamente precisa: «La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1).

Nella medesima prospettiva dell’evangelizzazione e trasmissione della fede – dopo aver ricordato che ai credenti è chiesto non solo di “parlare” di Cristo ma, in un certo senso, di farlo “vedere” agli uomini del nostro tempo –, Giovanni Paolo II scrive: «E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?» (Novo millennio ineunte, 16).

È questa una prospettiva cara ai Padri della Chiesa e, in particolare, al nostro sant’Ambrogio. La Chiesa viene presentata con l’immagine del rapporto tra il sole e la luna. Soltanto il sole brilla di luce propria. La luna, che è totalmente relativa al sole, non brilla di luce propria, ma riflette la luce che riceve dal sole. Il senso dell’immagine è allora questo: la Chiesa riceve in dono i raggi luminosi che vengono da Cristo e, a sua volta, li ridona al mondo. Ecco come sant’Ambrogio propone la Chiesa mysterium lunae: «La luna ha proclamato il mistero di Cristo… E veramente come la luna è la Chiesa, che ha diffuso la sua luce in tutto il mondo e illumina le tenebre di questo secolo… Questa è la vera luna, che dalla luce del sole deriva il lume dell’immortalità e della grazia. La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo e prende il proprio splendore dal Sole di giustizia» (Esamerone 4, 32).

 

La Chiesa, comunità evangelizzata ed evangelizzante

 

32.   Nella prospettiva che stiamo seguendo, diciamo che, proprio per il suo essenziale rapporto con Cristo, la Chiesa è “comunità evangelizzata ed evangelizzante”.

È evangelizzata, perché nasce dall’azione evangelizzatrice di Gesù e degli Apostoli. Ne è il frutto voluto dal Signore: «Il Signore Gesù diede inizio alla sua Chiesa predicando la Buona Novella, cioè la venuta del Regno di Dio da secoli promesso nelle Scritture» (Lumen gentium, 5). Ne è il frutto più immediato e più visibile: «Allora coloro che accolsero la parola [di Pietro] furono battezzati e circa tremila persone si unirono ad essi… Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (Atti 2, 41.47).

È evangelizzante perché, nata dalla missione, la Chiesa è inviata da Gesù, da lui mandata ad evangelizzare. Come scrive Paolo VI, «La Chiesa resta nel mondo, mentre il Signore della gloria ritorna al Padre. Essa resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova presenza di Gesù, della sua dipartita e della sua permanenza. Essa lo prolunga e lo continua. Ed è appunto la sua missione e la sua condizione di evangelizzatore che, anzitutto, è chiamata a continuare…» (Evangelii nuntiandi, 15).

 

La Chiesa, proprio perché evangelizzata, è evangelizzante.

E tale è, innanzitutto, nei riguardi di se stessa. «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare “le grandi opere di Dio”, che l’hanno convertita al Signore, e d’essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo» (Evangelii nuntiandi, 15).

La Chiesa è evangelizzante in quanto è depositaria della Buona Novella, che deve annunciare agli uomini. Il Signore Gesù affida a lei questa Buona Novella come un deposito vivente e prezioso, non perché lo tenga nascosto, ma perché lo comunichi a tutti.

Ed è evangelizzante, ancora, perché invia gli evangelizzatori. È sempre Paolo VI a scrivere: la Chiesa «mette nella loro bocca la Parola che salva, spiega a loro il messaggio di cui essa stessa è depositaria, dà loro il mandato che essa stessa ha ricevuto e li manda a predicare: ma non a predicare le proprie persone o le loro idee personali, bensì un Vangelo di cui né essi, né essa sono padroni e proprietari assoluti per disporne a loro arbitrio, ma ministri per trasmetterlo con estrema fedeltà» (Evangelii nuntiandi, 15).

 

Così la Chiesa, nella misura in cui si lascia evangelizzare dal Vangelo vivente, che è Cristo Signore, e nella misura in cui porta la Buona Notizia agli uomini, si edifica come Chiesa, voluta appunto da Cristo come comunità credente e chiamata a trasmettere la fede. La Chiesa, che nasce ed è per l’evangelizzazione, da questa stessa evangelizzazione viene quotidianamente costruita.

La parrocchia nel “mistero” della Chiesa

 

33.   Ma di quale Chiesa stiamo parlando? Di quella voluta da Cristo: della Chiesa universale, dunque, e delle Chiese locali, le Diocesi – la nostra Diocesi di Milano –, nelle quali «è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» (Christus Dominus, 11).

Parliamo anche della parrocchia, che «è l’ultima localizzazione della Chiesa, è in un certo senso la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie», secondo la descrizione che ne fa l’Esortazione di Giovanni Paolo II Christifideles laici (n. 25), riproponendo quanto scrive il Concilio: «le parrocchie costituite localmente sotto la guida di un pastore che fa le veci del Vescovo… rappresentano in certo modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra» (Sacrosanctum Concilium, 4).

Quanto abbiamo sinora detto della Chiesa, in rapporto a Cristo e nel suo essere comunità evangelizzata ed evangelizzante, lo possiamo e lo dobbiamo dire – in un certo senso – anche delle nostre comunità parrocchiali. E questo è vero già da un punto di vista dell’esperienza comune e della concretezza storica, perché noi incontriamo la Chiesa universale e diocesana proprio nelle nostre parrocchie. Ma questo è vero anche, e specificamente, dal punto di vista di una lettura di fede, la sola che ci fa raggiungere la profonda e originale natura della comunità cristiana parrocchiale.

 

Questa natura – lo vogliamo precisare – non è certo quella di una parrocchia “chiusa in sé stessa”, come talora può capitare di ritenere, cadendo in una sorta di “parrocchialismo”, da superare e respingere. È, piuttosto, quella che presenta la parrocchia come comunità strettamente unita alle altre comunità parrocchiali, pienamente inserita nel decanato e realmente partecipe della vita e della missione della Diocesi, in un’ottica di reale “pastorale d’insieme”. Ed è anche quella di una comunità nella quale vanno riconosciuti, accolti, valorizzati e promossi, perché siano effettivamente al servizio dell’utilità comune (cfr. 1 Corinzi 12, 7), tutti i doni e i carismi delle singole persone e delle diverse realtà aggregative (associazioni, gruppi e movimenti).

In questo senso, il vero volto della parrocchia, il “mistero” stesso della Chiesa presente e operante in essa, è questo: «Anche se a volte povera di persone e di mezzi, anche se altre volte dispersa su territori quanti mai vasti o quasi introvabile all’interno di popolosi e caotici quartieri moderni, la parrocchia non è principalmente una struttura, un territorio, un edificio: è piuttosto “la famiglia di Dio, come una fraternità animata dallo spirito d’unità”, è “una casa di famiglia, fraterna ed accogliente”, è la “comunità di fedeli”. In definitiva, la parrocchia è fondata su di una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica. Ciò significa che essa è una comunità idonea a celebrare l’Eucaristia, nella quale stanno la radice viva del suo edificarsi e il vincolo sacramentale del suo essere in piena comunione con tutta la Chiesa» (Christifideles laici, 26).

Si deve allora concludere che il volto missionario della Chiesa può e deve diventare, secondo il disegno del Padre e il mandato di Cristo, il volto missionario della comunità parrocchiale. In termini ideali – ma di un ideale che è normativo – questo volto può essere delineato con i seguenti tratti: la comunità cristiana, mediante l’esercizio del sacerdozio profetico e regale di tutti i fedeli, «diventa segno della presenza di Dio nel mondo: infatti nel sacrificio eucaristico essa passa incessantemente al Padre in unione con il Cristo, zelantemente alimentata con la parola di Dio rende testimonianza del Cristo, cammina nella carità ed è ricca di spirito apostolico» (Ad gentes, 15).

34.   Ma il quadro ideale chiede di entrare nel vissuto concreto, per ispirare, plasmare e determinare di fatto i vari impegni e le diverse attività delle nostre comunità parrocchiali finalizzati all’annuncio del Vangelo e alla trasmissione della fede.

Si fa necessario, anche qui, un rinnovato discernimento delle situazioni reali delle nostre parrocchie: un discernimento destinato non solo a fotografarle nei loro dati, ma anche ad assumerle nei loro compiti, nella loro “pro-vocazione” operativa, riconoscendo in esse una “chiamata di Dio”. Questo è il discernimento che vogliamo aiutare e sollecitare con il presente documento.

Saranno, in particolare, i successivi capitoli – quali “tappe” del nostro Percorso pastorale diocesano per il prossimo triennio – ad aiutare questo stesso discernimento. Alla luce di una lettura della situazione realizzata nella fede, cercheremo, infatti, di mettere in luce le scelte fondamentali ed essenziali da fare – sia a livello di mentalità, sia sul piano pratico-operativo – affinché le nostre parrocchie – nella concretezza del loro vissuto e, dunque, mediante la loro pastorale ordinaria e comune – assumano sempre più e meglio un autentico volto missionario.

 

È, d’altronde, questa la sfida, quanto mai attuale e seria, presente nel nostro Sinodo 47°. Il testo sinodale indica proprio nella assunzione e nello sviluppo della dinamica missionaria una delle direzioni fondamentali per attuare il necessario rinnovamento della stessa pastorale parrocchiale. Lo fa, dopo aver sottolineato che la parrocchia, in quanto «è la comunità dei fedeli che rende visibile la missione della Chiesa in un determinato territorio», costituisce «il luogo della pastorale ordinaria, nella quale la fede può diventare accessibile a tutti e ad ogni condizione di esistenza» (cost. 136, 1.2).

Risentiamo come salutare provocazione quanto scrive lo stesso Sinodo a tale proposito: «Se vuol essere veramente se stessa, la parrocchia non può non vivere tutta la sua azione pastorale secondo un’ottica propriamente missionaria. Occorre, pertanto, ravvivare in tutte le componenti della comunità parrocchiale la convinzione che la cura pastorale, quando è svolta con la coscienza che la Chiesa deve accompagnare gli uomini e le donne al Signore Gesù, è per sua natura missionaria». È questa – precisa ancora il Sinodo – una prospettiva particolare del nostro tempo: «Soprattutto il momento attuale colloca le parrocchie in stato di missione: è quindi urgente che la pastorale parrocchiale sia contrassegnata da un impulso missionario verso coloro che non hanno ancora accolto il Vangelo nella propria vita, o non lo ritengono più significativo» (cost. 150, 1).

Quella della dinamica missionaria è, peraltro, una delle essenziali caratteristiche e dimensioni iscritte nella stessa immagine di parrocchia quale comunità che rende visibile la Chiesa e la sua missione in un determinato territorio. Proprio il riferimento al territorio – in concreto, a tutte le persone e le famiglie che abitano in un particolare spazio geografico e a tutte le attività che vi si svolgono – comporta e, di conseguenza, impegna a una uguale e specifica attenzione verso tutti, compresi i non praticanti e i non battezzati, e verso ogni condizione di vita. Tale riferimento, soprattutto nelle circostanze attuali, costituisce il primo e più prossimo spazio missionario della parrocchia, lo scopo e l’obiettivo che la sua vita e la sua azione non possono mai perdere di vista.

 

Il volto delle nostre parrocchie:

appello per un nuovo slancio missionario

 

35.    Per operare questo discernimento, occorre, innanzitutto, conoscere la situazione reale ed effettiva delle nostre comunità e rendersene sempre meglio consapevoli. Il dato di partenza è quello di parrocchie che continuano a presentarsi come luogo di conservazione e di gestione della fede dei loro abitanti. In questo tipo di pastorale, c’è sempre stata e continua a esserci – anche se oggi si è fatta più difficile e faticosa – la trasmissione della fede, una trasmissione, però, spesso concepita in e per un contesto di popolazione credente e, in parte, anche praticante.

In questa azione pastorale, non sono mancate e non mancano anche tante lodevoli iniziative di “aggiornamento” e si sono spesso moltiplicati i tentativi e gli sforzi per rinnovare in profondità l’azione pastorale stessa. Ma, in tutto questo, continua ad essere in agguato un rischio da non sottovalutare affatto: quello che la preoccupazione pastorale sia totalmente, o quasi, assorbita dalla cura dei credenti che vengono e partecipano alla vita e alle iniziative della parrocchia, senza passare – se non troppo poco e troppo lentamente – alla linea di una reale innovazione, di una più decisa penetrazione e dinamica missionaria.

 

Vent’anni fa, il cardinale Carlo Maria Martini, nella sua lettera pastorale Partenza da Emmaus, dopo l’amara constatazione che «sono più le pecore fuori che non quelle che, con tanta fatica, seguiamo nella pastorale ordinaria», concludeva: «Dobbiamo effettivamente riconoscere che, nella gran parte dei casi, le nostre comunità parrocchiali sono così ricche di attività organizzative e amministrative, di iniziative tradizionali, di movimento di persone che ruotano attorno al prete, da poter vivere, se lo volessero, quasi di autoconservazione, al riparo da forti preoccupazioni missionarie. Di tanto in tanto il pensiero dei lontani, di coloro che non sono raggiunti dalle iniziative parrocchiali, di coloro che non conoscono il Vangelo, ci attraversa la mente, ci dà una stretta al cuore, ci ispira desideri apostolici; ma poi viene rapidamente cancellato dalle mille incombenze quotidiane. Il rischio per la vita parrocchiale è di venire privata a poco a poco di forti e drammatiche stimolazioni e di adagiarsi nella ripetizione dei gesti e dei riti» (n. 6).

In questi vent’anni si è certamente modificato, e non poco, il volto pastorale e missionario delle nostre comunità parrocchiali. Anzitutto nella loro “composizione cristiana”: le parrocchie oggi sono molto meno “monolitiche” od “omogenee”; esse sono, invece, molto più “composite” ed “eterogenee”, per la compresenza di credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, cattolici e seguaci di altre confessioni e religioni. Dobbiamo pure riconoscere con gratitudine che si sono accentuati gli sforzi e le iniziative per fare delle nostre parrocchie delle comunità “più aperte” e, dunque, più impegnate nella linea dell’innovazione.

Rimane comunque tuttora valido – anzi oggi appare ancora di più in tutta la sua gravità e urgenza – quanto il Papa asseriva in termini categorici al Convegno ecclesiale di Palermo del 1995: «Il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione». In questa prospettiva, sono sempre più largamente avvertite l’urgenza e la necessità di una strategia pastorale nuova: una strategia che deve fondarsi e strutturarsi su di una coscienza missionaria nuova.

 

Educare a una coscienza missionaria nuova

 

36.   Come ogni coscienza, anche la coscienza missionaria si radica in alcune convinzioni di fondo e fruttifica in decisioni e azioni conseguenti e coerenti. Ed esige un’educazione permanente, perché solo dalla verità e vitalità di questa coscienza missionaria potranno derivare il bene e la fecondità dell’agire missionario della comunità e dei singoli.

Iniziamo dalle convinzioni da far maturare nella coscienza cristiana. Oltre a quanto è stato sinora detto in rapporto a Gesù Cristo e alla sua Chiesa, ci limitiamo a esplicitare un aspetto particolare, che riguarda la fede, come risposta libera dell’uomo all’annuncio del Vangelo. La fede è veramente il punto fondamentale, qualificante, decisivo della missionarietà e, in radice, della stessa coscienza missionaria. Sono divenute ormai classiche le affermazioni di Giovanni Paolo II: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!»; «La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi» (Redemptoris missio, 2 e 11).

È urgente e indispensabile che la fede cristiana sia riscoperta, custodita e promossa nella sua “valenza missionaria”, meglio nella “grazia” e nella “responsabilità” missionarie che racchiude in se stessa. Sì, la fede cristiana o è missionaria o non è fede cristiana!

 

Evidentemente, la fede è da intendersi nel senso di quella “totalità unificata” o “triade indivisa e indivisibile” di cui abbiamo parlato, dal momento che la fede è, inscindibilmente, fede professata-celebrata-vissuta.

La fede è, anzitutto, il “sì” alle parole di Gesù. E, tra le sue parole, di cui non dimenticarsi mai, sta, non ultima, il mandato missionario: «Andate in tutto il mondo…». Ancora più radicalmente, la fede è il “sì” alla persona stessa di Gesù, Parola fatta carne. È il “sì”, dunque, a Gesù come l’unico, universale e necessario Salvatore dell’uomo e del mondo: un “sì” dal quale non può non sprigionarsi, irresistibile ed entusiasmante, l’impegno missionario, perché la salvezza di Cristo possa giungere a tutti e a ciascuno.

La fede, inoltre, è il “sì” ai gesti e segni sacramentali, a Cristo stesso “sacramento fontale”, che dona una salvezza che è per tutti. La comunione con Gesù salvatore, quale è data nei suoi Sacramenti, viene scossa da un interiore e insopprimibile dinamismo missionario. Come scriveva il grande teologo e santo, Tommaso d’Aquino, la grazia di Cristo è gratia tendens in alios, una grazia cioè che, per sua natura, costituisce un bene e un dono per tutti ed è, per suo intimo dinamismo, orientata a raggiungere tutti.

La fede, infine, è il “sì” al comandamento nuovo dell’amore, di un amore che serve e si dona secondo la legge nuova e la forza dello Spirito Santo. È un amore, questo, che vuole dare agli uomini il bene, a iniziare dal bene più prezioso e necessario, che è la salvezza.

Possiamo rilevare un altro essenziale e originario aspetto della fede cristiana: questa è «il pensiero di Cristo» in noi (cfr. 1 Corinzi 2, 16). È la sua stessa mentalità, quale nuovo criterio di giudizio e, quindi, di decisione e di azione. È la sapienza evangelica, è la sapienza della Croce.

Ora, il credente, che vive la propria esistenza secondo la mentalità e le esigenze morali e spirituali del Vangelo, si trova inevitabilmente “confrontato” con gli altri, in particolare con gli altri che, non poche volte, sono dominati e imprigionati da una cultura non evangelica o, addirittura, antievangelica. Lo rilevava già l’apostolo Paolo, parlando dei cristiani come «figli della luce e figli del giorno», chiamati, come tali, a non partecipare alle opere infruttuose delle tenebre ma a condannarle apertamente (cfr. Efesini 5, 8-11; 1 Tessalonicesi 5, 5-6).

Proprio questo confronto esige, in primo luogo, la coerenza con sé stessi, possibile solo con una fede più convinta e forte. Esige, di conseguenza, la testimonianza e, quindi, la prontezza a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cfr. 1 Pietro 3, 15). Esige, infine, l’annuncio del Vangelo.

Scelte per una pastorale missionaria

 

37.   Passiamo ora dalle convinzioni alle decisioni e alle azioni da vivere. Queste sono una concretizzazione della valenza missionaria propria di tutta la pastorale della Chiesa, in particolare della sua opera ordinata all’evangelizzazione e trasmissione della fede. È da ripetersi, per la pastorale, ciò che abbiamo detto già della fede: la pastorale cristiana o è missionaria, o non è pastorale cristiana!

Tutto ciò vale per la stessa pastorale cosiddetta della conservazione e della gestione dell’esistente. Questa, se non viene impoverita e assolutizzata, rimane ancora un valore e un dovere. In ogni caso, però, è chiamata a rinnovarsi radicalmente. Tale rinnovamento, tuttavia, non va inteso nella linea della “contrapposizione”, ma della “armonizzazione”. La conservazione e gestione dell’esistente, cioè, è chiamata ad armonizzarsi intimamente con l’innovazione. Anzi, in un certo senso, è necessario e urgente inserire l’innovazione nella conservazione, come il Vangelo dice di «ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli [che] è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Matteo 13, 52). Tale inserimento comporta che la cura degli stessi credenti non dimentichi affatto i non credenti, ma abbia una particolare attenzione proprio per loro. E ciò esige, tra l’altro, un triplice impegno.

 

Anzitutto, l’impegno di formare gli stessi cristiani – a iniziare dai pastori e da coloro che si preparano a diventarlo – a essere testimoni e annunciatori coerenti del Vangelo, sostenendo quel confronto con gli altri, di cui abbiamo sopra detto. È un confronto che, spesso, assume il volto dello scontro e dell’urto – un urto che non dobbiamo mai cercare, né provocare, ma che possiamo incontrare perché messo in atto dagli altri –, della discriminazione, dell’emarginazione, dell’ostilità: della “persecuzione”, dunque. Non si dimentichi poi che i credenti sono da formarsi non solo alla partecipazione alla vita parrocchiale, ma anche e non meno alla partecipazione al vivere sociale nei più diversi ambienti di vita. Questi, è noto, sono ambienti spesso segnati da una cultura estranea o contraria al Vangelo, anzi, talvolta, estranea o contraria persino agli stessi valori ed esigenze dell’autentica umanità dell’uomo.

Un secondo impegno consiste nel riconoscere, valorizzare e sviluppare tutte le potenzialità in ordine all’azione e alla penetrazione missionarie che, spesso, sono già presenti, seppure allo stato più o meno latente, nelle iniziative promosse attraverso la nostra pastorale ordinaria. Nella stessa gestione e cura dell’esistente, infatti, non mancano possibilità di incontrare persone che non credono e di andare loro incontro, vivendo un’accoglienza, una vicinanza, una relazione che possono facilmente aprire la strada, nel rispetto della libertà di ciascuno, alla testimonianza gioiosa e coraggiosa della fede e allo stesso annuncio esplicito del Vangelo.

Insieme con questi compiti, non può e non deve mancare, infine, l’impegno – sostenuto dalla fantasia e dall’audacia di cui lo Spirito Santo non priva mai la sua Chiesa – di trovare strade nuove, di tentare iniziative inedite, di mettere in atto sperimentazioni studiate e realizzate nel segno della saggezza, della comunione e del coraggio. Di tutto questo ha particolarmente bisogno l’odierna azione pastorale se, come deve, vuole prendersi concretamente cura di quanti non credono o, pur essendo battezzati, hanno di fatto abbandonato la vita cristiana.

Ci aiuti il Signore ad aprirci sempre di più al soffio del suo Spirito, per intraprendere, con responsabilità e con rinnovata passione apostolica, quelle strade di novità che vorrà suggerirci e indicarci.

Nulla assolutamente anteponiamo a Cristo!

 

38.   Concludiamo con un importante e doveroso richiamo. Quanto abbiamo detto finora sulla Chiesa e sulla sua missione di annunciare il Vangelo e trasmettere la fede è da tenersi rigorosamente collegato con la persona viva di Gesù risorto, che dona il suo Spirito come anima e forza dello slancio missionario della Chiesa stessa.

È dal fatto che il Signore Gesù è stato voluto eternamente dal Padre come l’unico, universale e necessario Salvatore dell’uomo e del mondo e che, come tale, è entrato nella nostra storia, facendosi uomo come noi e morendo sulla croce per noi, che scaturisce per la Chiesa – e per i cristiani – la grazia e il dovere di portare a tutti questa “buona notizia” e di condurre tutti alla fede e alla salvezza. Solo un’aperta confessione di fede in Gesù Cristo e solo una contemplazione amorosa e adorante del suo volto – in particolare dell’assoluta novità, singolarità e irriducibilità di Cristo – possono generare e alimentare un autentico impegno missionario.

Per essere veramente missionarie, le nostre comunità devono credere apertamente, custodire gelosamente e vivere con perfetta coerenza l’indiscutibile “primato” di Cristo. «Nulla assolutamente anteponiamo a Cristo!», è scritto nella Regola di san Benedetto. Non si tratta semplicemente di un’esortazione per alcuni eletti, i monaci, e neppure di una obbligazione per tutti. Si tratta, più radicalmente, di una traduzione coerente e irrinunciabile di un dato unico, singolare, inoppugnabile: Gesù Cristo è l’assoluto umano di Dio! È l’insuperabile!

 

Solo la piena accoglienza di questo “primato” potrà assicurare all’opera evangelizzatrice della Chiesa e dei cristiani la sua più genuina autenticità.

E ciò significa, tra l’altro, che la passione interiore e l’entusiasmo, il servizio umile e generoso, la dedizione costante e totale, i sogni e le attese nell’impegno missionario devono essere tutti per Cristo, perché lui sia annunciato, conosciuto, amato, seguito.

La spiritualità della Chiesa evangelizzatrice, allora, non può essere se non quella di Giovanni il Battista. Egli non predica se stesso, ma il Cristo. Proclama, contro ogni possibile equivoco e fraintendimento, che non è il Cristo, ma solo colui che ne prepara la venuta e del quale non è degno neppure di sciogliere i calzari (cfr. Giovanni 1, 19-28). Afferma che tutta la sua gioia è di essere, non lo Sposo, ma l’amico dello Sposo (cfr. Giovanni 3, 28-30). È pronto, per la verità e come discepolo di tanto Maestro, a versare il proprio sangue col martirio.

Riconoscere nell’impegno missionario il “primato” di Cristo significa, inoltre, assicurare a questo impegno le caratteristiche della fiducia più coraggiosa e della serenità più grande, anche nelle situazioni umanamente più complesse, aride e deludenti. È la fiducia e la serenità di chi sa di essere semplicemente un piccolo strumento nelle mani dell’Onnipotente, che sempre fa «grandi cose» (Luca 1, 49). Di chi si abbandona alla presenza indefettibile di Cristo crocifisso e risorto e alla incondizionata fedeltà della sua parola: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo 28, 20).