Mi sarete testimoni - Capitolo
quarto
Capitolo quarto
Fate
questo in memoria di me
Per una comunità eucaristica in stato di missione
39. «Noi non
possiamo stare senza la cena del Signo-re». «Sì, sono andata all’assemblea e ho
celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana».
Pronunciate dai Martiri di Abitine, nell’Africa proconsolare, queste parole
manifestano senza ombra di dubbio quale importanza i cristiani abbiano dato,
fin dai primi secoli, alla partecipazione all’Eucaristia domenicale. L’hanno
considerata come un’esigenza irrinunciabile: «Noi non possiamo stare
senza la cena del Signore». L’hanno riconosciuta e vissuta come il più
evidente segno distintivo del loro essere discepoli di Gesù: «Ho
celebrato la cena del Signore… perché sono cristiana».
Questa ferma convinzione
ha sostenuto l’esistenza di tantissimi altri uomini e donne che, in duemila
anni di storia, hanno fatto dell’Eucaristia nel giorno del Signore il momento
più forte e significativo della loro esperienza di fede e di vita.
L’opportunità e l’appello missionari
presenti nell’Eucaristia domenicale
Ancora oggi, nonostante tutte le
difficoltà e le non poche defezioni, possiamo riconoscere che – nella grande
metropoli, nelle città e nei paesi più o meno piccoli sparsi nella nostra
Diocesi – la vita delle nostre parrocchie è scandita anzitutto dal
ritrovarsi, la domenica, per celebrare la Santa Messa.
È pur sempre rilevante il numero
di coloro che, ogni domenica, partecipano alla Messa. Sono uomini e donne di
età, cultura, ceto sociale, condizione economica e sensibilità diverse e in
situazioni personali e spirituali differenziate, che si ritrovano nello stesso
luogo per vivere una comune e identica esperienza umana e religiosa.
Il loro convergere verso una
chiesa per partecipare alla Messa è un segno di cui non è possibile non
rendersi conto in ogni contesto urbano e sociale. È un segno che si presenta
come “testimonianza di fatto” dell’esserci dei cristiani nella città, anche
nelle nostre città secolarizzate e spesso scristianizzate. È già di per se
stesso un “segno missionario”! È un segno che la fede non è venuta
totalmente meno nel nostro mondo: ci sono ancora persone che, obbedendo al
comando del Signore: «Fate questo in memoria di me» (Luca 22, 19),
riconoscono nello stesso Signore Gesù il Maestro da ascoltare e seguire.
Non possiamo, tuttavia,
nasconderci il fenomeno sempre più vistoso dell’abbandono della Messa
domenicale da parte della maggioranza di coloro che, anagraficamente, sono
cristiani. In particolare, dobbiamo registrare l’assenza abbastanza abituale di
molti adolescenti e giovani e, in modo saltuario, anche di non
pochi tra gli stessi ragazzi che si preparano ai Sacramenti
dell’iniziazione cristiana.
40. La partecipazione ancora numerosa
e, insieme, l’abbandono della Messa da parte di molti è un dato statistico e
sociologico, da precisare meglio, anche con qualche tipo di “indagine”, che ci
permetta di coglierne gli aspetti quantitativi e di individuarne le cause.
Soprattutto, è un dato da interpretare attentamente in un’ottica di sincero e
coraggioso discernimento evangelico. Proprio perché questo rimane l’elemento
più immediato ed evidente che caratterizza il volto più comune e significativo
di ogni parrocchia, è importante e sensato partire, innanzitutto, da
questo stesso dato per fare delle nostre comunità delle autentiche comunità
missionarie.
Questo stesso fenomeno ci pone di
fronte a una domanda di decisiva importanza. In queste concrete
circostanze, quale immagine di Chiesa – e, più concretamente, di
parrocchia – lo Spirito Santo vuole plasmare e ci chiede di realizzare? Quale
volto missionario di Chiesa può e deve sgorgare dall’Eucaristia celebrata ogni
domenica nelle nostre parrocchie?
Il Signore ci aiuti perché quello
che ci disponiamo a far risplendere non sia, semplicemente, il volto che noi,
pur animati da spirito evangelico, vogliamo realizzare. Ci conceda piuttosto di
impegnarci, anzitutto, a tratteggiare quel volto di Chiesa che lui stesso vuole
plasmare, con pazienza e bontà, giorno dopo giorno. Ci renda capaci di
accogliere liberamente il dono che lui stesso ci elargisce con l’Eucaristia.
Lasciamoci plasmare
dall’Eucaristia! Vinciamo la tentazione di forgiarla come vogliamo noi, secondo i
nostri gusti e desideri. Con molta umiltà, saggezza e semplicità, dobbiamo
evitare di “personalizzare” a tal punto la celebrazione della Messa da farla
diventare più una celebrazione dell’amicizia e dell’incontro fraterno che non
il memoriale della passione del Signore che ci fa Chiesa, comunità del Risorto
animata dallo Spirito e mandata nel mondo per portare a tutti la salvezza. Sia
la Messa a cambiare ciascuno di noi e le nostre comunità, i nostri gruppi! Sia
la Messa a rinnovare in noi e nelle nostre parrocchie un coraggioso e
appassionato “slancio missionario”!
Il dinamismo missionario proprio dell’Eucaristia
41. La domanda – quale volto missionario
di Chiesa può e deve sgorgare dall’Eucaristia celebrata ogni domenica nelle
nostre parrocchie? – risuona in modo ancora più impegnativo, se consideriamo le
profonde ragioni teologiche che ci mostrano la valenza missionaria propria
dell’Eucaristia. Ne ricordiamo solo alcune.
L’Eucaristia è «fonte e
culmine di tutta la vita cristiana» (Lumen gentium, 11) e, dunque, di tutta la
missione della Chiesa, una missione chiamata a dispiegarsi di giorno in giorno
fino al ritorno glorioso del Signore. È questo stesso “primato” dell’Eucaristia
a fondare e a spiegare il fatto che da essa «la Chiesa trae la necessaria forza
spirituale per compiere la sua missione. Così l’Eucaristia – afferma Giovanni
Paolo II nella sua Enciclica – si pone come fonte e insieme come culmine
di tutta l’evangelizzazione, poiché il suo fine è la comunione degli uomini
con Cristo e in Lui col Padre e con lo Spirito Santo» (Ecclesia de
Eucharistia, 22).
La celebrazione dell’Eucaristia è il
segno per eccellenza della presenza della Chiesa. «La principale
manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto
il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla
medesima Eucaristia…» (Sacrosanctum Concilium, 41). Dove c’è
l’Eucaristia, lì c’è la Chiesa. Ma se c’è la Chiesa, lì c’è Gesù Cristo, il
“cuore” dell’evangelizzazione e della fede. Dove c’è l’Eucaristia, c’è la
Chiesa nella sua identità, quale continuazione di Cristo e della sua
missione. È questa una verità semplicissima, ma nello stesso tempo quanto mai
stimolante e responsabilizzante. Il fatto stesso che in una parrocchia – come
ancora oggi avviene – ci sia e venga celebrata l’Eucaristia è un “segno” e un “pungolo”.
Un “segno”, perché dice che la missione della Chiesa è già in atto. Un
“pungolo”, perché sprona a rendere più visibile e condivisa da tutti questa
stessa missione.
L’Eucaristia rivela l’esigenza
della missione. In quanto rende presente e operante l’amore di Cristo che
si dona nel sacrificio della croce per raggiungere e salvare tutti gli uomini,
l’Eucaristia spinge e, in qualche modo, “costringe” la Chiesa a confrontarsi e
a misurarsi con lo stesso amore del suo Signore. E così la Chiesa scopre che
anche il proprio amore deve continuamente andare oltre i limiti della comunità
dei fedeli, per aprirsi a tutti gli uomini, che Cristo ama e vuole salvare.
Come ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini, «una comunità che si lascia
veramente formare dal-l’Eucaristia comprende, anzitutto, che Gesù vuole
attirare a sé tutti gli uomini. Diventa quindi una comunità che va sempre oltre
se stessa, si sente mandata da Cristo a ogni uomo, non si dà pace finché il
Vangelo della Pasqua non ha raggiunto tutte le situazioni umane» («Attirerò
tutti a me» (Gv 12,32), 43).
Mentre ne rivela l’esigenza,
l’Eucaristia rivela anche la legge fondamentale della missione:
condividere l’amore del Padre e di Gesù nei confronti degli uomini. Un amore
che va in cerca dei bisogni umani, che da questi stessi bisogni si lascia
provocare, ma insieme li assume, li purifica e li trascende. Un amore che – in
modo inaspettato e gratuito – rivela l’uomo all’uomo e lo apre all’incontro con
Dio, dischiudendogli così la possibilità di una vita piena di senso e di gioia
vera.
Abbiamo nell’Eucaristia un
enorme “potenziale” missionario, che chiede di essere riconosciuto,
valorizzato e sviluppato. Ma come fare dell’Eucaristia domenicale la prima e
fondamentale “forza propulsiva” della missione della Chiesa e dei cristiani,
della loro opera evangelizzatrice, della trasmissione della fede e della loro
presenza nella società come “anima del mondo”?
Curare, con il rito,
l’alta “qualità celebrativa” dell’Eucaristia
42. La prima strada consiste nel
promuovere e assicurare l’alta “qualità celebrativa” dell’Eucaristia.
Se l’Eucaristia è la fonte e il
culmine di tutta l’evangelizzazione; se è il “cuore pulsante” dell’azione
missionaria della Chiesa; se è “evangelizzazione in atto” e momento primario di
trasmissione della fede; se è “luogo” privilegiato e singolare di rivelazione
del volto di Gesù, il crocifisso risorto, che è presente, operante e veniente
nella Chiesa e nel mondo; se è la presenza di Gesù che, offrendo se stesso nel
sacrificio della croce, porta a compimento il suo essere il primo e, in un
certo senso, l’unico missionario del Padre…, allora la sfida più grande,
che investe ogni comunità parrocchiale e ogni assemblea eucaristica, è quella
di fare della celebrazione della Messa una reale manifestazione del
multiforme “mistero” di Cristo e della sua salvezza.
La sfida più grande è di celebrare
l’Eucaristia nella sua verità. Solo così potrà esprimere e sviluppare
l’enorme potenziale missionario di cui è depositaria. Solo così la comunità eucaristica
potrà essere e vivere in stato di missione.
Celebrare l’Eucaristia
nella sua verità significa permettere a tutti di sperimentare, nella fede e
attraverso l’azione liturgica, la presenza di Dio e l’incontro con la
persona viva e vivificante del Signore Gesù.
Lo stesso Signore ci doni di
rivivere, in ogni celebrazione eucaristica, l’esperienza di coloro che – come
leggiamo nell’antico Racconto delle età passate a proposito
dell’evangelizzazione della Rus’ di Kiev – il principe Vladimir aveva inviato a
visitare i centri delle varie religioni. Tornati da Costantinopoli, quei dieci
uomini così si esprimevano: «Dai Greci andammo e vedemmo dove celebravano gli
uffici in onore del loro Dio e non sapevamo se in cielo ci trovassimo
oppure in terra: non esiste sulla terra uno spettacolo talmente bello e
non ce la facciamo a darne una descrizione». E aggiungevano, indicando la
ragione del loro stupore: «Sappiamo soltanto che ivi Dio è con l’uomo e
che il loro rito è migliore che non negli altri paesi. Non possiamo
dimenticare tale bellezza».
Il Signore conceda anche a noi di
sperimentare questo “stupore” ogni volta che partecipiamo alla Messa! Ci doni
di fare dei nostri riti degli “spettacoli talmente belli” che, noi per primi,
non possiamo dimenticarne la bellezza e che altri, con noi, siano affascinati
da questa stessa bellezza e sentano nascere o crescere dentro di sé il
desiderio di prendervi parte. Ci aiuti perché ogni nostra celebrazione
eucaristica possa far esclamare a noi e agli altri: “ivi Dio è con l’uomo”.
Sarebbe questo un segno evidente che le nostre Eucaristie sono veramente in
grado di sprigionare tutto il loro potenziale missionario.
43. Il primo e ineludibile passo da
compiere è che il rito stesso appaia in tutta la sua bellezza e si
svolga secondo la sua verità. Non si tratta di sopravvalutare o di
assolutizzare l’importanza del rito. Tanto meno si tratta di cadere in un vuoto
e controproducente “ritualismo”. È, piuttosto, necessario recuperarne il
genuino valore che lo fa essere totalmente relativo al “mistero” celebrato.
Di questo “mistero” può e deve essere espressione; a questo “mistero” deve
continuamente rimandare; dell’incontro con lo stesso “mistero” è, secondo la
logica dell’incarnazione, luogo storico imprescindibile. In una parola, a tutti
coloro che lo celebrano come pure a quanti lo vedono, il rito deve permettere
di dire, con stupore, meraviglia e gratitudine: “qui c’è Dio, qui Dio è con
l’uomo, qui Dio è veramente tra noi!”. Solo se ciò avviene, la celebrazione
rituale, oltre a realizzarsi nella sua verità, si presenta come momento
“missionario”, in quanto è annuncio del Vangelo, che è Gesù Cristo stesso,
anzi in quanto è incontro vivo e personale con la persona del Signore
crocifisso e risorto.
Mettiamo, dunque, in atto ogni attenzione
pastorale affinché il senso autentico della celebrazione rituale sia sempre
rispettato e risplenda in tutto il suo valore. Non possiamo sottovalutare il rischio
reale che attraversa molte nostre comunità e che i Vescovi italiani
hanno denunciato negli “Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000”:
«Nonostante i tantissimi benefici apportati dalla riforma liturgica del
Concilio Vaticano II, spesso uno dei problemi più difficili oggi è proprio la
trasmissione del vero senso della liturgia cristiana». E precisano: «Si
constata qua e là una certa stanchezza e anche la tentazione di tornare a
vecchi formalismi o di avventurarsi alla ricerca ingenua dello spettacolare».
E, dopo aver affermato: «Pare, talvolta, che l’evento sacramentale non venga
colto», così indicano la strada da percorrere: «Serve una liturgia
insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al
tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con
gli uomini» (Annunciare il Vangelo in un mondo che cambia, 49).
Di qui la necessità di dare
sempre più spazio a quella “sapienza celebrativa”, di cui parla
il nostro Sinodo 47°. Essa «comporta: l’attuazione di tutte le condizioni che
possono aiutare l’assemblea a contemplare e a vivere il mistero che si celebra,
la conoscenza e il rispetto delle premesse e dei testi dei libri liturgici,
l’attenzione alle diverse tipologie dell’assemblea, la preparazione remota e
prossima della celebrazione, la scelta pertinente tra le diverse possibilità celebrative
offerte dai libri liturgici e la predisposizione dei ministeri necessari»
(cost. 52, 2). Sono indicazioni preziose, che vengono poi riprese e
sviluppate nelle costituzioni successive (cfr. costt. 53-55).
Ad esse rimandiamo in modo autorevole e convinto,
auspicando che si facciano le opportune e doverose verifiche, per vedere
quanto di queste indicazioni è passato nelle nostre comunità e quanto, invece,
chiede ancora di essere attuato. E questo per favorire una più decisa
espressione delle potenzialità missionarie iscritte nelle celebrazioni
eucaristiche domenicali.
In particolare, nella scia
dell’enciclica di Giovanni Paolo II “sull’Eucaristia nel suo rapporto con la
Chiesa”, vogliamo sottolineare l’importanza, anzi la necessità, di riservare
all’Eucaristia quel “decoro” che è stato simboleggiato dall’unzione
di profumo prezioso con cui Maria, sorella di Lazzaro, ha onorato il corpo di
Gesù. «Come la donna dell’unzione di Betania, la Chiesa non ha temuto di
“sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo
stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia» (Ecclesia
de Eucharistia, 48).
È questo “stupore” il primo
passo per percepire e incontrare il “mistero” e, dunque, per vivere in una
fede convinta e testimoniante l’Eucaristia che viene celebrata. Ed è a partire
da questo stesso “stupore” che si svilupperà, in modo del tutto naturale, il
bisogno insopprimibile, prima e più che il dovere, di osservare le norme
della santa Chiesa circa l’Eucaristia. Non può essere diversamente se
abbiamo vero amore per Cristo e, inscindibilmente, per la sua Chiesa e se
abbiamo a cuore il compito dell’evangelizzazione e trasmissione della fede. A
nessuno «è concesso di sottovalutare il Mistero affidato alle nostre mani: esso
è troppo grande perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio
personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione
universale» (Ecclesia de Eucharistia, 52).
Proprio perché è il tesoro più
prezioso della Chiesa, il Mistero eucaristico «non consente riduzioni né
strumentalizzazioni; va vissuto nella sua integrità, sia nell’evento
celebrativo, sia nell’intimo colloquio con Gesù appena ricevuto nella
comunione, sia nel momento orante dell’adorazione eucaristica fuori della
Messa. Allora la Chiesa viene saldamente edificata e si esprime ciò che essa
veramente è: una, santa, cattolica e apostolica; popolo, tempio e famiglia di
Dio; corpo e sposa di Cristo, animata dallo Spirito Santo; sacramento
universale di salvezza e comunione gerarchicamente strutturata» (Ecclesia de
Eucharistia, 61).
Favorire la piena espressività
dell’Eucaristia
con una vita nell’amore e con
l’ascolto della Parola
44. Tutto questo è vero e importante.
Ma non basta. Se la comunità eucaristica deve essere una comunità in stato di
missione, è necessario far sì che ogni celebrazione eucaristica raggiunga il
massimo della sua espressività. È una espressività che non può limitarsi
alla cura per la celebrazione liturgica nel suo aspetto rituale, ma deve
allargarsi al pieno rispetto della “triade indivisa e indivisibile”
di Parola-Sacramento-vita. Del resto, è quanto ci indica lo stesso comando
di Gesù: «Fate questo in memoria di me» (Luca 22, 19).
C’è, infatti, un primo, immediato
e indubbio significato di queste parole che rimanda al rito liturgico: il «fate
questo» è certamente la “ripetizione”, nel tempo e nello spazio, del
gesto di Gesù, un gesto – quello dell’ultima cena – dall’indole
chiaramente rituale, con le sue norme precise da rispettare, come quelle della
“cena pasquale”.
Nello stesso tempo, il «questo»,
che Gesù ordina ai discepoli di “fare” è qualcosa di ben più profondo e
impegnativo. È il “gesto” di Gesù nel suo significato più vero e nuovo, che
viene indicato con le parole – assolutamente originali, tanto da risultare
“dure” e, in qualche modo, incredibili e inaccettabili (cfr. Giovanni 6,
53-66) – pronunciate dallo stesso Gesù sul pane e sul vino: «Questo è il mio
corpo, che è dato per voi… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue,
che viene versato per voi» (Luca 22, 19.20). Il “gesto”, allora, è
quello dell’amore che serve e si dona, in totale obbedienza al Padre,
per la salvezza degli uomini. È il gesto del sacrificio della Croce, di
cui la celebrazione dell’ultima cena è segno profetico e anticipatore. Di
questo stesso “gesto”, Gesù – il Signore e il Maestro! – ci ha dato l’esempio,
perché noi ne seguiamo le orme (cfr. Giovanni 13, 1-15; 1 Pietro
2, 21).
In questa luce, celebrare
l’Eucaristia curandone l’alta “qualità” significa, far sì che la Messa
costituisca davvero il momento da cui scaturisce l’impegno quotidiano di
servizio ai fratelli in famiglia, nella Chiesa e nella società. Significa,
insieme, far sì che l’impegno di servizio nell’amore renda vero, e non
illusorio, l’incontro sacramentale con il Signore Gesù.
Occorre che l’amore vissuto da
coloro che partecipano all’Eucaristia si lasci plasmare dall’Eucaristia
stessa e ne assuma i tratti e le caratteristiche. È lo stesso Signore,
celebrato e incontrato nel gesto sacramentale, a spingerci in questa direzione.
Ci chiede di accogliere da lui il dono del suo amore e di impegnarci a fondo di
fronte a ogni sofferenza e contro ogni male, credendo che la vittoria ultima su
queste realtà è un dono che viene dal Padre e di cui ogni nostro gesto di bene
è partecipazione e, in qualche modo, anticipazione. Ci chiede di rivolgere il
nostro amore in modo preferenziale a quanti hanno maggiormente bisogno: a chi
soffre; a chi è malato, drogato, carcerato; a chi è solo o emarginato; a chi è
più debole e indifeso. Ci chiede di dare al nostro amore il volto della
solidarietà concreta e operante, attenta a ogni povertà e pronta a pagare di
persona, spendendo tempo, energie, intelligenza, competenza e anche soldi.
In quest’ultimo senso, dobbiamo
valorizzare anche il gesto delle “offerte durante le Messe” e quello della
“colletta” in occasione dell’annuale celebrazione di alcune “giornate”
diocesane, nazionali o mondiali.
È la stessa Eucaristia a
esigere questa “vita nell’amore”! Un amore nel segno del servizio e del dono di sé;
un amore vissuto a motivo di Cristo e nel suo nome: “in sua memoria”. Il nostro
amore, allora, assumendo il volto della carità – quale partecipazione e
rivelazione dell’amore stesso di Dio – si fa testimonianza vivente della “buona
notizia” dell’amore provvidente e misericordioso del Padre, rivelatoci in
Cristo e comunicatoci con il dono dello Spirito Santo. Si fa annuncio concreto
del Vangelo a ogni creatura, fermento di vita nuova nel mondo, strumento
privilegiato e prezioso per attrarre altri alla fede.
45. Nel comando di Gesù ai suoi
discepoli ci sono, infine, alcune parole – «in memoria di me» – che
indicano come e il rito e la vita, per realizzarsi nella pienezza della loro
verità, hanno bisogno di essere esplicitamente riferiti allo stesso Signore
Gesù. Di lui e del suo gesto devono essere trasparenza e ripresentazione. Da
lui e dal suo gesto devono essere modellati e “misurati”. A lui e al suo gesto
devono rinviare e condurre.
È quanto può avvenire allorché il
rito e la vita vengono illuminati, interpretati, raggiunti e penetrati da una
parola – la Parola Dio! –, ascoltata e annunciata. Questa sola Parola è
in grado di svelare quanto è presente nel “mistero della fede”. Essa sola può
garantire che questo “mistero” non venga impoverito o tradito. È
nell’ascolto della Parola di Dio che l’Eucaristia può essere celebrata nella
pienezza della sua verità.
Ce lo ricorda anche la nostra
liturgia ambrosiana quando, ogni domenica, ci fa recitare il “Credo”
immediatamente prima della grande “Preghiera eucaristica”. Con questo gesto
semplice, la liturgia ci dice che solo nella fede – la quale nasce dall’ascolto
della Parola di Dio e di esso si nutre – è possibile accedere al “mistero” e
celebrare il “mistero” del Corpo e del Sangue del Signore.
In questa prospettiva, la cura
dell’alta “qualità celebrativa” dell’Eucaristia comporta anche di dare il
dovuto spazio all’annuncio e all’ascolto della Parola di Dio. Questo è
premessa per una vera evangelizzazione e trasmissione della fede. Anzi, e prima
ancora, è garanzia perché l’Eucaristia sia celebrata nella fede e come gesto di
fede.
Un annuncio e un ascolto che già nella
celebrazione della Messa è presente e chiede di essere valorizzato. È
quanto può avvenire con una degna proclamazione delle letture bibliche;
mediante un’omelia adeguatamente preparata, fedele alla Parola proclamata e,
nello stesso tempo, attenta alla concreta composizione dell’assemblea, alle
domande esistenziali dell’uomo di oggi e alle problematiche socioculturali di
volta in volta emergenti; attraverso la salvaguardia di un clima di attenzione
e di raccoglimento, favorito dal rispetto dei momenti di silenzio previsti nel
rito.
Un annuncio e un ascolto, inoltre,
che domanda di diventare nutrimento quotidiano per ogni cristiano, ogni
famiglia e ogni comunità ecclesiale. Possiamo seguire la strada privilegiata
della “lectio divina”, alla quale siamo stati continuamente richiamati
lungo tutti questi anni e che il Papa ha definito come «un incontro vitale… che
fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma
l’esistenza» (Novo millennio ineunte, 39).
Un annuncio e un ascolto, infine,
che esige di farsi proposta concreta e sistematica di catechesi. Una
catechesi che deve tendere alla organicità e abbracciare ogni stagione della
vita; che è invitata a intrecciarsi sapientemente con i ritmi dell’anno
liturgico; che è chiamata a farsi comunicazione piena di amore del Vangelo di
Gesù; che sa ricercare modi e iniziative nuovi per raggiungere anche le persone
lontane e distratte; che apre e invita all’incontro con il Signore nella
preghiera e nei Sacramenti; che introduce concretamente nella vita della
comunità ecclesiale.
Educare alla coscienza della “grazia”
e del “compito” missionari dell’Eucaristia
46. C’è una seconda strada per
fare dell’Eucaristia domenicale la prima e fondamentale “forza propulsiva”
della missione della Chiesa e dei cristiani. Consiste nell’opera educativa
finalizzata a far crescere la coscienza della “grazia” e del “compito” missionari
propri del-l’Eucaristia. È un’opera educativa che non può non partire dalla
riscoperta e riproposizione dei “fondamenti” stessi di questa “grazia” e di
questo “compito”.
Lo scopo ultimo è di mostrare che
l’Eucaristia, mentre ci accoglie come discepoli, che
stanno in ascolto della Parola di Dio, e come commensali, che
partecipano alla rinnovazione del sacrificio di Gesù in croce ricevendone il
Corpo dato e il Sangue versato, ci invia nel mondo come testimoni
e missionari di Cristo risorto.
Nell’Eucaristia, noi ritroviamo e incontriamo
il sacrificio pasquale del Signore Gesù, anzi lo stesso Signore Gesù che dona
il proprio Corpo e il proprio Sangue, dona se stesso e l’intera sua vita, in
riscatto per tutti. Siamo, inoltre, resi realmente partecipi
di questo sacrificio e “mistero” di amore. Dallo Spirito Santo, che ci è
donato, veniamo conformati a Cristo: diventiamo suoi veri discepoli, che
alla sua scuola imparano da lui il segreto di una vita pienamente
realizzata perché spesa tutta nell’amore. Ed è così che, irresistibilmente,
veniamo posti alla sequela di Gesù.
È, questa, una sequela che ci fa “stare
con lui”. Quello evangelico, però, è uno “stare con Gesù” che non ha nulla
di intimistico. Il Signore stesso ci insegna che, per essere obbedienti al
disegno del Padre, occorre “andare” e portare nel mondo – a ogni uomo,
donna, popolo e situazione di vita – il suo amore che salva. Ed è così che
proprio il radunarci nella chiesa per celebrare l’Eucaristia ci
proibisce di rinchiuderci nella chiesa, ma ci obbliga a uscire dal tempio,
a uscire con l’animo profondamente missionario di chi si fa
carico della fede degli altri, di quanti credono e di quanti non credono.
È la stessa Parola di Dio,
come appare nella vicenda spirituale dei discepoli di Emmaus, ad
alludere al dinamismo missionario iscritto nella celebrazione eucaristica. Nel
gesto dello “spezzare il pane”, i discepoli “riconoscono” Gesù: «Allora si
aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Luca 24, 31). In forza di
questo “riconoscimento”, l’incontro con Gesù, già iniziato lungo la strada
quando egli spiegava loro le Scritture (cfr. Luca 24, 27.32), raggiunge
il suo culmine e la sua pienezza. Solo allora, Gesù smette di essere uno
“sconosciuto” e i due entrano in un rapporto consapevole e veramente personale
con lui. È proprio questo “incontro rivelatore” a far nascere nei
discepoli il bisogno insopprimibile di annunciarlo anche agli altri,
vincendo ogni resistenza e andando oltre ogni logica umana. Essi, che avevano
lasciato Gerusalemme per andare ad Emmaus, ora che vi sono giunti, nonostante
sia scesa la sera, «partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove
trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro», per riferire «ciò
che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il
pane» (Luca 24, 33-34).
La vicenda dei discepoli di Emmaus
si ripete ogni giorno e si ritrova profondamente iscritta nell’avventura
missionaria di tutta la Chiesa. È sempre l’evangelista Luca a suggerircelo,
situando il comando missionario del Signore – «Così sta scritto: il Cristo
dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno… Di questo voi siete
testimoni» (Luca 24, 46-49) – nel contesto di un “banchetto” con i suoi
discepoli. È un banchetto a base di pesce arrostito, provocato dallo stesso
Gesù per vincere la difficoltà dei discepoli nel riconoscerlo dopo che era
apparso in mezzo a loro (cfr. Luca 24, 36-43). L’Eucaristia è questo
banchetto! È, dunque, dalla celebrazione eucaristica che nasce la
missione della Chiesa e dei cristiani!
La riflessione teologica
conferma tutto questo e lo illustra mostrandoci come la dimensione missionaria
dell’Eucaristia trova la sua radicale spiegazione a partire da Gesù Cristo.
Egli, sulla croce, mediante il libero e totale dono di sé, ha raggiunto
il vertice della sua obbedienza al Padre e alla sua volontà, della sua
testimonianza di amore e di fedeltà a Dio, del suo essere missionario.
Sulla croce, infatti, il Signore Gesù non si è limitato ad “annunciare” con le
parole della bocca la “lieta notizia” della salvezza e della grazia. Con la sua
stessa vita, l’ha “donata”, pienamente e una volta per sempre, agli uomini di
ogni tempo e di ogni luogo, realizzando la “nuova ed eterna alleanza” nel suo
Sangue. L’Eucaristia – proprio in quanto reale ripresentazione del
sacrificio della croce offerto per tutti – inserisce vitalmente il cristiano
che vi partecipa nello stesso slancio missionario di Cristo crocifisso
e lo abilita e impegna a riviverlo, questo medesimo slancio, nella propria vita
quotidiana: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate
anche voi» (Giovanni 13, 15).
È sempre la stessa teologia,
inoltre, a mostrarci come l’Eucaristia sviluppi un movimento non solo di
“partenza” e “dispersione” – «Andate!» –, ma anche di “ritorno”,
quasi un raccogliere il frutto della missione operata dalla Chiesa. «Se la
sacra mensa – scrive J.-J. Von Allmen – è il luogo donde la Chiesa è mandata
nel mondo, essa è anche quel luogo dove essa fa ritorno dal mondo, tutta
ripiena del suo lavoro, come i discepoli dopo la pesca miracolosa». E questo –
a ben vedere – è un movimento continuo. Dall’Eucaristia si è mandati nel
mondo e dal mondo si ritorna all’Eucaristia, per essere di nuovo mandati. Ha
origine così una missione permanente, che non si conclude mai, se non
con il ritorno glorioso del Signore Gesù. Proprio per questo, la missione non è
un compito contingente e transitorio. È piuttosto il compito di sempre e sempre
attuale: un compito che definisce la Chiesa stessa e che riceve dalle
situazioni contingenti quelle accentuazioni e quelle sfide che fanno sempre
“nuova” l’evangelizzazione.
Una coscienza interpellata dai testi liturgici
47. È, infine, la liturgia, con i
testi delle sue preghiere, a mettere chiaramente in risalto l’intrinseca
dimensione missionaria del sacrificio eucaristico.
È quanto riscontriamo, in
particolare, in diverse “orazioni dopo la comunione”. Così, ad esempio, la
Chiesa prega nella Messa crismale del Giovedì santo: «Concedi, o Dio forte e
buono, che, nutriti e rinnovati dai santi misteri, diffondiamo nel mondo il
buon profumo di Cristo». Sono espressioni che indicano l’esigenza di
universalità – espressa con le parole «nel mondo» – della missione
evangelizzatrice della Chiesa. Esse, poi, precisano che l’evangelizzazione
consiste nel portare Gesù Cristo e il suo messaggio. Meglio, nel portarlo in
modo tale da “diffonderlo”, ossia da farlo penetrare in ogni piega della storia
come “il buon profumo”, come Colui che sa dare fragranza, sapore, freschezza e
gioia alla vita delle persone, rendendo questa stessa vita capace, a propria
volta, di diffondere profumo e, dunque, di essere testimonianza del Signore.
Ogni volta che partecipiamo alla
Messa, noi affermiamo l’intrinseca dimensione missionaria del-l’Eucaristia. La
affermiamo quando, nel momento centrale della preghiera eucaristica, noi
rispondiamo al celebrante, che indica nel pane e nel vino consacrati il
«Mistero della fede», con l’acclamazione: «Annunziamo la tua morte, Signore,
proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».
Pronunciando o cantando queste parole semplicissime ma essenziali, noi
riconosciamo nell’Eucaristia la persona stessa di Gesù nel mistero della sua
Pasqua. Annunciamo e celebriamo la “buona notizia” dell’amore smisurato di Dio,
che raggiunge il suo culmine in Gesù morto, risorto e veniente. Proclamiamo la
nostra fede e la trasmettiamo, gridando ai quattro venti e indicando a ogni
creatura quanto di più prezioso abbiamo avuto la fortuna di conoscere e di
ricevere da coloro che ci hanno preceduti. Anche in questo modo, la
celebrazione della Messa si pone, nella storia e nel mondo, come “evangelizzazione
in atto”, come momento sintetico e fontale, grazie al quale la Chiesa e i
cristiani vivono il loro dono e compito missionari.
C’è, poi, l’esortazione – anzi, il
comando – con cui si conclude la celebrazione di ogni Eucaristia a costituire
un preciso richiamo alla responsabilità missionaria che nasce e deriva dalla
Messa.
Nella nostra liturgia ambrosiana,
le parole del celebrante: «Andiamo in pace» alludono, anzitutto,
all’imperativo missionario del Signore Gesù – «Andate in tutto il mondo…» (cfr.
Marco 16, 15). Esse coinvolgono, in prima persona e in un’ottica di
profonda comunione e corresponsabilità, anche il celebrante, che di questo
imperativo si fa portavoce. Le parole, poi, con cui rispondiamo – «Nel nome
di Cristo» – mettono in luce come questo “andare”, in cui si racchiude
tutta l’avventura missionaria, non è a nome nostro, ma è risposta a un preciso
“mandato” che ci viene dal Signore. L’espressione «in pace», infine,
oltre a indicare lo stile della missione – uno stile fatto di amicizia, di
dialogo, di condivisione –, alludono anche a ciò che noi, attraverso l’opera
missionaria, siamo chiamati a portare nel mondo. È proprio la “pace”, lo
“shalom” biblico, la pienezza di tutti i beni messianici, che trovano nella
salvezza donata dal Signore Gesù il loro vertice e la loro sintesi.
Ancora più significative appaiono
le parole usate nella liturgia romana, che più volte abbiamo sentito e che
risuonano abitualmente anche in alcune chiese della nostra Diocesi. Sono parole
– queste formulate con l’Ite Missa est – che inducono tutti a riflettere
e a cogliere l’intrinseco dinamismo missionario iscritto nella Messa. La
traduzione comune e abituale – «La Messa è finita: andate in pace» – è
tutt’altro che indovinata. La traduzione più corretta è un’altra: “Andate,
la Messa giunge a compimento!”. Sì, “Andate”
ha un significato assai denso e pregnante: non tanto il significato cronologico
di un’azione che si è conclusa e che ora assume il tono del congedo (dimissio),
quanto piuttosto il significato teologico-pastorale di un’azione che tocca il
suo vertice e che ora inizia a espandersi con la partenza per una missione nel
mondo (missio). Sono, dunque, parole che, nella loro estrema semplicità
e sinteticità, dicono a tutti coloro che hanno partecipato alla celebrazione
dell’Eucaristia: Andate, comincia la missione!
Basterebbe cogliere la pregnanza e
la gravità di queste parole per fare davvero della partecipazione
all’Eucaristia il “principio dinamico” di una comunità parrocchiale che,
nei suoi membri e nelle sue articolazioni, vive effettivamente in stato di
missione.
Facciamoci carico di chi è assente dalla Messa
48. Ma, per prendere maggiore coscienza
del compito missionario proprio dell’Eucaristia, c’è anche da lasciarci
interrogare dal preoccupante fenomeno delle tante persone assenti dalla Messa
domenicale. È un fenomeno che ci deve mettere personalmente in discussione:
come non avvertire il compito missionario di andare a queste persone, di
raggiungerle, di incontrarle, di invitarle?
Avvertire la gravità di questo
compito missionario significa, anzitutto, prendere onesta coscienza del
fenomeno. Il Signore ci aiuti a prenderne coscienza non con l’animo freddo
e distaccato di chi, semplicemente, rileva dei numeri, ma con l’animo
appassionato di chi sa di trovarsi di fronte a un fatto che riguarda la propria
“vita di famiglia” e che non può non interessarlo da vicino e coinvolgerlo in
prima persona. Ci aiuti a riconoscere con animo addolorato che, nonostante il
grande e indefesso lavoro svolto da noi e nelle nostre parrocchie, i
cosiddetti “lontani” – i battezzati che hanno di fatto abbandonato la vita
della Chiesa, le persone che appartengono ad altre religioni e quelle che non
credono in nulla – sono ormai più numerosi dei “vicini”.
Il Signore ci doni, soprattutto,
di lasciarci interrogare e smuovere da questo dato di fatto. Fin quando, nelle
nostre assemblee eucaristiche, anche una sola sedia rimane vuota perché un uomo
o una donna – per i quali Cristo è morto e che sono invitati e chiamati a
partecipare al suo banchetto di vita – è, rimane o vuole rimanere assente, non
possiamo non interrogarci sulle nostre responsabilità. Come non sentire un
qualche rimorso? Forse questi nostri fratelli e sorelle non li abbiamo
amati abbastanza, non li abbiamo curati, istruiti, introdotti nella gioia della
fede. Forse, con i nostri difetti, il nostro comportamento, la nostra poca
gioia di essere cristiani, li abbiamo addirittura allontanati.
Se è così, il Signore ci offra il
suo perdono, che ci converte e ci rinnova. Faccia nascere e sostenga ogni
giorno dentro di noi il desiderio e la volontà di dare nuova e concreta
freschezza al nostro slancio missionario. Ci renda capaci di “cercare”
questi nostri fratelli e sorelle, di “curarci” di loro, di “amarli”, di “fare
ogni sforzo” perché nessuno resti privo del dono di verità e di salvezza che
abbiamo nelle nostre mani per donarlo loro.
Sono, questi, interrogativi e
impegni che interpellano non solo i presbiteri, ma tutti coloro che, ogni
domenica, si riuniscono per partecipare all’Eucaristia. Ciascuno è chiamato ad “accorgersi”
di queste assenze e a lasciarsi provocare da esse. Ai pastori e a
tutti coloro che, nella comunità cristiana, sono incaricati di formare gli
altri nella fede è chiesto di educarsi e di educare a farsi carico di questa
responsabilità.
Riscoprire e rilanciare il senso della domenica
49. L’Eucaristia, fonte e culmine
di tutta l’evangelizzazione, con la sua forza missionaria, non raggiunge solo
quanti vi partecipano. Neppure si presenta solo come “evangelizzazione in
atto”, interrogando e provocando coloro che vedono il “segno” dei cristiani che
si radunano ogni domenica nelle chiese per celebrare la Cena del Signore.
Essa raggiunge e investe tutto
il tempo, rendendolo “nuovo”, abitato, cioè, e animato da una Presenza e
orientato verso un compimento che va oltre il tempo stesso e lo apre a
orizzonti di eternità.
L’Eucaristia raggiunge e
investe, anzitutto, il “primo giorno della settimana”, rendendolo “Giorno del
Signore”. Lo raggiunge e lo investe trasformandolo dal di dentro e
facendolo diventare – quale modello e stimolo per ogni altro giorno della
settimana e dell’anno – un giorno che prende forma e contenuto dal dinamismo
interiore proprio della celebrazione del sacrificio eucaristico. Lo rende e lo
chiama a essere giorno dell’ascolto, della celebrazione, della
carità.
È stato così fin dagli inizi
della Chiesa. I primi cristiani – ci ricordano gli Atti degli Apostoli -
«erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione
fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (2, 42). Ed è proprio
l’esplicito richiamo alla «frazione del pane» a suggerirci di interpretare
anzitutto secondo il ritmo settimanale della domenica la frequenza di questo
loro “essere assidui”. Infatti, il giorno in cui, fin dai tempi apostolici e
dai primi secoli, i cristiani si riunivano per la “frazione del pane” è proprio
la domenica. È il «primo giorno dopo il sabato», nel quale avvenne la
risurrezione del Signore (cfr. Marco 16, 2.9; Luca 24,1; Giovanni
20,1) e nel quale, otto giorni dopo, lo stesso Gesù crocifisso e risorto
apparve ai discepoli riuniti e si fece riconoscere da Tommaso, mostrandogli i
segni della sua passione (cfr. Giovanni 20, 20-29).
Riascoltiamo una bellissima
testimonianza del secondo secolo. È di san Giustino martire: «Nel giorno, detto
del Sole, si fa l’adunanza. Tutti coloro che abitano in città o in campagna
convengono nello stesso luogo, e si leggono le memorie degli apostoli o gli
scritti dei profeti per quanto il tempo lo permette. Poi, quando il lettore ha
finito, colui che presiede rivolge parole di ammonimento e di esortazione che
incitano a imitare gesta così belle. Quindi tutti insieme ci alziamo ed
eleviamo preghiere e, finito di pregare, viene recato pane, vino e acqua.
Allora colui che presiede formula la preghiera di lode e di ringraziamento con
tutto il fervore e il popolo acclama: Amen! Infine a ciascuno dei presenti si
distribuiscono e si partecipano gli elementi sui quali furono rese grazie,
mentre i medesimi sono mandati agli assenti per mano dei diaconi. Alla fine
coloro che hanno in abbondanza e lo vogliono, danno a loro piacimento quanto
credono. Ciò che viene raccolto, è deposto presso colui che presiede ed egli
soccorre gli orfani e le vedove e coloro che per malattia o per altra ragione
sono nel bisogno, quindi anche coloro che sono in carcere e i pellegrini che
arrivano da fuori. In una parola, si prende cura di tutti i bisognosi» (Prima
Apologia a favore dei cristiani, 66-67).
La domenica “giorno della fede”
e “giorno dell’Eucaristia”
50. Proprio perché l’Eucaristia è una
celebrazione che avviene nella fede ed è essa stessa un gesto di fede, che
nasce dall’annuncio e dall’ascolto della Parola di Dio e in questa Parola trova
il suo alimento, la domenica – quale giorno che trae la sua origine e la
sua configurazione dall’Eucaristia – è e deve essere, per antonomasia, il “giorno
della fede” e, in un certo senso, il giorno più proprio per
l’annuncio e l’ascolto della Parola di Dio.
È quanto avviene, anzitutto,
attraverso la stessa celebrazione dell’Eucaristia, che è inscindibilmente
mensa della Parola e mensa del Pane di vita. Nella Messa, la Parola di
Dio, annunciata di domenica in domenica secondo il ritmo dei tempi e delle
feste dell’anno liturgico, si presenta come un efficace strumento per aiutarci
a “conoscere”, “contemplare”, “amare” e “seguire” il Signore Gesù, centro e
cuore dell’evangelizzazione. Questa stessa Parola ci presenta, di volta in
volta, i “misteri di Cristo” e della sua vita e si rivela, così, come un
prezioso e insostituibile itinerario di fede e di trasmissione della fede:
un itinerario che, di anno in anno, fa crescere la fede e la rende più
convinta, matura e testimoniante.
Questo annuncio e ascolto della
Parola di Dio può e deve estendersi e svilupparsi anche in altri momenti, al di
là della Messa, mediante un esercizio del ministero della Parola che trova nella
catechesi e nell’accostamento personale, familiare e comunitario della
Sacra Scrittura le sue espressioni più tipiche e ordinarie.
In tale prospettiva, è opportuno domandarsi
se, come già avviene in alcune realtà della nostra Diocesi, alcuni
incontri di catechesi non possano trovare la loro collocazione proprio nella
giornata di domenica, magari in felice connessione con il rilancio della
“domenica in oratorio” o con la proposta di qualche “domenica insieme”.
51. La caratteristica più tipica e
decisiva della domenica è, in ogni caso, quella di “giorno dell’Eucaristia”.
La domenica è, anzitutto e soprattutto, il giorno in cui “i cristiani vanno
alla Messa”. Andando alla Messa, riconoscono di essere convocati dal Signore
per formare la sua Chiesa. Esprimono la loro obbedienza al comando di Gesù
«Fate questo in memoria di me» (Luca 22, 19), riconoscendo in lui, come
l’apostolo Tommaso, il loro Signore e il loro Dio (cfr. Giovanni 20,
28). Proclamano e testimoniano la loro fede nella morte e risurrezione di Gesù,
centro e fine della loro vita e di tutta la storia. Annunciano a tutti che la
salvezza viene solo dal Signore. Affermano la loro certa speranza nella vita
eterna, perché si nutrono del Corpo crocifisso e glorioso di Cristo,
nell’attesa del suo ritorno alla fine dei tempi.
La partecipazione alla Messa,
allora, più e prima che un precetto, è l’irresistibile bisogno del cuore
di dire e di celebrare, in comunione con i fratelli, la propria fede. Come
tale, non può non costituire, per ogni battezzato, il “cuore della domenica”.
Lo stesso “precetto”,
piuttosto, va visto come un dono che la saggezza materna della Chiesa ci offre
perché, obbedendovi, ciascuno di noi non venga meno al compito missionario che
il Signore gli ha affidato e non spenga quel dinamismo di fede e di
testimonianza che la stessa Eucaristia infonde nel suo cuore. Riflettiamo con
matura responsabilità su quanto Giovanni Paolo II, in questa prospettiva,
sottolinea nella Novo millennio ineunte: «Stiamo entrando in un
millennio che si prefigura caratterizzato da un profondo intreccio di culture e
religioni anche nei paesi di antica cristianizzazione. In molte regioni i
cristiani sono, o stanno diventando, un “piccolo gregge” (Lc 12, 32).
Ciò li pone di fronte alla sfida di testimoniare con maggior forza, spesso in
condizione di solitudine e di difficoltà, gli aspetti specifici della propria
identità. Il dovere della partecipazione eucaristica ogni domenica è uno di
questi» (n. 36).
La domenica è e deve essere “giorno
dell’Eucaristia” per tutti i battezzati. È e lo deve poter essere sempre di
più per quanti, tra i fedeli delle nostre parrocchie, vorrebbero
partecipare alla Messa, ma non lo possono fare o per la malattia o per l’età.
A tale proposito, è
particolarmente prezioso il servizio svolto dai Ministri straordinari della
Comunione eucaristica. Infatti, «visitando i malati o gli anziani e
portando loro l’Eucaristia essi manifestano l’attenzione dei pastori e l’amore
della comunità ai fratelli sofferenti che non possono frequentare la chiesa» (Sinodo
47°, cost. 54, 2f). Il loro è un ministero che concorre a far brillare
maggiormente il volto missionario delle nostre comunità, poiché, con il loro
gesto e il loro impegno, manifestano e mettono in atto un tratto di quell’andare
a ogni persona, per portarle il dono di Gesù, Parola e Pane di vita, che
costituisce l’essenza del compito missionario.
Impegniamoci tutti affinché questo
servizio sia sempre promosso e diffuso con intelligente larghezza in
ogni parrocchia, individuando anche le modalità più opportune e
comunitariamente visibili per poterlo svolgere anzitutto nel giorno di
domenica.
La domenica “giorno della carità”
52. La domenica è “giorno
dell’Eucaristia” anche perché è proprio dall’Eucaristia che essa trae
il suo più forte dinamismo e la sua fisionomia più autentica. In realtà, è
precisamente in riferimento anzitutto alla domenica – per passare poi dalla
domenica a tutti gli altri giorni – che l’Eucaristia deve poter manifestare, di
fatto, il suo valore “sintetico” e “fontale”, cioè la sua capacità di essere
centro vitale, momento culminante, compendio e forma unificante dell’intera
vita comunitaria.
Sia ancora e sempre il Signore
Gesù – il vero “festeggiato” di ogni domenica, il solo che sa fare di questo
giorno una autentica “festa” – a donarci la grazia e la gioia di vivere ogni
nostra domenica come il giorno esemplare, la norma e il paradigma di tutti gli
altri giorni. Questo potrà accadere se, come scriveva il cardinale Martini,
«tutti i suoi momenti, il suo clima generale di gioia, gli incontri che in esso
avvengono, i tempi dedicati alla rigenerazione delle forze fisiche e psichiche,
gli spazi di preghiera e di riscoperta di quella realtà misteriosa e
meravigliosa che è l’esistenza» saranno «animati interiormente dall’incontro
eucaristico con Gesù morto e risorto, principio della nuova creazione, uomo
perfetto, speranza del mondo futuro» («Attirerò tutti a me» [Gv 12,32],
26).
Se l’Eucaristia è e deve essere il
cuore della domenica, quest’ultima non può non essere il “giorno della
carità”. Non può non esserlo, perché l’Eucaristia, nella sua più profonda
verità, è il “sacramento della carità”. Non può non esserlo, perché la cura
dell’alta “qualità celebrativa” dell’Eucaristia implica necessariamente, quale
esigenza intrinseca al suo dinamismo, l’impegno quotidiano di un amore che
serve e si dona, sull’esempio e a motivo di Gesù.
In quanto “giorno della carità”,
la domenica deve potersi presentare nel segno della “unione fraterna” e
della “comunione” nella Chiesa. È questo un aspetto essenziale di
quell’amore che l’Eucaristia genera, promuove e alimenta. Come tale, questo
amore chiede di essere accolto e fatto crescere in ogni modo e con tutte le
forze, anzitutto fidando nei mezzi soprannaturali della grazia.
Ma è anche un aspetto da
esprimere ricercando tutte quelle esperienze concrete che possono far
crescere uno stile di condivisione, di aggregazione fraterna, di momenti di
vita comune, di preghiera, di gioia e di festa. È ciò che già avviene – grazie
a una nostra preziosa tradizione, che chiede di essere mantenuta, sviluppata e
riproposta anche con forme nuove – nei nostri oratori, per i ragazzi, gli
adolescenti e i giovani.
Nella stessa prospettiva, è
auspicabile che, di tanto in tanto, si abbiano a proporre anche per gli adulti
e per le famiglie nella loro globalità – come già avviene in alcune
parrocchie – delle forme di “domeniche insieme”, o “domeniche a tempo
pieno”. Queste possono prevedere, oltre alla partecipazione all’Eucaristia,
altri momenti di preghiera, di catechesi o di riflessione, unitamente al
convito fraterno e a tempi di svago, di festa e di comunicazione vicendevole.
La stessa carità chiede di andare
oltre e di esprimersi come attenzione preferenziale a tutti coloro che sono
nel bisogno. È stato così fin dai tempi apostolici, quando l’assemblea
domenicale, oltre a essere caratterizzata dalla “frazione del pane”, diventava
un momento di condivisione fraterna nei riguardi dei più poveri. Ce lo
testimonia l’apostolo Paolo che chiede ai cristiani di Corinto di fare come già
aveva ordinato alle Chiese della Galazia: «Ogni primo giorno della settimana
ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare» (1 Corinzi
16, 1-2), per condividerlo con quanti erano nel bisogno. E non può essere che
così, se il frutto della partecipazione all’Eucaristia è la conformazione con
lo stesso Signore Gesù, il quale si è fatto povero per noi, fino ad annientare
se stesso, per arricchirci con il dono della sua salvezza.
Risuoni, allora, come provocatorio
e stimolante quanto Giovanni Paolo II, con grande concretezza, afferma nella
sua Lettera apostolica “sulla santificazione della domenica”: «Se [la domenica]
è giorno di gioia, occorre che il cristiano dica con i suoi concreti
atteggiamenti che non si può essere felici “da soli”». Continua, poi,
esemplificando: il cristiano «si guarda attorno, per individuare le persone che
possono aver bisogno della sua solidarietà. Può accadere che nel suo vicinato o
nel suo raggio di conoscenze vi siano ammalati, anziani, bambini, immigrati che
proprio di domenica avvertono in modo ancora più cocente la loro solitudine, le
loro necessità, la loro condizione di sofferenza». E – dopo aver precisato che
«l’impegno per loro non può limitarsi ad una sporadica iniziativa domenicale»,
ma richiede «un atteggiamento di impegno più globale» – pone questo
interrogativo: «perché non dare al giorno del Signore un maggior tono di
condivisione, attivando tutta l’inventiva di cui è capace la carità
cristiana?». E così conclude: «Invitare a tavola con sé qualche persona sola,
fare visita a degli ammalati, procurare da mangiare a qualche famiglia
bisognosa, dedicare qualche ora a specifiche iniziative di volontariato e di
solidarietà, sarebbe certamente un modo per portare nella vita la carità di
Cristo attinta alla Mensa eucaristica» (Dies Domini, 72). Ma – non
dimentichiamolo mai! – portare nella vita la carità di Cristo è insieme
un gesto di fede e un grande e prezioso servizio di testimonianza e
di annuncio del Vangelo.
Noi non possiamo vivere senza la domenica!
53. Quelli fin qui richiamati sono tutti dei
modi semplici, ma molto concreti, con cui ogni nostra parrocchia e realtà
ecclesiale può e deve presentare il suo volto di comunità missionaria. Lo sono
perché chiamano in causa ed esprimono la “triade indivisa e indivisibile” di
Parola-Sacramento-vita che caratterizza e qualifica il credere cristiano,
l’annuncio del Vangelo e la trasmissione della fede.
Questi stessi modi costituiscono
altrettante “piste di lavoro” che concorrono a tracciare la strada per
rinnovare il volto missionario della Chiesa, a iniziare da ogni nostra
comunità parrocchiale. È una strada che, nel nostro tempo, si presenta spesso in
salita. Oggi, infatti, anche da noi, le condizioni culturali, economiche e
sociali conducono a modificare in profondità i comportamenti delle persone,
delle famiglie e delle comunità e, di conseguenza, a trasformare la stessa
fisionomia della domenica, che, molto più diffusamente, viene interpretata e
vissuta nell’ottica riduttiva del “fine settimana”.
Ma è una strada da percorrere
– se è il caso, intraprendendola, riprendendola o proseguendola con maggior
fiducia, decisione e coraggio – per non venir meno al mandato missionario di
Gesù. Non c’è dubbio che vivendo la domenica secondo la pienezza dei suoi
significati e, innanzitutto, «celebrando la Pasqua [del Signore], non solo una
volta all’anno, ma ogni domenica, la Chiesa continuerà ad additare a ogni
generazione “ciò che costituisce l’asse portante della storia, al quale si
riconducono il mistero delle origini e quello del destino finale del mondo”» (Novo
millennio ineunte, 35). Custodire, vivere e riproporre con nuova freschezza
la domenica come autentico “Giorno del Signore” significa testimoniare la
nostra fede e adempiere al compito sempre più urgente e necessario della
“nuova evangelizzazione”.
Per poter percorrere la strada
indicata, occorre nutrire una profonda convinzione: noi non possiamo vivere
senza la domenica! Il Signore ci aiuti a fare nostra questa convinzione e a
testimoniarla di fronte a tutti e a ogni costo. Sì, non possiamo vivere senza
la domenica perché non possiamo vivere senza la Cena del Signore!
Non possiamo vivere senza
l’Eucaristia perché, di diritto e di fatto, come afferma il Papa con le pa-role
iniziali della sua Enciclica, «La Chiesa vive del-l’Eucaristia» (Ecclesia
de Eucharistia, 1). L’Eucaristia, in realtà, genera la Chiesa:
la genera come Corpo di Cristo, presenza e continuazione di lui nel mondo e
nella storia. L’Eucaristia è il pane del cammino che alimenta i singoli
credenti e l’intera comunità nel loro pellegrinaggio, un pellegrinaggio tutto
caratterizzato e finalizzato alla missione di essere testimoni del Signore
risorto: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e
fino agli estremi confini della terra» (Atti 1, 8). L’Eucaristia riempie
di sé tutta la Chiesa, perché è il bene più grande e prezioso, il tesoro
più splendido e straordinario che essa possiede: è, in realtà, lo stesso
Signore Gesù, vero Dio e vero uomo, l’unico, universale e necessario Salvatore
dell’uomo e del mondo, che dona se stesso sulla croce e, così, redime e rinnova
l’umanità intera.
Il Signore ci conceda di
assaporare con intima gioia queste verità profonde e vitali.
54. Ci sarà di aiuto l’enciclica Ecclesia
de Eucharistia, che Giovanni Paolo II ha firmato e consegnato alla Chiesa
il Giovedì santo 2003. È un testo che dobbiamo riprendere, per farlo
diventare oggetto di riflessione, di catechesi, di preghiera, di conversione. È
quanto chiedo che si faccia in ogni comunità parrocchiale e in ogni comunità o
gruppo ecclesiale, preferibilmente lungo l’anno pastorale 2004-2005.
In quello stesso anno
pastorale
– che vedrà anche la celebrazione del Congresso Eucaristico Nazionale di Bari
sul tema “Noi non possiamo vivere senza il Giorno del Signore” –, desidero e
chiedo che, nell’intera Discesi, si prevedano momenti, occasioni e
iniziative per riscoprire e aiutare a far vivere di più e meglio il senso, il
valore, l’importanza e la bellezza della domenica cristiana. A questo scopo
potrà essere utile riprendere, nei modi più opportuni – per i quali non
mancheranno indicazioni più precise –, il documento dei Vescovi italiani del
1984, dal titolo Il giorno del Signore, e la Lettera apostolica Dies
Domini, di Giovanni Paolo II, scritta nel 1998.
Tutto questo, in particolare lungo
il medesimo anno pastorale, dovrà favorire un cammino comune che – prendendo le
mosse da un adeguato discernimento del vissuto delle nostre parrocchie e
comunità in ordine alla celebrazione dell’Eucaristia domenicale e dell’intero
Giorno del Signore – ci aiuti a riscoprire e a vivere, con maggiore
intensità e pienezza, quello slancio missionario che ogni Eucaristia contiene e
sa sprigionare.
Per raggiungere questi scopi, chiedo
ai nostri Uffici di Curia – in particolare al Servizio per la Pastorale
Liturgica, in collaborazione, di volta in volta, con gli altri Organismi
competenti (come, ad esempio, il Servizio per la Catechesi o l’Ufficio per i
Progetti Informatici e la Statistica) – di predisporre alcuni strumenti.
Il primo dovrà servire a una indagine conoscitiva, che
riguarderà: la frequenza alla Messa domenicale, la “qualità celebrativa” delle
nostre assemblee liturgiche e le modalità di vivere il Giorno del Signore. Altri
strumenti, poi, dovranno offrire indicazioni e contenuti per una azione
di formazione e di catechesi, che valorizzi anzitutto i testi, i gesti e i
momenti liturgici e sia finalizzata a riscoprire la ricchezza del mistero
eucaristico e a viverne in modo più chiaro e convinto le dinamiche e le
responsabilità missionarie.