Mi sarete testimoni - Capitolo quinto   

Mi sarete testimoni - Capitolo quinto   

Capitolo quinto

 

Chi crederà e sarà battezzato

La richiesta dei Sacramenti e l’immagine di Chiesa

 

 

 

55.   Il mandato missionario di Gesù di annunciare il Vangelo dice con grande chiarezza che l’uomo è interpellato nella sua libertà nel modo più radicale possibile: è in questione la salvezza! La risposta dell’uomo è data dalla fede, più precisamente da una fede che è da professarsi e da celebrarsi con i Sacramenti, a cominciare dal Battesimo.

Così l’evangelista Marco: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (16, 15-16).

Così sin dagli inizi della Chiesa. Coloro che, a Pentecoste, hanno ascoltato il discorso di Pietro su Gesù Cristo morto e risorto chiedono a Pietro e agli altri Apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo…» (Atti 2, 38). La conclusione: «Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone» (Atti 2, 41). È l’ingresso nella comunità cristiana e nella partecipazione alla sua vita e missione.

Così sempre, nel corso della storia della Chiesa.

Così anche oggi. È quanto ci è dato di rilevare nelle nostre comunità parrocchiali e nella nostra stessa società. Al di là di situazioni di forte secolarizzazione, anzi di vera e propria scristianizzazione e di ritorno al paganesimo, come pure di agnosticismo diffuso, di materialismo consumista e di indifferenza religiosa, sono pur sempre presenti – anche con forme nuove di risveglio – il bisogno religioso, il senso del sacro, la ricerca della spiritualità e dell’incontro con Dio.

In questa ottica, e in termini più specifici, si presenta ancora oggi la richiesta, fatta alla Chiesa, di ricevere i Sacramenti.

 

Si continua a chiedere i Sacramenti. Ma come e perché?

 

56.    La richiesta di ricevere i Sacramenti viene non solo dai cristiani credenti e praticanti, ma anche da un alto o discreto numero di battezzati, che hanno abbandonato la fede o non sono coerenti ad essa nella loro esistenza personale, familiare e sociale, oppure vivono in un clima di indifferenza religiosa. Spesso, la situazione di queste persone si presenta piuttosto confusa, perché mescolano facilmente elementi di religiosità con il rispetto di certi “appuntamenti” con la Chiesa, tradizionali sì, ma ancora in atto.

 

Così, nelle nostre comunità parrocchiali, in non poche loro famiglie, registriamo il persistere di tradizioni che comportano, tuttora in modo abbastanza generalizzato, la richiesta dei Sacramenti: del Battesimo per il figlio che nasce, della Prima Comunione per i fanciulli, della Cresima per i ragazzi, dello “sposarsi in chiesa” per i giovani.

Si fanno inevitabili alcune domande, alle quali, onestamente, non ci si può sottrarre. Sino a quando e in che misura persisterà una simile “tradizione”? Che “significato” viene realmente attribuito dalle famiglie e dai singoli a questi “appuntamenti” di Chiesa? È il significato di un autentico gesto “religioso”, anzi di un vero e proprio “sacramento”, ossia di un incontro misterioso e reale di Dio che salva l’uomo e gli dona la sua stessa vita e, insieme, una risposta personale e vitale dell’uomo al dono dell’amore di Dio? Oppure è il significato di una semplice “cerimonia”, che è diventata costume sociale e che si risolve in elementi esteriori, come i vestiti, i regali, gli inviti, le fotografie, i pranzi, ecc.?

 

Una situazione e una problematica simili si ripresentano per quanti chiedono sì di “sposarsi in chiesa”, ma con una celebrazione che nulla o quasi ha di “sacramento”, se non la forma esterna, come semplice vernice religiosa per un momento importante – ma è davvero vissuto come tale? – della vita di due persone. Una celebrazione che è fatta per consuetudine, per convenzione, per accontentare i genitori e i parenti, per il fasto e l’esteriorità.

 

Possiamo ricordare anche la partecipazione ai funerali religiosi, all’interno dei quali viene comunemente celebrata l’Eucaristia. Troviamo presenti, non poche volte, insieme ai cristiani che credono e vivono la fede, gli indifferenti e i non credenti. Ma, di nuovo, si impone la domanda: coloro che partecipano ai funerali celebrati nelle nostre chiese come possono cogliere il significato religioso, più precisamente di fede cristiana, di questi riti? Non rischia di essere preponderante il peso del costume sociale, insieme a quello, più nobile, del sentimento umano di partecipazione alla sofferenza dei familiari e degli amici del defunto? Di per sé, il Vangelo, con l’annuncio di Cristo risorto e vincitore della morte, introduce una sorprendente novità. Ma, per quanti dei partecipanti, la morte non è la caduta dell’uomo nel nulla, bensì il suo transito all’incontro definitivo con Dio? E quanti sono preparati a professare la fede nella risurrezione della carne e a proclamare la speranza della vita eterna?

L’attuale situazione registra anche il fenomeno religioso dei cosiddetti “ricomincianti” e dei catecumeni. È, da una parte, il caso di chi, ricevuto il Battesimo e abbandonata – se non la fede – la vita cristiana, sente il bisogno di ritornare alla Chiesa e di “ricominciare” a partecipare alla sua vita sacramentale. Ed è, dall’altra parte, il caso di ragazzi, giovani e adulti non battezzati che chiedono di ricevere i Sacramenti dell’iniziazione cristiana.

 

Così, in questa stagione di non piccola “scristianizzazione” e, insieme, di fermenti spirituali e religiosi, queste persone continuano a rivolgersi alla Chiesa e a incontrarla nello svolgimento della sua attività pastorale. E la loro richiesta riguarda la celebrazione di un Sacramento, ossia di un valore fondamentale e qualificante della Chiesa nella sua missione di annuncio del Vangelo e di trasmissione della fede.

 

La Chiesa celebra i Sacramenti nella fedeltà a Cristo

 

57.    La pastorale comune e ordinaria delle nostre parrocchie viene oggi provocata in senso profondamente missionario da queste richieste. In esse, deve vedere delle opportunità provvidenziali, anzi deve accogliere l’appello stesso dello Spirito che la conduce a vivere un incontro con queste persone, che risulti il più possibile comprensibile da un punto di vista umano e, quindi, “credibile” e, in qualche modo, loro gradito. Un incontro che, nel misterioso intreccio tra l’amore di Dio e la libertà dell’uomo, sia anche “efficace” di grazia e di salvezza. Senza dire che la Chiesa stessa, più che attendere queste persone, deve muoversi per prima e suscitare, con discrezione ma anche con convinzione, l’incontro, il dialogo, il desiderio di aprirsi alla forza liberante del Vangelo, per ottenere salvezza e gioia.

 

      Come rispondere alla richiesta dei Sacramenti in queste situazioni? È questo il problema pastorale, spesso complesso e spinoso, che dobbiamo affrontare e, per quanto possibile, risolvere.

C’è un particolare significativo, dal quale partire, per individuare il criterio di fondo dell’agire pastorale della Chiesa, a cominciare dai ministri dei Sacramenti. È un particolare legato alla concretezza dei fatti. Chi chiede i Sacramenti li chiede alla Chiesa. Così facendo, coglie, in qualche modo, che c’è un rapporto tra i Sacramenti e la Chiesa stessa. Lo coglie perché possiede – forse solo in modo implicito o confuso o, persino, distorto – una immagine di Chiesa. Le persone ricorrono alla Chiesa perché pensano che può dare risposta alla loro richiesta, perché la ritengono “erogatrice di un servizio religioso”.

Ora, anche al di là di letture superficiali e di interpretazioni discutibili o inadeguate, dobbiamo rilevare come il ricorso alla Chiesa per ricevere i Sacramenti racchiuda di per sé una verità di singolare importanza: non si dà un’autosalvezza, perché nessuno può salvarsi da se stesso, così come nessuno si battezza da sé. La salvezza viene solo da un altro, da Dio! Questa salvezza, poi, che può venire unicamente da Dio ed è frutto del suo liberissimo e gratuito amore, raggiunge l’uomo grazie a una “mediazione” voluta da Dio stesso, a uno strumento scelto da lui: è la mediazione operata dalla Chiesa, è lo strumento dei Sacramenti della Chiesa.

 

Certo, nella richiesta dei Sacramenti da parte delle persone di cui parliamo tutto questo può essere solo una intuizione aurorale, oppure può prestarsi a visioni molto povere e, talvolta, deformate. Il rischio è di chiedere il Sacramento come un rito, un bene solo per se stessi, una grazia di cui si sente il bisogno, in definitiva come un qualcosa di esterno all’identità e alla natura della Chiesa. Ma, anche in tale situazione, troviamo soggiacente una immagine di Chiesa.

In questa linea, la risposta pastorale alla domanda dei Sacramenti deve far sì che l’immagine di Chiesa propria dei richiedenti diventi sempre più chiaramente la “vera immagine” di Chiesa. Questo potrà avvenire mediante un delicato e paziente dialogo che – correggendo, integrando e perfezionando l’immagine iniziale dei richiedenti – si riveli come un prezioso momento di evangelizzazione e riesca a “far vedere” e a trasmettere la vera immagine di Chiesa. È anzitutto il ministro stesso che presenta di fatto una immagine di Chiesa. Lo fa con le modalità che usa, le condizioni che pone, il cammino di preparazione che richiede.

La celebrazione dei Sacramenti – intesa, nella sua integralità, come punto d’arrivo di una preparazione e punto di partenza di una prosecuzione nella vita vissuta – diventa così un’epifania della Chiesa, del suo essere, della sua vita e della sua missione.

Per questo, il criterio pastorale fondamentale di fronte alla richiesta dei Sacramenti è, in definitiva, la Chiesa stessa. La Chiesa, ovviamente, che è e deve essere se stessa, fedele alla missione, ai doni e ai compiti ricevuti da Cristo, suo Sposo e Signore.

 

Con la celebrazione dei Sacramenti, la Chiesa vive un momento di singolare importanza nel compimento della missione ricevuta dal Signore Gesù, in profonda comunione con lui e nell’imitazione e partecipazione della sua carità pastorale.

La Chiesa deve essere sempre fedele al suo Signore. È la sua Sposa, che da lui riceve il dono della salvezza e con lui lo comunica agli uomini e, in questa comunicazione, diventa Madre. E, proprio perché Sposa, solo nella fedeltà a Cristo, può accogliere e trasmettere la salvezza. Si tratta, più precisamente, della fedeltà che è donata alla Chiesa ed è a lei richiesta in quanto Sposa “vergine”, ossia in quanto “tutta e sola” di Cristo.

Ora, è proprio nel Sacramento, affidato dal Signore alla sua Chiesa, che brilla in tutto il suo splendore la fedeltà della Chiesa stessa a Cristo Gesù, suo Sposo e suo Signore: una fedeltà che rende possibile la fecondità spirituale e pastorale della Chiesa Madre e che racchiude in se stessa e continuamente manifesta un singolare valore di missionarietà.

Ma, in concreto, che cosa comporta per la Chiesa la sua fedeltà a Cristo nella celebrazione dei Sacramenti? Rispondiamo considerando i Sacramenti in una triplice prospettiva: quella della missione, propria della Chiesa, di annunciare il Vangelo e trasmettere la fede; quella di una presenza e azione della Chiesa stessa nella preparazione e celebrazione dei Sacramenti e nella loro continuazione nella vita; quella dello stile pastorale della Chiesa come stile che deriva da Cristo e su di lui si modella.

 

Nei Sacramenti si compie

la missione evangelizzatrice della Chiesa

 

58.   Con i Sacramenti si compie la missione della Chiesa che annuncia il Vangelo e trasmette la fede. La celebrazione dei Sacramenti è secondo verità solo se avviene nell’obbedienza a questa missione.

I Sacramenti non sono affatto realtà isolate e staccate, ma sono intimamente inseriti e coinvolti nell’evangelizzazione e nella fede. E questo secondo quella “totalità unificata” che fa della Parola, del Sacramento e della vita una “triade indivisa e indivisibile”.

L’evangelizzazione, nella sua interezza e unità, è annuncio del Vangelo di Cristo, celebrazione sacramentale, ossia dono della vita nuova della grazia, esistenza vissuta secondo lo Spirito del Signore e nell’obbedienza al comandamento dell’amore. È secondo questa triplicità unitaria e unificante, che l’evangelista Matteo formula il mandato missionario di Cristo alla sua Chiesa: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 18-20). Quanto scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La missione di battezzare, dunque la missione sacramentale, è implicita nella missione di evangelizzare, poiché il sacramento è preparato dalla Parola di Dio e dalla fede, la quale è consenso a questa Parola» (n. 1122) può giustamente completarsi dicendo che la missione di sollecitare una vita che osservi i comandamenti di Cristo è parte della missione di evangelizzazione.

E altrettanto si dica della fede, come risposta dell’uomo all’evangelizzazione. Il credente è tale perché, come discepolo, accoglie la Parola; come commensale, mangia il Corpo dato e beve il Sangue versato di Cristo e così vive la “vita eterna”, ha la vita stessa di Dio; come servo, rivive l’amore di donazione umile e totale di colui che «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Marco 10, 45).

Non vivrebbe né manifesterebbe la sua “verità” un Sacramento che fosse svincolato dall’essenziale rapporto con la fede e con la vita di carità. In un suo brevissimo testo, sant’Ambrogio ci offre una descrizione di grande suggestività e profondamente vera dei Sacramenti: «Tu ti sei mostrato a me, faccia a faccia, o Cristo: io ti trovo nei tuoi Sacramenti» (Apologia del profeta Davide 12, 58). Il Sacramento è qualcosa di vivo, di personale, di superlativamente interpersonale. È l’incontro di Cristo con l’uomo. Cristo “si mostra”: si rivela e, rivelandosi, si autocomunica all’uomo, gli dona la sua parola, anzi gli dona se stesso, la sua vita. E l’uomo “trova” Cristo: un trovare che è accogliere la sua parola e condividere la sua vita e il suo destino. Anzi, un trovare che dà inizio a una nuova esperienza di vita. Veramente un incontro che cambia la vita, com’era successo a Simon Pietro, agli Apostoli. E come accade a ogni credente!

 

Non ci è lecito separare tra loro la Parola, il Sacramento e la vita. Lo esige, in particolare, la stessa natura e finalità dei Sacramenti, come il Concilio Vaticano II sottolinea con chiarezza e forza. I Sacramenti, ricorda, sono detti “sacramenti della fede”, perché «non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono» (Sacrosanctum Concilium, 59). E ancora: «La liturgia spinge i fedeli, nutriti dei “sacramenti pasquali”, a vivere “in perfetta unione”; domanda che “esprimano nella vita quanto hanno ricevuto con la fede”; inoltre la rinnovazione dell’alleanza del Signore con gli uomini nell’Eucaristia conduce ed accende i fedeli nella pressante carità di Cristo» (Sacrosanctum Concilium, 10).

In tal senso, la pastorale dei Sacramenti è chiamata, di fronte a forme di dissociazione o di sbilanciamento dei tre elementi dell’evangelizzazione e della fede, a proteggere e a sviluppare la loro unità e, così, a rendere più fedele e più feconda l’opera missionaria della Chiesa.

 

La presenza e l’azione della Chiesa nei Sacramenti

 

59.  Nei Sacramenti è presente e operante la Chiesa. È presente come Sposa di Cristo, da lui salvata e santificata, e come Madre dei cristiani, che salva e santifica.

È una presenza e un’azione che si situano nello stesso gesto sacramentale, che si qualifica inscindibilmente come atto di Cristo e atto della Chiesa. Come leggiamo nel Concilio: «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, specialmente nelle azioni liturgiche… In quest’opera così grande… Cristo associa realmente sempre a sé la Chiesa sua Sposa amatissima» (Sacrosanctum Concilium, 7). La Chiesa è, in Cristo, segno e strumento di grazia: è il “sacramento generale” di salvezza, che trova la sua radice viva e vivificante nel Signore Gesù “sacramento fontale” e che fiorisce e fruttifica nei diversi “sacramenti particolari”.

Con incisiva espressione, san Tommaso d’Aquino scrive: «Per sacramenta dicitur esse fabricata Ecclesia Christi [Si dice che la Chiesa di Cristo viene costruita attraverso i Sacramenti]» (Somma Teologica, III, 6, 4). Secondo il disegno del Padre, solo nel “grembo materno” della Chiesa, lo Spirito di Cristo accende e alimenta la vita nuova della grazia, con la fede, il Sacramento e la carità: è la vita dei suoi figli, è la sua stessa vita. In questo senso, si può dire che la Chiesa vive ogni giorno un “mistero di autogenerazione”, come rilevava, con parola efficace, san Beda, il Venerabile: «Ecclesia quotidie gignit Ecclesiam [la Chiesa ogni giorno genera la Chiesa]» (Commento all’Apocalisse, II).

È, dunque, da rifiutare una concezione individualistica ed egoistica dei Sacramenti, come se fossero un bene solo dell’individuo e per l’individuo. Certo toccano, e nella massima profondità del suo rapporto con Dio, la singola persona. Ma, insieme, coinvolgono sempre la Chiesa come tale: «i sacramenti sono ordinati… all’edificazione del Corpo di Cristo» (Sacrosanctum Concilium, 59).

 

La Chiesa coinvolta nella celebrazione dei Sacramenti è quella invisibile, in atto nel suo “mistero”: la comunione dei santi. E questo sempre, anche nella situazione in cui si incontrano due persone soltanto: chi chiede e chi dà il Sacramento; oppure nel caso del sacerdote che celebra la Messa solo, ma non da solo.

È coinvolta anche la Chiesa visibile, quella che vive e si manifesta nella comunità cristiana concreta della Diocesi e delle parrocchie. La celebrazione dei Sacramenti – nel senso di un cammino di fede e di grazia che si articola nelle tappe della preparazione, della celebrazione e dell’inserimento permanente nella vita vissuta – avviene “dentro” e con la “partecipazione” della comunità cristiana, chiamata a mettere in atto i diversi e complementari doni e compiti che lo Spirito Santo le elargisce. Si tratta di doni e compiti che sono propri non solo dei sacerdoti in possesso del ministero ordinato o sacerdozio ministeriale, ma anche di tutti i fedeli in possesso del sacerdozio battesimale o comune.

Di qui l’esigenza pastorale di far emergere, in modo trasparente e concreto, questa “partecipazione” della comunità cristiana nel preparare, accompagnare e seguire quanti ricevono i Sacramenti. Di farla emergere in modo così eloquente da far risplendere luminosa e reale davanti a tutti l’immagine di una Chiesa che – con le persone di cui è composta e con i doni e servizi che possiede – è presente e operante nei Sacramenti. È importante missionarietà questa: il volto della Chiesa viene mostrato con i lineamenti di una “comunità” che si incontra con Dio nella celebrazione liturgica.

 

All’interno della comunità cristiana, poi, vogliamo fare appello alla famiglia cristiana, per una sua più convinta e generosa partecipazione ai Sacramenti ricevuti dai figli: al Battesimo, alla Cresima, alla Prima Comunione e all’Eucaristia domenicale. La necessità di questa partecipazione deriva dalla natura e finalità ecclesiali che il sacramento del Matrimonio imprime nell’essere stesso degli sposi cristiani, costituiti in «Chiesa domestica» con «il proprio dono in mezzo al popolo di Dio» (Lumen gentium, 11). Precisamente come «viva immagine e storica ripresentazione del mistero stesso di Cristo», la famiglia cristiana ha la grazia di partecipare alla fecondità stessa della Madre Chiesa, configurandosi come comunità salvata e salvante (cfr. Familiaris consortio, 49).

Dobbiamo sollecitare con decisione e forza la presenza e l’azione della famiglia, più in particolare dei genitori nella pastorale della celebrazione dei Sacramenti. È questo un aspetto irrinunciabile del loro dovere educativo, tanto più prezioso, necessario e urgente quanto più i figli o sono piccoli, e quindi da loro praticamente dipendenti, o si trovano a vivere condizioni di rapporto con la scuola e con la società che rendono più difficile e faticoso il cammino di fede.

Così, la grazia e la responsabilità missionarie della famiglia trovano il loro primo spazio verso i propri figli, anzi, per il rapporto che spesso e in più modi la lega alle famiglie dei coetanei e amici dei figli, può allargare questo spazio verso tutte queste altre persone. Senza dire che gli stessi figli, non poche volte, diventano “missionari” nei riguardi dei propri genitori, dando loro l’occasione di ripensare alla fede cristiana e alle sue esigenze di vita.

 

Con lo stile di Gesù

per decidere sull’ammissione ai Sacramenti

 

60.    Nella pastorale dei Sacramenti, la Chiesa è chiamata a fare suo lo stesso stile di Gesù. La fedeltà della Chiesa Sposa si esprime non solo nei contenuti e nei soggetti dell’evangelizzazione e trasmissione della fede, ma anche nello stile, nella modalità con cui affronta e scioglie i problemi legati alla richiesta dei Sacramenti. Questo terzo aspetto non è, certo, meno importante dei due precedenti. A decidere dell’immagine di Chiesa che ammette o non ammette ai Sacramenti è, il più della volte, il modo concreto con cui il sacerdote risponde alla richiesta delle persone.

 

È nelle situazioni più difficili – nelle quali i richiedenti sembrano mancare delle condizioni necessarie e, forse anche, della fede – che le risposte pastorali facilmente oscillano tra quella “buonista” o “equilibrista” e quella “rigorista”. Tra la posizione, cioè, di chi, da una parte, indulge troppo sbrigativamente al fatto che “i Sacramenti sono a favore degli uomini” (Sacramenta propter homines) o di chi, salomonicamente, cerca di stare in mezzo – in equilibrio, appunto – tra il “non spegnere il lucignolo fumigante” (cfr. Matteo 12, 20; Isaia 42, 3) e il “non dare le perle ai porci” (cfr. Matteo 7, 6) e la posizione di chi, dall’altra parte, nega drasticamente i Sacramenti.

 

La soluzione del problema non passa attraverso i criteri arbitrari e le sensibilità diverse dei sacerdoti e dei fedeli: neppure della stessa Chiesa, che sa bene di aver ricevuto da Cristo i Sacramenti come doni del suo amore, senza poterne essere né padrona né arbitra. La Chiesa è chiamata, soprattutto nei riguardi di questi doni, a seguire e rivivere l’esempio e il comandamento di Gesù Cristo, a stare fedelmente «sulla misura del Cuore di Cristo» (cfr. Familiaris consortio, 65).

Nessuno come Gesù è entrato nelle pieghe più recondite del cuore umano – «egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo»: Giovanni 2, 25) – e nelle situazioni più piagate e lacerate della società. Egli ha accolto tutti, in specie i “rifiutati”, come i poveri, i malati e i peccatori. Nello stesso tempo, nessuno come Gesù ha chiesto agli uomini, a tutti – anche ai peccatori –, di fissare occhi, cuore e vita nell’ideale altissimo del «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Matteo 5, 48). Un esempio solo, emblematico: è la donna adultera, che fa l’esperienza della possibile sintesi tra questi due aspetti, quando ascolta le parole di Gesù: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?… Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Giovanni 8, 10-11).

Come Gesù, la Chiesa deve essere “accogliente” con tutti. Lo esige la maternità che le ha donato Cristo suo Sposo. Come Gesù, la Chiesa deve vivere questa accoglienza nella verità, perché solo nella verità l’amore può volere il bene delle persone. E in alcune situazioni il “no” – la non ammissione ai Sacramenti – è l’espressione più coerente e forte del “sì” dell’amore autentico. Riascoltiamo il monito di Paolo VI: «Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Redentore stesso ha dato l’esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare ma per salvare, egli fu certo intransigente con il male, ma paziente e misericordioso verso i peccatori» (Humanae vitae, 29).

Proprio questo “stile cristiano” nella celebrazione dei Sacramenti racchiude una forza missionaria singolare: proclama e testimonia il mistero stesso di Dio, «ricco di misericordia» (Efesini 2, 4) e “tre volte santo”.

 

Accogliere nella verità comporta, da un lato, l’adesione alla “verità” dei Sacramenti, nel triplice senso sopra ricordato (contenuti, soggetti, modalità) e, dall’altro lato, la valutazione delle reali condizioni umane, morali e spirituali di chi richiede i Sacramenti. È un discernimento non sempre facile, soprattutto quando è in questione la fede. Si deve ricordare che la Chiesa non può misurare la fede di nessun battezzato: la può misurare solo Dio “che scruta il cuore e la mente” (cfr. Geremia 11, 20). Non la può misurare, ma può e deve dare un giudizio sulla presenza o meno delle “condizioni di fede” in ordine alla validità della celebrazione dei Sacramenti.

Per una corretta pastorale dell’iniziazione cristiana

 

61.   Una missionarietà vera e autentica verso quanti richiedono i Sacramenti in condizioni morali e spirituali variamente inadeguate può nascere soltanto dalla fedeltà della Chiesa verso i Sacramenti stessi. Una simile fedeltà viene vissuta quando tutti, sacerdoti e fedeli, rispettano i tre criteri sopra ricordati, applicandoli con verità, giustizia, saggezza e bontà. E, d’altra parte, l’attenta e approfondita considerazione di questi criteri di fedeltà è il presupposto necessario – da non dare mai né come scontato né come adeguatamente posseduto – per passare a una loro corretta applicazione e per garantire, in questo modo, un’azione pastorale davvero missionaria.

Rimandiamo, anzitutto, agli orientamenti e alle indicazioni del nostro Sinodo 47°, che affronta questa problematica in modo ampio e dettagliato (cfr. costt. 69. 96-112). Ulteriori orientamenti e indicazioni verranno da quanto, lungo il triennio pastorale, dovrà essere approfondito e, in parte, “legittimamente sperimentato”. Nel frattempo, ricordiamo le motivazioni e le condizioni che devono guidare gli impegni pastorali da assumere e che, di seguito, indichiamo nelle loro linee generali, in attesa di successive precisazioni e determinazioni.

 

Sento, in primo luogo, il bisogno di ridare fiducia e sollecitare una generosità ancora più coraggiosa in quel campo dell’iniziazione cristiana che registra, non poche volte, una situazione faticosa e frustrante. Constatiamo, infatti, una sproporzione tra il grande sforzo di rinnovamento da tempo in atto – specialmente nell’ambito della catechesi – e i risultati piuttosto scarsi, almeno a livello quantitativo, per il fatto che diminuisce il numero dei ragazzi, e poi degli adolescenti e dei giovani, nelle nostre comunità.

Sento anche e soprattutto la responsabilità pastorale – che è, in primo luogo, mia come Vescovo – di operare e vigilare affinché non si perdano mai alcune verità di fede, tra loro intimamente connesse e che riguardano i contenuti nuovi e sorprendenti del Vangelo e della libera risposta dell’uomo mediante la fede. Queste verità devono entrare, senza alcuna incertezza, nella nostra azione pastorale, se non vogliamo rimanere imprigionati in giudizi affrettati, che pagano un indebito prezzo a tendenze, spesso diffuse, di carattere prevalentemente sociologico e/o psicologico.

Se è vero che nell’iniziazione cristiana si svolge un dialogo tra Dio e l’uomo – e non semplicemente tra uomo e uomo –, occorre ricordare che, nel realizzare questo dialogo, l’amore di Dio ha possibilità diverse e infinitamente superiori a quelle dell’uomo.

Sono sempre veramente fonte di stupore e di gratitudine per tutti noi, ad esempio, i seguenti fatti: l’assoluta gratuità di cui è segnata ogni azione di Dio verso l’uomo; i Sacramenti come dono totalmente libero di Cristo Salvatore; il “carattere”, impresso dal Battesimo e dalla Confermazione, che configura il credente a Cristo fin nelle profondità del suo essere e lo fa in modo permanente (indelebile) e, insieme, dinamicamente aperto al dono della grazia; la possibilità e la capacità di accogliere il dono di Dio in ogni età della vita, anche nell’infanzia; la presenza reale, anche quando è invisibile, della Chiesa in ogni gesto sacramentale, proprio perché gesto sacramentale; lo scambio dei doni e la sollecitazione reciproca a una libertà responsabile, come frutto dell’essere inseriti, con il Battesimo, nella Chiesa e del partecipare al mistero della “comunione dei santi”.

Le verità appena ricordate mostrano immediatamente che esiste un linguaggio pastorale bisognoso di “purificazione”, perché, con alcune sue espressioni ricorrenti, non esprime con fedeltà la ricchezza di quelle stesse verità, intese nella loro singolarità e unitarietà. Così avviene, ad esempio, quando si afferma che la nostra è “un’iniziazione cristiana che di fatto… non inizia, ma conclude”, o che “la Cresima è il sacramento della ‘maturità cristiana’ e, dunque, è da conferirsi all’adolescente, anzi al giovane”.

 

62.   D’altra parte, rientra nel disegno di Dio che il suo incontro con l’uomo rispetti pienamente, anzi susciti, rinvigorisca e perfezioni la libertà dell’uomo stesso. E questo a cominciare dalla scelta più decisiva che alla libertà è affidata: quella di “rispondere”, nella fede, a Dio che “chiama”. Per questo, nell’iniziazione cristiana e, in specie nei suoi Sacramenti, la Chiesa deve avere una cura tutta particolare della libertà dell’uomo: è chiamata ad accompagnarla, sollecitarla e incoraggiarla, affinché dia una risposta consapevole e volontaria all’iniziativa gratuita di Dio.

Nel fare ciò, la Chiesa sa che ci sono gradi diversi di libertà e, conseguentemente, possibilità di accoglienze differenti del dono di Dio. Nello stesso tempo, la Chiesa sa che la sua opera si limita – anzi, si deve limitare – ad assicurare che all’uomo non manchino le “condizioni necessarie” perché possa dare una risposta libera a Dio. È chiamata a fare tutto ciò che è possibile – proprio tutto! – affinché si realizzino, e nel modo migliore, queste stesse condizioni. La Chiesa ha pure il dovere di dare un giudizio su queste condizioni e di prendere, di conseguenza, quelle decisioni operative che si rivelano coerenti con il giudizio espresso. È necessario per non esporre il Sacramento alla “invalidità”, al fatto che il dono di Dio all’uomo non possa realizzarsi seguendo la via sacramentale!

 

Una volta poi che la Chiesa fa tutto ciò che le è possibile perché si realizzino le condizioni necessarie, deve accettare di “fermarsi”, riconoscendo di non potere fare di più. Deve affidarsi totalmente a Dio, lasciandolo operare secondo il suo disegno libero e gratuito di amore. È questa, peraltro, una tipica espressione di fede: così facendo, la Chiesa riconosce che solo Dio è Dio e che solo lui può agire come tale!

Ma “fermarsi” non è “riposare”, non è “un fare nulla”. È, da un lato, nutrire fiducia certa in Dio, che nella sua sapienza e onnipotenza di amore trova tutte le strade – anche quelle a noi sconosciute – per entrare in ogni cuore umano e donargli la salvezza. Dall’altro lato, è riprendere sempre da capo il lavoro già fatto e impegnarsi di nuovo per cercare di rendere possibile, finalmente, da parte dell’uomo, la libera risposta di fede a Dio che chiama.

 

Impegniamoci a realizzare il vero volto

dell’iniziazione cristiana

 

63.   È in questo spirito di profonda serenità e, insieme, di instancabile coraggio, che dobbiamo tutti impegnarci per assicurare, il più possibile, all’iniziazione cristiana quella “qualità” che è richiesta dalla grandezza e bellezza del dono di Dio e dalla serietà della libera risposta dell’uomo. Ciò comporta di riprendere i nostri impegni abituali e comuni, puntando a ottenere di più di quanto di fatto si ottiene, e, nello stesso tempo, di aprirci, con sapienza e coraggio, ad alcune “sperimentazioni innovative”.

Dobbiamo far sì che l’iniziazione cristiana realizzi il suo vero volto. Così lo descrive il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Diventare cristiano richiede, fin dal tempo degli Apostoli, un cammino e una iniziazione con diverse tappe. Questo itinerario può essere percorso rapidamente o lentamente. Dovrà in ogni caso comportare alcuni elementi essenziali: l’annunzio della Parola, l’accoglienza del Vangelo che provoca una conversione, la professione di fede, il Battesimo, l’effusione dello Spirito Santo, l’accesso alla Comunione eucaristica» (n. 1229). L’iniziazione, poi, continua nel tempo della “mistagogia”, cioè nel tempo di una più piena e fruttuosa “intelligenza dei misteri” attraverso la partecipazione ai Sacramenti e all’esperienza della vita cristiana.

 

Impegniamoci per una iniziazione cristiana distesa e articolata in un arco di tempo, che vede l’accompagnamento delle persone nelle tappe della preparazione, della celebrazione e della prosecuzione. L’iniziazione cristiana è sì “iniziazione” – e, dunque, una introduzione –, ma questa è ordinata alla partecipazione all’esperienza di vita che è propria della comunità cristiana, giungendo così al suo “compimento”.

È da attuarsi una “conversione culturale e pastorale”, che superi e abbandoni la concezione, piuttosto diffusa, dell’iniziazione cristiana semplicemente come preparazione e istruzione per ricevere i Sacramenti.

 

Impegniamoci per una iniziazione cristiana globale e unitaria nei suoi contenuti. Il cammino di fede, che è la ragione stessa dell’iniziazione cristiana, è vero e autentico solo se rispetta e favorisce la “triade indivisa e indivisibile” della fede stessa. Questa, per sua natura, è ascolto della Parola, incontro con Cristo nei Sacramenti e nella preghiera, obbedienza al comandamento dell’amore come comandamento che, con la forza dello Spirito Santo, plasma e provoca la vita nuova del cristiano nella Chiesa e nella società.

C’è anche qui bisogno di “conversione culturale e pastorale”, per riuscire ad accompagnare e sostenere gli “iniziandi” in rapporto al loro impegno non solo di catechesi, ma anche di partecipazione alla vita liturgica, e di preghiera della Chiesa (ad esempio, con la presenza alla Messa) e di inserimento attivo nell’esperienza di carità e di condivisione della comunità cristiana (ad esempio, con la partecipazione a iniziative di servizio e volontariato e alla vita dell’oratorio o di altre realtà o gruppi ecclesiali).

Questa “totalità unificata” dà a ciascuno dei contenuti della fede di ritrovare non solo la propria specifica “verità”, ma anche la propria feconda “unità” con gli altri contenuti della fede stessa.

In tal senso, ad esempio, ci si deve impegnare affinché la catechesi non tradisca il suo primario e irrinunciabile compito di trasmettere e spiegare la verità della fede, senza cadere, per questo, in forme indebite di mera istruzione scolastica. In realtà e nello stesso tempo, la catechesi, facendo risplendere la sua tipicità cristiana, è chiamata ad aprire e a introdurre all’incontro vivo con Gesù Cristo nella preghiera e nelle celebrazioni liturgiche. È chiamata, ancora, a favorire e a far sperimentare un effettivo inserimento nella vita di comunione e di carità della comunità cristiana, nella sua concretezza e quotidianità. Quanto qui esemplificato per la catechesi va detto, ovviamente, anche della preghiera e delle celebrazioni liturgiche, come pure della condivisione della vita della Chiesa e della testimonianza di carità.

Tutto questo può e deve essere favorito anche mediante la valorizzazione di alcuni “luoghi” e “strumenti” concreti di vita ecclesiale, opportunamente aggiornati e rilanciati, nei quali si possa meglio sperimentare questa osmosi e unità tra catechesi, liturgia e carità. Ci riferiamo, in primo luogo, a quanto già avviene, per i ragazzi e gli adolescenti, con gli oratori, diffusi in quasi tutte le nostre parrocchie, e con altre significative esperienze di vita associativa e/o di gruppo, ad esempio, nell’Azione Cattolica, nei movimenti ecclesiali, nei gruppi di preghiera, nello scoutismo e nelle realtà sportive a carattere educativo. Nello stesso tempo, occorre che esperienze di questo tipo si realizzino e si diffondano maggiormente anche per i giovani e gli adulti.

Impegniamoci per una iniziazione cristiana attenta alle diverse persone: alla loro età, alle loro condizioni di cammino verso la fede, alla loro individualità.

La diversità di età tra fanciulli, ragazzi, adolescenti, giovani e adulti esige che, come già avviene, si continui a proporre itinerari differenziati, adatti a ciascuna di queste età.

La presenza anche tra noi di persone non battezzate esige che l’ordinaria attenzione pastorale ai fanciulli e ragazzi battezzati si integri oggi con quella per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e ragazzi in età scolare (cfr. Consiglio Permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 2. Orientamenti per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni).

Similmente, nella pastorale per gli adulti proposta nelle nostre comunità, oltre ad attuare cammini ordinari sempre più ricchi e stimolanti, occorre riservare una specifica attenzione non solo al cammino catecumenale di quegli adulti non battezzati che chiedono il Battesimo (cfr. Rito per l’iniziazione cristiana degli adulti [= RICA]), ma anche a quegli adulti già battezzati che hanno bisogno di “risvegliare la propria fede” e/o di completare l’itinerario sacramentale dell’iniziazione cristiana (cfr. Consiglio Permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 3. Orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione cristiana in età adulta).

Le condizioni di cammino verso la fede, che oggi forse giungono a maturazione in modo più lento e faticoso, chiedono maggiore pazienza nell’introdurre e accompagnare e, insieme, impegno più grande e gravoso nello svolgere, riprendere e approfondire il lavoro educativo. Esigono anche un supplemento di saggezza e di coraggio, da parte di tutti i responsabili e anzitutto dei presbiteri, nel giudicare e nel decidere, secondo verità e carità, in merito all’ammissione o meno ai Sacramenti.

L’attenzione alla singola persona, doverosamente coniugata con la considerazione obiettiva delle condizioni di ciascuna nel suo cammino verso la fede, esige che i tempi del cammino e i momenti dell’ammissione ai Sacramenti non siano stabiliti semplicemente, e tanto meno esclusivamente, in base al criterio dell’appartenenza a un gruppo o a una classe. Occorre, invece, che questi tempi e momenti siano precisati con una considerazione più personalizzata, guidata da criteri autorevolmente indicati dal Vescovo e condivisi tra tutti, non certo, lasciati alla sola discrezionalità o, peggio, arbitrarietà del singolo presbitero. È quanto sarà determinato, a tempo debito, nel quadro degli adempimenti concreti indicati più sotto.

La stessa attenzione alla singola persona chiede di riservare una specifica cura anche ai fanciulli e ragazzi che presentano difficoltà di apprendimento, di comportamento e di comunicazione, come possono essere, ad esempio, coloro che si trovano in particolari condizioni di “disabilità” fisica e/o psichica e di disagio sociale (cfr. Consiglio Permanente della CEI, Iniziazione cristiana. 2. Orientamenti per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni, 58-59).

 

Impegniamoci per una iniziazione cristiana che coinvolga la famiglia, in particolare i genitori. È da apprezzarsi la fiducia che tante famiglie ripongono ancora nelle nostre parrocchie e nei nostri oratori, cui chiedono di educare cristianamente i propri figli. È, invece, da rifiutare una sorta di “delega in bianco” da parte di genitori che non si lasciano coinvolgere e rimangono “assenti”. Pur riconoscendo e rispettando l’eventuale difficile cammino di fede di qualche papà o mamma, è da sollecitare e sostenere il realizzarsi di una forte “alleanza educativa” tra la Chiesa e i genitori nel cammino di fede dei figli.

Il tempo dell’iniziazione cristiana diventa sempre più, nell’attuale situazione, un’occasione provvidenziale e un periodo prezioso per una pastorale della Chiesa che deve affrontare, con decisione, la sfida di aprire strade nuove per avvicinare le famiglie, per aiutarle a riscoprire la loro fisionomia di “Chiese domestiche” e il loro compito di trasmettere la fede ai figli; come pure per aiutarle – e non poche volte – a ritrovare e riprendere di nuovo il loro stesso cammino di fede.

 

Impegniamoci per una iniziazione cristiana che testimoni una comunità ecclesiale più partecipe e più viva. Proprio perché ogni Sacramento comporta, nel suo stesso compiersi, la partecipazione reale – anche se invisibile – della Chiesa, siamo chiamati a dare testimonianza visibile di questa partecipazione. È, allora, da realizzarsi un cammino di fede che veda l’accompagnamento di una comunità cristiana più partecipe e più viva. Più partecipe, per un allargamento della cerchia delle persone coinvolte nell’iniziazione cristiana. Più viva, per una utilizzazione maggiormente convinta e fiduciosa dei molteplici e vari doni e compiti, che sono presenti nella comunità ecclesiale per essere posti al servizio del cammino di fede dei suoi figli.

Solo una paziente e permanente educazione a una “coscienza di Chiesa” potrà favorire quella “conversione culturale e pastorale” necessaria perché sia superata l’idea che l’iniziazione cristiana è un fatto “privato” e che interessa solo poche persone.

 

Nuove strade e sperimentazioni

per l’iniziazione cristiana

 

64.    Si deve però dire che il nostro impegno pastorale nell’educazione cristiana, anche se convintamente e generosamente puntato a ottenere i traguardi indicati, è chiamato, nell’attuale situazione, ad aprire strade nuove.

 

Oggi, nell’ambito della iniziazione cristiana, sembra non essere più sufficiente “inserire l’innovazione nella conservazione”. Da più parti si avverte l’esigenza, anzi l’urgenza, di dar vita – senza timori e, insieme, con grande saggezza – a iniziative innovative. La nota parabola di Gesù non può avere, proprio in questo campo pastorale, una sua legittima applicazione? «Diceva loro anche una parabola: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio”» (Luca 5, 36).

 

Tra le diverse e possibili strade innovative da individuare e percorrere, va segnalata come utile e significativa quella che vede nel catecumenato degli adulti, recentemente ripristinato nelle nostre Chiese italiane, un modello di riferimento per educare alla fede anche i fanciulli e i ragazzi già battezzati.

A tale proposito, così scrivono i Vescovi italiani: «Il catecumenato è una funzione essenziale della Chiesa. Il suo ripristino costituisce oggi un criterio di validità e un’occasione provvidenziale di rinnovamento ecclesiale. In una pastorale di evangelizzazione la scelta catecumenale deve passare da esperienza marginale o eccezionale a prassi ordinaria. Il catecumenato non è qualcosa di aggiuntivo, ma momento fondamentale dell’attività delle nostre comunità ecclesiali, anche se al presente possono essere pochi gli adulti che domandano esplicitamente il battesimo. Inoltre il catecumenato degli adulti costituisce il modello di ogni processo di iniziazione cristiana. Anche la prassi tradizionale dell’iniziazione per coloro che hanno ricevuto il battesimo da bambini va ripensata e rinnovata alla luce del modello catecumenale» (Consiglio Permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti, 41).

Le ultime espressioni citate ci aiutano a precisare che, proprio in quanto costituisce un “modello”, il catecumenato degli adulti non va interpretato come normativo e vincolante, ma piuttosto come modalità a cui ispirarsi, adattandola ai fanciulli e ai ragazzi, in considerazione non solo della loro specifica età, ma anche del concreto contesto pastorale delle nostre comunità parrocchiali, nelle quali l’itinerario di iniziazione cristiana per i battezzati viene già proposto e attuato.

 

Tra le possibili iniziative innovative, ne ricordiamo due, da precisare e concretizzare ulteriormente.

La prima è quella di adottare lo stile del catecumenato proprio dell’iniziazione cristiana di fanciulli e ragazzi in età scolare non ancora battezzati, per adattarlo ai fanciulli e ragazzi già battezzati. Tale metodo prevede che, verso l’undicesimo anno, dopo un itinerario di circa quattro anni con una tipica scansione di tempi e tappe, i fanciulli celebrino unitamente i sacramenti della Confermazione e dell’Eucaristia, nella Veglia pasquale (cfr. Consiglio Permanente della CEI, L’iniziazione cristiana. 2. Orientamenti per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni, 54). Con questi Sacramenti, però, non si chiude il periodo dell’iniziazione cristiana, perché i ragazzi e gli adolescenti devono crescere verso un’adesione di fede più consapevole, una vita cristiana più matura, un inserimento definitivo e responsabile nella comunità cristiana adulta: è il tempo della “mistagogia”, ossia dell’approfondimento.

Un’altra iniziativa è quella di riprendere e attuare, nella iniziazione cristiana, la successione teologica dei sacramenti Battesimo-Cresima-Eucaristia e di proporre un cammino di fede nel quale la Cresima “conferma” il Battesimo e l’Eucaristia costituisce il vero “compimento” dell’iniziazione cristiana. Oggi, la Cresima, sacramento non reiterabile, provoca inevitabilmente l’impressione che il cammino di fede si concluda con la sua celebrazione. Mentre, con l’Eucaristia, che è il sacramento più reiterabile tra tutti, il cammino sfocia sulla vita cristiana che continua. L’iniziazione cristiana non potrà certo durare per tutta la vita. Ma la formazione cristiana non può non essere permanente!

 

Queste e altre “sperimentazioni” rispettose dei valori, dei criteri e delle indicazioni fin qui richiamati e precisati, proprio perché sono sperimentazioni, possono trovare la loro legittimità ecclesiale solo nella misura in cui rimangono sotto la responsabilità del Vescovo.

È giunto ormai il tempo di studiare, individuare e articolare in modo concreto le strade nuove da intraprendere per imprimere al cammino di iniziazione cristiana quella più marcata accentuazione missionaria che la situazione attuale domanda e sollecita.

A tale scopo, chiedo che i competenti Organismi della Curia – in particolare, il Servizio per il Catecu-menato, il Servizio per la Catechesi, il Servizio per la Pastorale Liturgica, il Servizio per i Ragazzi e l’Oratorio, il Servizio per la Famiglia –, in collaborazione tra di loro e secondo modalità che verranno precisate, riprendano e approfondiscano quanto scritto in queste pagine e, coerentemente, formulino degli itinerari concreti di iniziazione cristiana, promuovendone e seguendone anche le opportune sperimentazioni.

Da questo lavoro comune e dopo le necessarie verifiche da parte del Vescovo, dovranno nascere le indicazioni operative da presentare in modo autorevole – anche mediante un auspicabile “Convegno pastorale diocesano” – all’intera Diocesi, per una loro concreta attuazione.

 

La richiesta di “sposarsi in chiesa”:

una “pro-vocazione” missionaria

 

65.   Quanto abbiamo illustrato sinora va pure tenuto presente per le problematiche pastorali riguardanti la preparazione e l’ammissione al sacramento del Matri-monio. Il volto di una Chiesa davvero missionaria deve risplendere anche di fronte alla richiesta di “sposarsi in chiesa”.

Nonostante conosca una flessione preoccupante – dovuta, tra l’altro, all’aumento delle convivenze e dei matrimoni solo civili –, questa richiesta, seppure con percentuali differenti tra la grande città e i paesi, rimane ancora alta. Essa suona come salutare “pro-vocazione” per una pastorale chiamata a rinnovarsi profondamente, con il coraggio di intraprendere anche strade nuove.

Tra coloro che chiedono di “sposarsi in chiesa” non mancano giovani che lo fanno con coscienza e responsabilità, animati da un genuino spirito di fede. Tra questi ci sono anche fidanzati particolarmente sensibili e preparati. Sono persone che hanno diritto a un nutrimento solido. Glielo dobbiamo assicurare, proponendo loro itinerari di fede esigenti e attraenti, che li aiutino a fare del fidanzamento un tempo di crescita, di responsabilità e di grazia. Sono persone che hanno il dovere di vivere da “missionari”, di offrire a tutti – a partire dagli altri giovani che si stanno preparando al Matrimonio – la testimonianza gioiosa di una sequela di Gesù che dà senso alla vita, illumina e rende più vero il cammino nell’amore, apre a orizzonti impegnativi e grandi la prossima esperienza coniugale e familiare (cfr. Sinodo 47°, cost. 400, 5). In questo li dobbiamo aiutare, accompagnare, sostenere e spronare.

Molto più spesso, però, la situazione è profondamente diversa. Chiedono di “sposarsi in chiesa”, in moltissimi casi, giovani che, pur domandando il Matrimonio canonico, mostrano di non essere pronti a celebrarlo con fede o che mostrano, addirittura, una preoccupante impreparazione alla scelta matrimoniale. Il quadro si fa ancora più serio, se si considera il contesto generale: da un lato, c’è quello familiare, che non è più in grado da solo di trasmettere ai giovani i valori riguardanti la vita matrimoniale e familiare; dall’altro, c’è il contesto socioculturale, che si presenta spesso come ostacolo per un’adeguata comprensione del significato, del valore e delle esigenze della vita matrimoniale e familiare.

 

66.   Da questa situazione emerge un grido pressante, che si fa imperativo per la nostra azione educativa e pastorale. La pastorale della Chiesa è oggi a una “svolta storica”: o si rinnova profondamente o finisce per essere sempre più ininfluente e marginale. Occorre una vera e propria “conversione”, nel segno di una rinnovata e decisa missionarietà.

La preparazione dei fidanzati al Matrimonio ci si presenta come un “tempo favorevole” per annunciare il Vangelo e trasmettere la fede. È un autentico “kairòs” per un’evangelizzazione degli adulti e, spesso, dei cosiddetti “lontani”, che deve portarli a rinnovare il loro incontro con la persona di Gesù, con il messaggio del Vangelo e con la Chiesa.

La sfida è grande ed entusiasmante. Ai giovani occorre dare l’occasione di interrogarsi a fondo sui desideri e sulle attese che coltivano e di ritrovare le ragioni vere della loro esistenza e della loro scelta. Occorre offrire loro l’opportunità di vedere e incontrare il volto di una Chiesa vicina e amica, alla quale sta a cuore la loro felicità e che, proprio per questo, sa proporre grandi ideali e sa mettersi al loro fianco prima e dopo le nozze. Soprattutto, occorre mostrare loro la grandezza e la bellezza di un amore vissuto in modo pienamente umano, nella fede, secondo il Vangelo di Gesù.

Se è vero che molti fidanzati sono “lontani” dalla vita di fede, il cammino da proporre non è solo, né primariamente, quello che riguarda il sacramento del Matrimonio, ma è anzitutto quello dell’annuncio della persona viva di Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto, unico salvatore del mondo, presente e operante con il suo Spirito nella Chiesa. È quello di una riscoperta della fede, da promuovere e attuare, in modo comunitario e/o personalizzato, con quei fidanzati che ne avessero bisogno. Questa indicazione – più volte rimarcata in questi ultimi anni e presente anche nel nostro Sinodo 47° (cfr. cost. 401, 2) – chiede di essere maggiormente seguita, senza venir meno, tuttavia, alla necessaria preparazione al Matrimonio in quanto tale.

A tale scopo, chiedo che, lungo questo triennio pastorale, il Servizio per la Famiglia – in collaborazione, in particolare, con il Servizio per la Catechesi e con il Servizio per i Giovani – studi i criteri da presentare alla Diocesi ed elabori i sussidi da offrire ai Parroci e agli operatori pastorali, affinché questi “cammini di riscoperta della fede” possano essere proposti e attuati in modo più convinto e generalizzato nelle nostre parrocchie.

 

Perché la preparazione al Matrimonio sprigioni tutta la sua carica missionaria, occorre che il cammino proposto ai fidanzati sia finalizzato a far conoscere, accogliere e vivere la novità del mistero cristiano del Matrimonio. Si deve, quindi, presentare la verità cristiana del Matrimonio nel suo fondamentale contenuto di comunità d’amore e di vita, nelle sue caratteristiche di unicità e indissolubilità e, in una maniera particolare, nella novità sacramentale portata da Cristo per la santificazione della famiglia e per il suo servizio nella Chiesa e nella società. Questa verità cristiana del Matrimonio assume, purifica e dà pienezza di significato alla sua realtà creaturale e umana: solo Cristo, vero Dio e vero uomo, può condurre a compimento l’autentica “umanizzazione” della vita coniugale e familiare.

È ora che l’itinerario di preparazione proposto assuma decisamente il volto di un vero “itinerario di fede”, di una autentica “iniziazione” al Matrimonio. Deve trasmettere la fede della Chiesa circa il Matrimonio, trasmetterla nella sua “totalità unificata” di Parola-Sacramento-vita. In questo senso, il cammino proposto deve favorire una progressiva maturazione nella fede, mediante l’annuncio e l’accoglienza della Parola di Dio, la libera adesione al Signore Gesù e la generosa sequela di lui, la testimonianza della fede agli altri. Deve pure offrire occasioni per nutrirsi con la preghiera personale e comunitaria e per partecipare alla vita della Chiesa, alla sua liturgia e ai suoi Sacramenti. Deve, infine, orientare a una vita di carità che, nello Spirito, si apre a tutte le esigenze etiche e spirituali di un’esistenza conforme a Cristo e al suo Vangelo (cfr. Sinodo 47°, cost. 402, 1).

 

In questa precisa linea si muove il “Sussidio per animatori” dal titolo In cammino verso il matrimonio, pubblicato nell’anno del Giubileo, approvato dai Vescovi Lombardi e da loro presentato come «una proposta autorevole».

Mentre rimaniamo in attesa dei risultati dell’indagine promossa in tutte le Diocesi di Lombardia lungo questo anno pastorale sull’uso di questo sussidio, chiedo che esso venga utilizzato in ogni parrocchia e in ogni realtà della Diocesi nella quale si propongono itinerari di preparazione dei fidanzati al Matrimonio. Lo chiedo come gesto concreto di comunione, convinto che è solo nella comunione che si può realizzare una proposta pastorale seria. E se è vero che gli itinerari di preparazione allo “sposarsi in chiesa” possono godere di una legittima varietà di metodi e di una necessaria flessibilità di applicazione in rapporto alle diverse situazioni dei singoli e delle coppie, è pure vero che devono procedere da un programma comune – nei contenuti e nei tempi – proposto dalla Chiesa locale e condiviso responsabilmente da tutti gli operatori pastorali, a cominciare dai parroci.

 

67.    La caratterizzazione missionaria dell’azione pastorale deve esprimersi anche nelle scelte da fare al momento della decisione di ammettere o no al sacramento del Matrimonio. È da rilevarsi anzitutto che «la fede di chi domanda alla Chiesa di sposarsi può esistere in gradi diversi [e che] è dovere primario dei pastori di farla riscoprire, di nutrirla e di renderla matura» (Familiaris consortio, 68). Occorre allora proporre un cammino serio che aiuti i fidanzati a riflettere sulla loro scelta, a scegliere in piena libertà, a condividere la fede della Chiesa sul Matrimonio, così da celebrarlo in questa fede nel modo più maturo possibile. Di qui anche il diritto-dovere di pronunciarsi sull’esistenza o meno delle condizioni di fede perché la coppia di fidanzati possa “sposarsi in chiesa”.

Ma nel fare ciò, è necessario – come precisa Giovanni Paolo II – che i pastori comprendano «le ragioni che consigliano alla Chiesa di ammettere alla celebrazione anche chi è imperfettamente disposto». Sono ragioni che derivano dal fatto che il sacramento del Matrimonio ha, come sua caratteristica specifica, «di essere il sacramento di una realtà che già esiste nell’economia della creazione», per cui «la decisione dell’uomo e della donna di sposarsi secondo questo progetto divino… implica realmente, anche se non in modo pienamente consapevole, un atteggiamento di profonda obbedienza alla volontà di Dio, che non può darsi senza la sua grazia». Sono, ancora, ragioni dovute al fatto che i battezzati che chiedono di “sposarsi in chiesa” – anche se non lo chiedono per motivi autenticamente religiosi e di fede, ma sono sinceramente disposti ad accettare la natura, i fini e le proprietà essenziali del matrimonio cristiano – «in forza del loro Battesimo, sono realmente già inseriti nell’alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa e…, per la loro retta intenzione, hanno accolto il progetto di Dio sul matrimonio e, quindi, almeno implicitamente, acconsentono a ciò che la Chiesa intende fare quando celebra il matrimonio» (cfr. Familiaris consortio, 68).

Certo, comprendere queste ragioni non vuol dire accontentarsi che tutto ciò rimanga “implicito”. C’è, piuttosto, un ampio lavoro di evangelizzazione da svolgere affinché ciò che è “implicito” diventi “esplicito”. Ma, una volta che questo è avvenuto utilizzando tutti i modi più adeguati, c’è da “fermarsi”, riconoscendo di non poter fare di più. Occorre avere fiducia in Dio e nella sua capacità di salvare. Occorre continuare ad accompagnare le persone e aiutarle a riprendere e ad approfondire la loro fede.

«Quando, al contrario, – precisa ancora il Papa – nonostante ogni tentativo fatto, i nubendi mostrano di rifiutare in modo esplicito e formale ciò che la Chiesa intende compiere quando si celebra il matrimonio dei battezzati, il pastore d’anime non può ammetterli alla celebrazione». E aggiunge, mettendo in risalto un altro aspetto del compito e della fatica dell’evangelizzazione: «Anche se a malincuore, egli ha il dovere di prendere atto della situazione e di far comprendere agli interessati che, stando così le cose, non è la Chiesa, ma sono essi stessi ad impedire quella celebrazione che pure domandano» (Familiaris consortio, 68).

L’eventuale doverosa decisione di non ammettere alla celebrazione del Matrimonio è, allora, un gesto da vivere in un’ottica propriamente missionaria. In realtà, questa «decisione… – che in una società secolarizzata come la nostra può essere anche una dolorosa ma stimolante scelta pastorale – costituisce sempre “un gesto di rispetto di chi si dichiara non credente, un gesto di attesa e di speranza, un rinnovato e più grave appello a tutta la comunità cristiana perché continui a essere vicina a questi suoi fratelli, impegnandosi maggiormente nella testimonianza di fede dei valori sacramentali del matrimonio e della famiglia”» (Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, 86).

 

Quando in famiglia si chiedono i Sacramenti

 

68.   La richiesta dei Sacramenti si presenta come una “pro-vocazione” a rinvigorire il proprio slancio missionario anche quando essa si manifesta nella vita della famiglia. Come quando i genitori chiedono il Battesimo per i figli o quando, a seguito di dolorosi fallimenti nell’esperienza familiare, si chiede di accedere alla Comunione eucaristica o a nuove nozze.

 

La nascita di un figlio e la conseguente richiesta di battezzarlo è un evento che interroga le nostre comunità cristiane e che le stimola a obbedire al comando di Gesù: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato» (Matteo 28, 19-20).

Per la coppia, un figlio che nasce è solitamente un evento atteso e gioioso, che di per sé fa sorgere la domanda sul senso e sul mistero della vita e “provoca” la fede dei genitori che ne chiedono il Battesimo. Ma provoca anche la comunità cristiana, perché sia in grado di accompagnare e far crescere i genitori nella fede e, insieme, di annunciare e testimoniare all’intera comunità la fede della Chiesa nella grazia e nelle esigenze di vita del Battesimo.

La preparazione dei genitori, che rientra in modo irrinunciabile nella pastorale “ordinaria”, deve essere promossa – anche secondo le precise indicazioni del Sinodo 47° (cost. 102) – in un’ottica chiaramente evangelizzatrice. Essa, «oltre a momenti di incontro personale, preveda anche momenti comunitari, nei quali siano coinvolte insieme più coppie di sposi, si possa riprendere e sviluppare la riflessione iniziata negli itinerari di preparazione al matrimonio, vengano favoriti in tutti coloro che vi partecipano un risveglio, una verifica, un approfondimento della loro fede e della loro vocazione. La stessa preparazione cominci possibilmente già durante l’attesa del figlio, perché in un momento così singolare e significativo i genitori siano aiutati a vivere la maternità e la paternità come coronamento della loro risposta a una vocazione di amore e ad accogliere nella fede il dono che Dio sta affidando alla loro responsabilità» (Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, 105).

La richiesta che i genitori fanno del Battesimo per i fi-gli, allora, deve provocare la vitalità pastorale e lo slancio missionario di ogni comunità parrocchiale, che con il Bat-tesimo è chiamata a farsi visibilmente “grembo” accogliente, per i nuovi membri della Chiesa e per le loro famiglie.

 

Questo slancio missionario deve manifestarsi, con tutta la forza e la discrezione necessarie, anche quando la richiesta del Battesimo viene da genitori conviventi o sposati solo civilmente, ai quali nulla impedisce di “regolarizzare” la loro posizione. È questa una provvidenziale occasione di evangelizzazione – da assumere con responsabilità – per annunciare ai genitori la verità del Vangelo, con tutte le sue conseguenze sulla loro vita, e per invitarli e aiutarli a “regolarizzare”, per quanto possibile, la loro posizione.

 

La vitalità e l’impegno missionario di ogni comunità parrocchiale devono esprimersi anche dopo la celebrazione del sacramento del Battesimo. Le giovani famiglie hanno diritto alla presenza amorevole ed efficace della Chiesa che, come Madre, pone gesti concreti di aiuto per il loro cammino umano e religioso. Si eviterà così che si crei un vuoto di attenzione per i bambini e le loro famiglie tra il momento della celebrazione del Battesimo e quello della preparazione agli altri Sacramenti dell’iniziazione cristiana.

Nelle nostre parrocchie, come nelle diverse realtà e istituzioni ecclesiali, a iniziare dalle Scuole materne parrocchiali o comunque di iniziativa o di ispirazione cristiana, dobbiamo valorizzare il Catechismo dei bambini “Lasciate che i bambini vengano a me”. È un testo forse troppo spesso dimenticato, ma da riprendere con maggiore fiducia, nella convinzione che la familiarità con questo “libro della fede” potrà essere di grande aiuto per i genitori a crescere nella fede e a camminare insieme ai figli alla presenza del Signore, senza delegare ad altri il loro nativo e imprescindibile compito di educarli cristianamente, trasmettendo loro la fede.

 

69.   Quando poi, nel corso della vita familiare, subentrano dolorose esperienze di fallimenti, che portano alla separazione dei coniugi e, successivamente, al divorzio e, dopo il divorzio, a un matrimonio civile, la missione della Chiesa di annunciare il Vangelo e trasmettere la fede si ripresenta con tutta la sua serietà e urgenza. Si ripresenta, in particolare, allorché le persone che si trovano in “situazione matrimoniale irregolare” chiedono di ricevere i sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia o di accedere a nuove nozze sacramentali.

La Chiesa non può certo rimanere indifferente di fronte a queste persone e alle loro richieste. Deve accompagnarle pastoralmente con grande amore e nella piena fedeltà agli insegnamenti e all’esempio di Cristo.

 

È proprio questa fedeltà a chiederci di riconoscere che coloro che vivono in situazione matrimoniale irregolare, in forza della novità indelebile del Battesimo ricevuto, continuano ad appartenere alla Chiesa, anche se, per il permanere della loro situazione di vita, non sono in “piena” comunione con essa.

Dobbiamo evitare ogni forma di emarginazione e, soprattutto, di giudizio che scoraggia, mette in solitudine e allontana proprio chi ha bisogno di sentirsi compreso e accolto. Occorre stare loro vicini con delicatezza e con amore, aiutandoli, anche con adeguate esperienze di gruppo, a pregare, ad ascoltare la Parola di Dio, a partecipare fedelmente alla Messa, a confidare nell’amore del Signore che non li abbandona, ad accogliere i suoi richiami alla conversione, a vivere nella carità, a svolgere il loro compito educativo nei confronti dei figli, a fare quelle scelte che sono secondo il Vangelo.

 

È ancora la stessa fedeltà all’insegnamento e all’esempio di Gesù a esigere di annunciare il Vangelo anche in queste situazioni: di annunciarlo integralmente, anche in rapporto all’amore unico e indissolubile.

Dobbiamo mostrare e testimoniare la bellezza e le esigenze della indissolubilità matrimoniale, come dono e compito reso possibile dalla fedeltà del Signore e dall’impegno degli sposi.

 

È sempre questa stessa fedeltà a esigere di non falsificare la verità dei Sacramenti come segni espressivi della fede della Chiesa e della sua adesione al Vangelo, oltre che della piena comunione con Cristo e con la Chiesa.

Non possiamo offrire i Sacramenti a chi è e rimane in situazione irregolare, senza cadere nella contraddizione di celebrare i misteri dell’unità della fede tollerando uno stato di vita in contrasto con il Vangelo e, quindi, con la fede. In questa situazione, dobbiamo mostrare che la non ammissione ai Sacramenti – della Riconciliazione, della Comunione eucaristica, di un nuovo Matrimonio se il primo risulta validamente celebrato – non è una indebita imposizione della Chiesa, ma è il riconoscimento delle esigenze irrinunciabili del Vangelo e della verità della situazione delle persone coinvolte.

 

Siamo chiamati a vivere tutto questo con un autentico spirito missionario, facendo nostro l’atteggiamento che ci viene indicato dai Vescovi italiani: «È necessario… aiutare i divorziati risposati, che desiderano accostarsi ai sacramenti, a comprendere che il significato profondo dell’atteggiamento della Chiesa nei loro confronti non è quello dell’esclusione discriminatoria delle persone, bensì quello dell’autentico rispetto di tutte le persone e di tutti i valori in gioco e, soprattutto, quello della sua fedeltà al Vangelo. Bisogna anche aiutare ad accettare la loro impossibilità a ricevere l’Eucaristia come appello alla conversione. Nello stesso tempo, senza dimenticare che Dio ha legato la grazia alla Chiesa quale sacramento di salvezza, occorre educarli a sperare sempre nella grazia di Dio, unico giudice delle coscienze…» (Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, 219).

Mossi dallo stesso spirito missionario, non dobbiamo neppure tralasciare di mostrare come la sofferenza di alcuni di questi nostri fratelli e sorelle suona quale appello a maggiore serietà e conversione anche per chi è oggettivamente in situazione matrimoniale “regolare”. Non solo perché può «essere di sostegno per altri fratelli di fede di fronte alla tentazione di infrangere il vincolo coniugale per ricorrere al divorzio e a nuove nozze» (Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, 219). Ma anche perché il loro «desiderio vivo di ricevere l’Eucaristia e l’accettazione dell’impossibilità di accedervi… diventano un ammonimento per molti di noi che si accostano per abitudine e con indifferenza al dono del Corpo e del Sangue del Signore» (Conferenza Episcopale Lombarda, Seguire Gesù sulle strade dell’amore e della vita. Lettera alle nostre famiglie, 8 settembre 2001, 28).