Mi sarete testimoni - Capitolo sesto   

Mi sarete testimoni - Capitolo sesto   

Capitolo sesto

 

Voi siete il sale della terra

Immersi nel mondo a servizio del Regno di Dio

 

 

 

70.   L’evangelizzazione e la fede sono il “caso serio” della Chiesa. Lo sono, forse e soprattutto, nelle attuali condizioni storiche.

Ma non possiamo non annunciare Gesù Cristo! Tradiremmo la nostra identità e missione di Chiesa e di cristiani. Priveremmo gli uomini e le donne di oggi e di domani, e la stessa società, di quella salvezza di cui hanno bisogno e alla quale hanno diritto.

 

Il “caso serio” dell’evangelizzazione e della fede

nella nostra società

 

Tutto questo si presenta oggi come un’impresa talmente faticosa e difficile da sembrare, a volte, quasi impossibile. La cultura dominante non favorisce, anzi spesso ostacola, la corsa del Vangelo per le strade del mondo e nel cuore degli uomini. È, infatti, una cultura intimamente segnata da fattori che concorrono a dissolvere il plurisecolare e tradizionale rapporto di integrazione, se non di identificazione, tra cristianesimo e società.

La nostra non è più una “società cristiana”! No-nostante permangano non pochi segni di una civiltà – come quella italiana e europea – che affonda le proprie radici nel Vangelo e nel cristianesimo, dobbiamo constatare che «la cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sa-zio che vive come se Dio non esistesse» (Ecclesia in Europa, 9).

 

Questa “apostasia silenziosa” si manifesta in modo più esplicito là dove ciascuno di noi conduce la propria vita di ogni giorno, nella trama di quelle relazioni che, a partire dalla famiglia, disegnano il volto della società in cui esistiamo e di cui siamo parte.

Proprio nella società contemporanea – dove, in concreto, ogni uomo e donna nasce, cresce, vive, studia, lavora, si diverte, gioisce, soffre e muore – il “caso serio” dell’evangelizzazione e della fede si presenta con tonalità ancora più gravi e più evidenti. Nella nostra società è quanto mai difficile e arduo non solo “diventare” cristiani, ma anche “essere” cristiani e “vivere” da cristiani.

Nella nostra società la presenza e la testimonianza della Chiesa e dei cristiani sono messe a dura prova. Si trovano di fronte a sfide in qualche modo inedite e assai gravide di responsabilità.

 

La Chiesa nella società: una “tensione irrisolta”

 

71.   In questa situazione, è facile vivere la presenza e la testimonianza nella società nella logica di una “tensione irrisolta”, che può assumere di fatto forme o di estraneità o di contrapposizione.

Un primo atteggiamento, abbastanza diffuso, è quello della sostanziale dissociazione ed estraneità tra la fede professata-celebrata-vissuta nella comunità ecclesiale e la vita quotidiana, condotta in famiglia, al lavoro o a scuola, durante il tempo libero e nel divertimento, come nei rapporti economici, sociali e politici. È l’atteggiamento di chi vive come se dicesse: “Quello che dice e propone il Vangelo è proprio bello, è troppo bello…, ma la vita, quella concreta, è un’altra cosa!”. Trovano posto qui, da una parte, il rifugio nel privato e la chiusura intimistica in una sorta di spiritualità ascetica disincarnata e, dall’altra parte, la quasi totale perdita della propria identità cristiana nei vari ambienti e nelle diverse occupazioni della vita sociale.

Un secondo atteggiamento è quello della contrapposizione a una società interpretata, per così dire, come il “regno del male” e, quindi, non conciliabile con la fede. Di qui la tendenza a sognare, illudendosi di poterla costruire, una società “diversa” e “separata”, quasi “felice cittadella” nella quale i cristiani possono vivere la loro fede senza essere disturbati e intaccati dalla cultura dominante. Di qui anche la tentazione di andare alla conquista della società, pensando di poter riprodurre nell’oggi quella “società cristiana” non più ipotizzabile, oltre che non pienamente rispettosa di una corretta libertà religiosa.

Ci troviamo di fronte a indebite e ingannevoli “scorciatoie” che non risolvono la tensione esistente tra la fede e la cultura e la società attuali. Invece di confrontarsi con il “caso serio” della fede, dell’evangelizzazione e della testimonianza cristiana nella società di oggi, lo “oltrepassano”, pensando che così esso venga meno. In realtà esso rimane. Rimane in tutta la sua serietà e problematicità.

 

Atteggiamenti simili sono posti in essere anche da parte della società nei confronti della Chiesa: nel segno o di una presunta “laicità” o di una indebita “strumentalizzazione”.

Nel primo caso, assistiamo a contrapposizioni false e falsificanti e, spesso, a equivoci volutamente coltivati nel dibattito culturale per alimentare un conflitto tra la cosiddetta linea “laica” e quella “cattolica”, pensate come inconciliabili. Così facendo, la giusta e doverosa “laicità” cade in forme di “laicismo” più o meno mascherato, che concorre a creare un clima di chiusura, se non di ostilità, verso tutto ciò che sa di cristiano e verso i cristiani stessi.

Nel secondo caso, la società, nelle sue varie articolazioni e istituzioni, tende a “tirare dalla propria parte” la Chiesa, strumentalizzandola ai propri fini “mondani”. È ciò che avviene, ad esempio, mediante concessioni, favoritismi e privilegi o, ancora più subdolamente, attraverso provvedimenti di vario genere, che si fanno carico di singole questioni che “stanno a cuore” alla Chiesa stessa, ma in un quadro generale non affatto coerente con una visione di persona e di società ispirata al Vangelo e, ancor prima, davvero umana e umanizzante. Sono tutte forme che esigono dalla Chiesa e dai cristiani un grande spirito di vigilanza e un più convinto sussulto di libertà nel vivere la fede e nel proporla a tutti in modo integrale, avvincente e convincente.

 

L’appello che viene dalle difficoltà

 

72.   In tutte queste circostanze, il nostro essere cristiani e vivere da cristiani nella società è messo ulteriormente a dura prova. Ma proprio per questo, è chiamato a rinnovarsi e ad assumere il volto di una presenza e di una testimonianza più decise, convinte, mature, capaci di “sostenere il confronto” e pronte a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cfr. 1 Pietro 3, 15). A diventare più missionarie!

Fa’, o Signore, che, in questo momento arduo e difficile per la nostra testimonianza nel mondo, sappiamo ascoltare la voce del tuo Spirito, che ci chiama e ci sprona.

Ripeti ancora a noi le parole che, un giorno, hai detto ai tuoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Matteo 5, 13-16).

Queste stesse parole riecheggino, affascinanti e provocatorie, nel cuore di tutti i fedeli della nostra Chiesa ambrosiana. Fa’ che io per primo – insieme con ciascuno di voi – le senta risuonare in me in modo ogni giorno sempre nuovo. Le riconosca come l’invito e il comando, che rivolgi proprio a me, per risvegliarmi da ogni torpore e stanchezza. Fa’ che siano stampate nel cuore come provocazione inquietante e dolce: “Tu sei il sale della terra; tu sei la luce del mondo!”.

 

Dal “dono” ricevuto un “compito” da assolvere

 

73.   Essere “sale” della terra e “luce” del mondo. È la sfida che tutti ci interpella. Una sfida che, secondo le parole di Gesù, è insieme un “dono” e un “compito”.

Gesù non dice: “Siate il sale della terra; siate la luce del mondo”. In modo sorprendente e inaspettato – perché nel contesto del “discorso del monte” con cui promulga la legge del nuovo popolo di Dio –, dice: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo» (Matteo 5, 13.14). Siamo posti di fronte ad affermazioni che definiscono l’identità della Chiesa e dei cristiani.

È una identità che nasce da un “dono di grazia”: quello di essere resi così conformi a Cristo da partecipare della sua stessa identità e della sua missione.

È Gesù la luce del mondo. È lui è «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Giovanni 1,9). È lo stesso Signore ad attestarlo: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni 8, 12). Se, dunque, la Chiesa e i cristiani sono luce del mondo, lo sono perché sono inseriti in Cristo, sono, in certo modo, suo “sacramento”. E lo sono tanto più quanto più portano Cristo nel mondo e sono luminosa trasparenza di lui, indirizzando a lui e gli uomini e il mondo.

È Gesù il sale della terra. È lui l’unico che sa dare sapore alla convivenza umana, che sa rendere “buona e gustosa” l’esistenza, che offre pienezza di senso a ogni persona e a tutta la società. E, ancora una volta, la Chiesa e i cristiani possono fare tutto ciò perché sono resi partecipi di Cristo e nella misura in cui portano Cristo nel mondo, ossia vivono nella fede e testimoniano e trasmettono la fede.

 

Resi sale della terra e luce del mondo, non possiamo non esserlo! Tradiremmo la nostra identità. Ci voteremmo alla più radicale insignificanza e inutilità. Sono davvero inequivocabili le parole di Gesù: «se il sale perdesse il sapore… a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini… Non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Matteo 5, 13.14-15). Essere “sale” della terra e “luce” del mondo è il preciso “compito” che ci è affidato. È “dovere” grave e irrinunciabile. Perché sono chiamate in causa la novità assoluta della fede cristiana, la verità del mondo e della società, la nostra responsabilità di “strumenti” di salvezza per l’uomo e per il mondo.

 

Rinunciare a essere “sale” della terra e “luce” del mondo significa rinnegare che Gesù Cristo è il “cuore” della fede e dell’evangelizzazione, è vero Dio e vero uomo, è l’unico, universale e necessario Salvatore dell’uomo e del mondo. Non essere “sale” e “luce”, ossia non portare Gesù come vera “luce” e vero “sale” del mondo, significa affermare di fatto che tutto ciò che è umano – le singole persone, tutte le relazioni tra di loro e l’organizzazione sociale della convivenza – non trova in Gesù la sua verità, il suo modello, il suo senso. Significa condividere di fatto la convinzione diffusa che il mondo non ha bisogno di Cristo, ma può vivere senza di lui.

Rinunciare a essere “sale” della terra e “luce” del mondo significa rinnegare la verità del mondo. Il mondo – inteso come tutto ciò che esiste e, in particolare, come l’habitat geografico e relazionale dell’uomo – ha la propria origine in Cristo e da Cristo, in lui trova il suo senso e il suo sostegno, a lui è orientato e finalizzato (cfr. Colossesi 1, 15-17). Gesù, allora, è il “cuore” del mondo e, nel disegno del Padre, tutte le cose devono essere ricapitolate in lui (cfr. Efesini 1, 10). Non essere “sale” e “luce”, ossia non portare Gesù come vera “luce” e vero “sale” del mondo, è da qualificarsi come gesto di profonda “inimicizia” nei confronti del mondo e della società, perché li si priva della possibilità di realizzarsi pienamente e secondo verità.

Rinunciare a essere “sale” della terra e “luce” del mondo significa venir meno alla nostra responsabilità missionaria. È Gesù stesso a precisare che lo scopo del compito da lui affidatoci è quello di rendere testimonianza: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Matteo 5, 16). Ma, il “rendere gloria” al Padre suppone di “riconoscerlo” come Dio, ossia come Colui che è degno di ricevere gloria, onore e potenza: suppone e, in qualche modo, esige una professione di fede. Il “rendere gloria”, inoltre, significa “celebrare”, lodare e benedire lo stesso Signore, ossia aprire il cuore e le labbra alla preghiera, manifestando anche così la propria fede in lui. Infine, il “rendere gloria” raggiunge la sua piena espressione, quella più gradita al Signore, quando si fa “vita vissuta” secondo il disegno di Dio e nella sua volontà: diventa un compiere, a propria volta, delle “opere buone”. Ma sono proprio queste ultime a far sì che altri, a loro volta, vedendole, rendano gloria al Padre che è nei cieli. In questo modo, la testimonianza della fede si fa “generatrice” di altra fede di luogo in luogo e di generazione in generazione. Essere “sale” della terra e “luce” del mondo significa, allora, porsi come “anello di congiunzione” nella ininterrotta catena della trasmissione della fede, iniziata con gli Apostoli e che si concluderà con il ritorno glorioso del Signore Gesù.

 

Presenti e immersi “nel” mondo

 

74.   Sono ancora le stesse immagini usate da Gesù a indicarci come va vissuto il comando di essere “sale” della terra e “luce” del mondo. Ci dicono come la Chiesa e i cristiani possono e devono vivere il loro essere missionari nella società, in tutti i luoghi e le relazioni in cui si articola e si svolge la vita dell’uomo.

Il “sale” dà sapore quando viene messo nel cibo e si scioglie. Ma deve essere nella giusta quantità, altrimenti o lascia il cibo insipido o lo rende troppo salato. La “luce” illumina davvero quando si diparte dalla fonte che la promana e raggiunge la realtà, entrando in essa con una diffusione che avvolge, rischiara, ne mette in risalto le linee e i colori.

“Sale” e “luce” sono immagini che dicono la necessità di superare ogni separazione ed estraneità e di dare vita a una sorta di “immersione” o, meglio, di “compenetrazione”. È questa la condizione indispensabile per vivere, da parte della Chiesa e dei cristiani, la loro nativa vocazione missionaria nella società.

 

È stato Gesù stesso, il missionario del Padre, a darcene l’esempio con la sua incarnazione. Lui – la vera luce del mondo e l’autentico sale della terra – ha preso dimora nel mondo, ha posto la sua tenda in mezzo a noi, anzi ha fatto della nostra stessa umanità la sua tenda fra noi. Non ha temuto di “perdersi” entrando nella storia (cfr. Filippesi 2, 6-8).

 

Così, sull’esempio di Gesù, è e deve essere per la Chiesa. Alla luce della fede, il rapporto tra Chiesa e società, tra Chiesa e mondo, è all’insegna di una mutua collaborazione e compenetrazione. Ce lo ricorda il Concilio Vaticano II: «La Chiesa, procedendo dall’amore dell’eterno Padre, fondata nel tempo dal Cristo Redentore, radunata nello Spirito Santo, ha una finalità di salvezza ed escatologica, che non può essere raggiunta pienamente se non nel mondo futuro. Essa, poi, è già presente qui sulla terra, ed è composta da uomini, i quali appunto sono membri della città terrena, chiamati a formare già nella storia dell’umanità la famiglia dei figli di Dio, che deve crescere costantemente fino all’avvento del Signore. Unita in vista dei beni celesti e da essi arricchita, tale famiglia fu da Cristo “costituita e ordinata come società in questo mondo”, e fornita di “convenienti mezzi di unione visibile e sociale”. Perciò la Chiesa, che è insieme “società visibile e comunità spirituale”, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio. Tale compenetrazione di città terrena e città celeste non può certo essere percepita se non con la fede» (Gaudium et spes, 40).

 

Così può e deve essere per tutti i cristiani, che il Signore Gesù, tornando al Padre, non ha voluto togliere dal mondo, ma ha lasciato nel mondo (cfr. Giovanni 17, 15). Li ha lasciati perché restassero dentro la società degli uomini, condividendo con tutti gli altri le stesse esperienze e la stessa vita, ma senza perdere il loro sapore e la loro capacità di diffondere luce.

Non ci è lecito “fuggire dal mondo”. Sono la stessa fede cristiana e la sequela di Gesù a ributtarci nel mondo e a esigere che rimaniamo dentro ogni piega della storia e della società per portarvi il sapore e la luce di Cristo. Come non meditare con grande serietà queste parole del Concilio? «Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno… Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo… Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna» (Gaudium et spes, 43).

 

La Chiesa è nel mondo

a servizio dell’assoluto del Regno di Dio

 

75.  Ma il “sale” per essere davvero tale non deve perdere il suo sapore; anzi, solo così può rendere gustoso il cibo in cui viene immerso. La “luce”, per illuminare tutti quelli che sono nella casa, non può rimanere nascosta o venire schermata: verrebbe meno al suo scopo, al motivo per cui viene accesa e la casa resterebbe nelle tenebre.  L’immersione e la compenetrazione non sono da intendere come perdita di identità.

È Gesù stesso l’esempio da contemplare, da imitare e da seguire. Sì, o Signore, con l’incarnazione, ti sei fatto vero uomo, ma sei rimasto “vero Dio”. Ti sei fatto nostro fratello, ma sei il Signore nostro! Venuto dal Padre, rimani nel Padre e il Padre rimane in te (cfr. Giovanni 14, 10-11). Tu e il Padre siete una cosa sola (cfr. Giovanni 10, 30). Sei tu l’immagine del Dio invisibile; in te abita tutta la pienezza della divinità (cfr. Colossesi 1,15; 2,9). Ancora una volta lo confessiamo con tutta la forza del nostro cuore: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16, 16).

 

Come Gesù, anche la Chiesa, compenetrata nella società e nel mondo, non può confondersi con la società e con il mondo. Essa costituisce già qui, sulla terra e nella società, «la famiglia dei figli di Dio… ed è come il fermento e l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio» (Gaudium et spes, 40).

 

Possiamo comprendere il significato più vero e profondo della presenza e missione della Chiesa nel mondo, nella società degli uomini, quale “sale” della terra e “luce” del mondo. Sono una presenza e una missione che derivano la loro identità dal riferimento alla assoluta novità del Regno di Dio, che Gesù è venuto ad annunciare e a inaugurare nel mondo e nella storia.

Il Regno di Dio, che consiste nel disegno di amore con cui il Padre vuole fare della storia degli uomini una storia di salvezza, non può essere disgiunto da Cristo, il quale non l’ha solo annunciato, ma anche incarnato nella sua stessa persona. Il Regno di Dio «non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzitutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazaret, immagine di Dio invisibile. Se si distacca il Regno da Gesù, non si ha più il Regno di Dio da lui rivelato, e si finisce per distorcere sia il senso del Regno, che rischia di trasformarsi in un obiettivo puramente umano o ideologico, sia l’identità di Cristo, che non appare più il Signore, a cui tutto deve essere sottomesso (cfr. 1Cor 15,27)» (Redemptoris missio, 18).

A questo Regno, a Gesù Cristo – l’assoluto umano di Dio, che è e rimane l’insuperabile e, come tale, costituisce il centro, il cuore e il fine di tutta la storia e dell’intera umanità –, tutto è orientato e finalizzato. Ed è solo riconoscendo e accogliendo questa centralità e assolutezza del Regno di Dio, che si può veramente comprendere e la Chiesa e il mondo e che, di conseguenza, si può cogliere quale sia la missione della Chiesa nel mondo.

 

Riconoscendo la centralità e l’assolutezza del Regno di Dio, comprendiamo che la Chiesa è intimamente connessa con il Regno di Dio, ma non si identifica con esso. La Chiesa è realmente il “Corpo” di Cristo, è indissolubilmente legata a Gesù e lo rende veramente presente. Ma la Chiesa non è Gesù Cristo: da Gesù Cristo nasce, di lui vive, a lui rimanda, a lui è finalizzata. In forza di questa sua identità, essa è germe, segno, anticipazione e strumento del Regno di Dio. E, tuttavia, essa non è fine a se stessa, ma è e rimane ordinata e orientata al Regno di Dio (cfr. Redemptoris missio, 18). Come tale, è chiamata non ad annunciare e instaurare se stessa nel mondo, ma soltanto Gesù Cristo e il suo Regno.

 

76.   La centralità e l’assolutezza del Regno di Dio illuminano e spiegano, nella loro verità più profonda, anche il mondo e la società. Questi ultimi non possono essere compresi a prescindere dal Regno di Dio, da Gesù Cristo, perché in lui sono stati creati e in lui continuano a esistere.

A suo modo, un modo certamente diverso da quello della Chiesa ma non meno reale, anche il mondo – con tutti gli esseri che lo abitano, le realtà che contiene, le articolazioni e i rapporti sociali che lo configurano – è orientato al Regno. Infatti, come ricorda san Paolo, tutta la creazione «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (cfr. Romani 8,19-21), quando Dio sarà tutto in tutti e ogni cosa sarà ricapitolata in Cristo e da lui sottomessa al Padre (cfr. 1 Corinzi  15, 23-28).

Il mondo intero, dunque, troverà un giorno la sua verità e la sua piena realizzazione nel Regno di Dio. Già fin d’ora, però, se vuole strutturarsi e articolarsi in modo coerente con ciò che è ed è chiamato a essere, deve lasciarsi animare e guidare da tutti quei valori di verità, di bontà, di giustizia, di libertà, di solidarietà e di pace, che il Regno di Dio indica, propone e immette nella storia e che del Regno di Dio sono espressione.

 

Si comprende qual è la missione della Chiesa nelle più diverse e concrete articolazioni del mondo e della società. È quella di essere dentro la società mantenendo integra la sua fisionomia di “anticipazione” e di “strumento” del Regno di Dio.

In quanto è germinale ma vera anticipazione del Regno, sua iniziale ma reale incarnazione, la Chiesa, con il suo stesso esistere e il suo star dentro la società, è chiamata a “mostrare” qual è il vero modo di vivere secondo i valori del Regno.

In quanto è strumento del Regno di Dio, affinché cresca e si affermi nel mondo rispettandone e portandone a compimento la sua intrinseca finalizzazione creaturale, la Chiesa è chiamata ad aiutare – anche sollecitandola, correggendola e offrendole orientamenti e indicazioni – la società intera a riscoprire, valorizzare e promuovere tutto ciò che di bene è scritto dentro di lei. Anzi, è chiamata a riconoscere in questo stesso bene dei “semi del Verbo”, dei segni della presenza di Gesù nel mondo, dei riverberi dell’azione potente dello Spirito di Dio, che soffia dove vuole (cfr. Giovanni 3, 8), anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa, nel mondo e nella storia. È chiamata, infine, a dare un nome, il nome proprio di Gesù e del suo Regno, a tutto quanto scopre e riconosce come segno dell’azione dello Spirito. La presenza della Chiesa nella società si fa, così, non solo “testimonianza” che mostra e diffonde nel mondo i “valori del Regno”, ma anche annuncio, celebrazione e servizio esplicito del Vangelo di Gesù. Si fa evangelizzazione e trasmissione della fede.

Con tutto questo, la missione della Chiesa è di essere nella società a servizio del Regno di Dio.

 

I cristiani “anima del mondo”

a servizio del Regno di Dio

 

77.   Quanto abbiamo detto della Chiesa può e deve essere affermato anche dei cristiani, singoli e associati. Congiunti a Cristo e inseriti nella Chiesa, essi sono sì immersi in tutti gli ambiti e in ogni piega della società, ma lo sono e lo devono essere secondo la loro propria originalità e identità: “da cristiani”, come cittadini del mondo, fedeli al Vangelo, guidati dalla coscienza cristiana (cfr. Gaudium et spes, 76). È questo il loro modo di essere nel mondo a servizio del Regno di Dio!

Quella dei cristiani è la vocazione a essere “anima del mondo”. Così, utilizzando la concezione filosofica del proprio tempo, la descriveva l’antica lettera A Diogneto: «I cristiani sono nel mondo quello che è l’anima nel corpo. L’anima si trova in  tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo. Anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo… Sebbene ne sia odiata, l’anima ama la carne e le sue membra; così anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo…» (VI, 1-7).

 

Come possiamo vivere questa vocazione oggi, nella nostra società? Come possiamo fermentarla, renderla più vera e più vivibile?

Rimanendovi dentro come lievito che fa fermentare tutta la pasta (cfr. Matteo 13, 33).

Infondendo in essa sapore e fragranza, con una condotta irreprensibile, che sa interrogare e contagiare, così che anche quanti non credono siano attratti (cfr. 1 Pietro 2, 12) e tutti intuiscano che vivere secondo il Vangelo è il modo più bello e più “vantaggioso” che esista, perché, più di ogni altro, rispetta e promuove la dignità di ogni persona, rende abitabile la terra e favorisce una convivenza nella giustizia e nella pace.

Con una costante lievitazione sociale nell’amore e nella verità, certi che – come scriveva il cardinale Martini promulgando il nostro Sinodo 47° – è «la cultura della verità e dell’amore che dobbiamo ricostruire e diffondere proclamando, come Paolo ad Atene, la verità rivelata da Cristo contro l’ignoranza e l’agnosticismo, e la gratuità di Dio e del suo amore come risposte al dubbio e all’angoscia dell’uomo contemporaneo» (Lettera di presentazione alla Diocesi,  36).

 

Vivendo e agendo così, i cristiani sono davvero “sale” e “luce” anche nella nostra società! Non possono non esserlo, a meno di tradire la propria identità. Infat-ti – come osserva san Giovanni Crisostomo – «se sarai cristiano, questo non potrà non avvenire… fa parte del-la natura stessa del cristiano… Non può la luce di un cristiano restare nascosta; non può restare nascosta una fiaccola così splendente» (Omelie sugli Atti degli Apostoli, 20, 4).

Consideriamo tutti questa nostra vocazione! Rispondiamo ad essa con generosa fedeltà! Nessuno rimanga indifferente o sordo alle parole incoraggianti e responsabilizzanti con cui lo Spirito di Dio ci fa giungere ancora oggi il suo appello: «Il Concilio esorta i cristiani, che sono cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo» (Gaudium et spes, 43).

 

Servire il Regno di Dio

negli “ambienti della vita sociale”

 

78.   La società tutta, nella sua concretezza e nelle sue più svariate espressioni e articolazioni, è la vigna nella quale il Signore chiama a lavorare ogni cristiano (cfr. Matteo 20, 1-7; 13, 38). Lo chiama a lavorare, con i doni e i compiti che gli sono propri.

Non c’è nessun ambiente di vita sociale nel quale al cristiano non sia chiesto di essere “sale” e “luce”. La verità del Vangelo chiede di essere testimoniata nei luoghi in cui uomini e donne vivono, soffrono, gioiscono e muoiono. Chiede di essere testimoniata in famiglia, come nel mondo della scuola e in quello del lavoro; nell’economia, come nella politica; nell’amministrazione della giustizia, come nell’uso dei beni naturali e ambientali; nel mondo dell’assistenza e dell’attenzione alle antiche e nuove povertà, come in quello della sanità; nel mondo della cultura, come in quello della comunicazione sociale; nello sport, come nel tempo libero, nel divertimento e in ogni altro “luogo” nel quale si svolge la vita delle persone.

In tutti questi luoghi e dentro tutte queste relazioni, la chiamata a essere “anima del mondo a servizio del Regno” si fa più concreta e impellente. Qui la missionarietà diventa più urgente, perché proprio qui, nei diversi ambienti di vita professionale e sociale, la scristianizzazione allarga maggiormente i suoi tentacoli e la società si sforza di organizzarsi pubblicamente senza far riferimento all’eredità cristiana e, spesso, smarrendo e rinnegando anche gli stessi valori umani.

È questo il contesto più immediato e quotidiano nel quale siamo chiamati a vivere e a comunicare la fede, nel quale, oggi più che mai, c’è un enorme bisogno di uomini nuovi, di cristiani veri, di persone dal cuore grande e generoso, le quali, con la sola forza del Vangelo, cercano di «convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri» (cfr. Evangelii nuntiandi, 18).

 

Per richiamare come è proprio in questi “ambienti di vita sociale” che la presenza e l’azione dei cristiani possono e devono esprimere tutta la loro carica missionaria, è opportuno pensare e programmare qualche specifico “momento pubblico” di incontro e di testimonianza, da realizzare in questi stessi “ambienti”.

In tale ottica, nell’anno pastorale 2005-2006, cercheremo di organizzare, a livello diocesano, qualche “evento straordinario”, da svolgere secondo le modalità di volta in volta più adatte, nei “luoghi-simbolo” di qualcuno degli ambiti richiamati: nel mondo dell’economia o della politica, dell’assistenza o della sanità, dello sport o della cultura o della comunicazione sociale. Saranno avvenimenti simbolici, con i quali “far emergere” dal vissuto e “mostrare” come anche oggi è possibile, per i cristiani, essere presenti nelle più diverse realtà secolari, portandovi i valori del Regno di Dio e testimoniando la propria fede.

 

In quanto avvenimenti simbolici, anche questi momenti sono finalizzati a far crescere in tutti e in ciascuno la coscienza di una fede intrinsecamente missionaria e che, come tale, deve spingere ogni credente in Cristo a vivere la propria identità di “anima del mondo”, a servizio del Regno di Dio.

Ciascuno interroghi se stesso. Si interroghi sulla qualità della sua fede. È una fede solo intimistica e ritualistica, relegata esclusivamente nel mondo della coscienza e dei riti? O è, come deve, una fede anche “esistenziale”? Una fede, cioè, coerente con gli appelli della coscienza morale e animata dalla grazia dei riti celebrati, ma insieme inserita a pieno titolo nella vita concreta per animarla e raggiungere, trasformandoli, gli ambienti nei quali si svolge l’esistenza propria e degli altri.

Si interroghino anche le nostre parrocchie e le diverse aggregazioni ecclesiali. Quella a cui cercano di educare, che fede è? Il loro è davvero un impegno finalizzato a far crescere uomini e donne che – in forza del loro Battesimo e aiutati da precisi itinerari di ascolto della Parola, di preghiera e celebrazione dei Sacramenti e di vita di carità – si impegnano nel mondo e nella storia, testimoniando e portando in essi lo spirito del Vangelo?

Si interroghino le diverse associazioni professionali e le aggregazioni laicali che hanno come proprio il fine dell’animazione cristiana delle “realtà temporali”, di tutte quelle attività nelle quali si articola e si esplica la vita delle persone e della società. Quali sono i tratti della loro azione e del loro impegno che oggi chiedono di essere continuati, o ripensati o maggiormente promossi e sviluppati, affinché la loro presenza e testimonianza siano più credibili e più incisive?

 

In questa prospettiva, affido un compito particolare ai Responsabili degli Uffici e Servizi di Curia e di altri Organismi diocesani la cui azione riguarda più direttamente i diversi ambienti della vita sociale sopra ricordati. Chiedo loro che, in questo triennio pastorale – anche mediante momenti di consultazione, di confronto e di incontro con quanti operano sul territorio della Dioce-si –, mettano in atto un ampio e serio lavoro di riflessione, di ripensamento e di proposta. A tale scopo: riprendano quanto scrive il nostro Sinodo 47° a proposito di ciascuno degli ambiti richiamati (cfr., soprattutto, la quarta parte [costt. 521-611], ma anche, ad esempio, le costt. 247-259 e 271-276); verifichino come queste stesse indicazioni vengono seguite in Diocesi; analizzino la situazione odierna per vedere quali opportunità, esigenze e sfide presenta; individuino i passi da fare; elaborino le proposte da sottoporre al discernimento del Vescovo per una loro consegna alla Diocesi.

A tutte e a ciascuna di queste realtà dico: proseguite nella vostra già consueta attività missionaria; rilanciatela ancora di più; riproponetela con rinnovata freschezza e, se necessario, in termini nuovi, affinché risulti più dinamica, coordinata e incisiva!

 

Far crescere la “qualità umana” nella vita della società

 

79.   Parlando di “ambienti di vita sociale” non parliamo semplicemente di “luoghi” nei quali ci si trova a operare. Più propriamente, parliamo di “spazi umani” che ci danno la possibilità concreta di vivere come “persone”, come un “io” aperto al “tu”, nella relazione con gli altri. Poiché questa “relazionalità” è un dato essenziale e strutturale della persona stessa – che si definisce come un essere “con” gli altri e “per” gli altri –, gli ambienti di vita sociale costituiscono degli “spazi vitali” nei quali la persona può esprimere e realizzare se stessa. In questo senso, si qualificano come “luoghi antropologici”, come spazi-tempi-esperienze nei quali si costruisce e si esprime l’autentica “umanità” dell’uomo e della donna.

Di conseguenza, vivere e agire in questi ambienti a servizio del Regno di Dio significa operare perché essi siano “luoghi” veramente umani e umanizzanti. Si tratta, allora, di assicurare la “qualità umana” in tutti i rapporti e in tutti i luoghi concreti dell’esistenza degli uomini.

È questo un compito che interpella i singoli cristiani. Li interpella perché là dove gli uomini e le donne nascono e crescono, lavorano e si divertono, si amano e si combattono, soffrono e muoiono ci sono sempre delle persone concrete, con la loro storia, le loro gioie e le loro fatiche. E là, negli stessi ambienti concreti della vita quotidiana, anche ogni cristiano è presente e agisce come persona, nella sua unicità e irripetibilità. Ciascuno, allora, può e deve dare spazio alla sua umanità e, così facendo, può e deve guardare all’altro, che incontra e con il quale opera, riconoscendone, rispettandone e valorizzandone la nativa dignità umana. Più e prima che mediante rapporti funzionali, ciascuno può e deve relazionarsi all’altro con rapporti umani e profondamente interpersonali. Anzi, può e deve far sì che gli stessi rapporti funzionali, vissuti correttamente secondo quanto è richiesto da ciò a cui lo specifico ambiente di vita sociale è finalizzato, favoriscano la nascita e lo sviluppo di autentici rapporti umani. Può e deve far sì che le “leggi” che governano quanto è da vivere e da realizzare in ogni specifico ambiente di vita sociale siano, di fatto e sempre più compiutamente, a servizio di ogni persona, nel rispetto e nella promozione della sua inviolabile dignità umana.

Assicurare la “qualità umana” in ogni ambiente di vita sociale è anche il compito dei cristiani che vivono e operano insieme, in uno stesso ambiente. In questi casi, sono gli stessi cristiani a sentirsi interpellati, nei riguardi di tutti coloro che, credenti o non credenti, vivono e operano nel medesimo ambiente, per una testimonianza che rivesta una forma comunitaria – visibilmente comune e condivisa –, che può esprimersi anche in modi più o meno organizzati a livello associativo o di gruppo. È in questo contesto che possono nascere gruppi o momenti di incontro tra le persone, finalizzati a sviluppare, di comune accordo, confronti, riflessioni, gesti e iniziative per favorire e promuovere un approccio umano e umanizzante alle diverse e talora complesse problematiche che si presentano nel proprio ambiente di vita.

 

Questa stessa testimonianza – sia essa individuale o comunitaria – è la strada maestra per vivere quella missionarietà che contraddistingue ogni credente in Cristo. È una missionarietà che passa attraverso la ricerca e la promozione – nella semplicità e nella concretezza della vita di ogni giorno – di rapporti umani ricchi e arricchenti. All’interno di questi rapporti, poi, possono nascere significative esperienze di dialogo, di conoscenza e, perfino, di amicizia sincera e profonda. Queste stesse amicizie – a loro volta, se Dio lo vorrà e comunque sempre nel rispetto della libertà di ciascuno – possono anche sfociare, come talora avviene, in occasioni di riscoperta della fede o di accostamento alla fede stessa. Può capitare così che la promozione della “qualità umana” in un ambiente di vita sociale conduca, passo dopo passo e secondo tempi diversificati di maturazione, a cammini di fede vissuti nel tessuto della comunità ecclesiale e che, in taluni casi, si possono esprimere, anche con momenti di riflessione e di preghiera all’interno degli ambienti stessi.

Perché non vedere qui una delle meravigliose espressioni di quanto lo Spirito Santo sa operare nella storia e nel mondo? Grazie a te, Spirito di Dio, sorgente inesauribile di grazia e costruttore infaticabile di un mondo nuovo, segno e primizia di quei cieli nuovi e di quella terra nuova (cfr. Apocalisse 21, 1) che attendiamo con speranza! Grazie a te, perché a questa tua opera continui ad associare uomini e donne che, proprio nella vita e nelle attività di ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, ma guardati con amore dal Padre e docili all’insegnamento di Gesù, sanno essere gli artefici, umili e grandi, della crescita del Regno di Dio nella storia e nella società.

 

Servire l’uomo agendo per il bene comune

 

80.   Riconoscere e vivere la centralità della persona è il modo fondamentale, dal quale tutti gli altri prendono origine e forza, di vivere “da cristiani” nella società, a servizio del Regno di Dio.

Lo è perché, così facendo, i cristiani partecipano della missione della Chiesa, la quale – in forza del Vangelo creduto, annunciato, celebrato e servito – si fa “serva degli uomini”, camminando e vivendo con loro, solidale con tutta la loro storia, le loro gioie e speranze, tristezze e angosce (cfr. Gaudium et spes, 1). Li serve “svelando l’uomo all’uomo”, facendogli noto il senso della sua esistenza e aprendolo alla verità intera su di sé e sul suo destino (cfr. Gaudium et spes, 22). Li serve perché – come leggiamo in un testo particolarmente illuminante del Concilio Vaticano II – essa, «perseguendo il suo proprio fine di salvezza, non solo comunica all’uomo la vita divina, ma anche diffonde la sua luce con ripercussione, in qualche modo, su tutto il mondo, soprattutto per il fatto che risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine dell’umana società, e immette nel lavoro quotidiano degli uomini un più profondo senso e significato». In tal modo – continua il testo del Concilio – «la Chiesa, con i singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (Gaudium et spes, 40).

Essere “sale” e “luce” nella società e per la società significa, dunque, promuovere la dignità della persona. Lo afferma in modo inequivocabile Giovanni Paolo II: «Riscoprire e far riscoprire la dignità inviolabile di ogni persona umana costituisce un compito essenziale, anzi, in un certo senso, il compito centrale e unificante del servizio che la Chiesa e, in essa, i fedeli laici sono chiamati a rendere alla famiglia degli uomini» (Christifideles laici, 37).

 

La fedeltà a questo compito ci chiede di riaffermare, di fronte a tutti e in ogni contesto, che il “primato della persona” va salvaguardato e promosso in ogni caso e in ogni situazione: in economia come in politica; nella lotta per la giustizia e la pace come nell’affrontare le gravi problematiche della globalizzazione; nella ricerca scientifica come nelle applicazioni tecnologiche; di fronte alle preoccupanti prospettive di un dissesto ecologico che intacca varie parti del nostro pianeta, come nelle grandi sfide che oggi interessano la vita dell’uomo e spesso fanno venir meno il rispetto che le è dovuto dal concepimento fino alla morte naturale; nell’ambito della comunicazione sociale, come nella letteratura e nell’arte; nel mondo della moda e negli spettacoli, come nel divertimento, nello sport e così via.

È, quello di ogni persona umana, un primato che affonda le sue radici nel fatto che essa, creata a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Genesi 1, 26-27), è l’unica creatura terrena dotata di intelligenza e di volontà libera e, proprio per questo, si presenta come “il centro e il vertice” di tutto ciò che esiste sulla terra (cfr. Gaudium et spes, 12).

Questo stesso primato costituisce la fonte da cui – secondo una visione cristiana e, prima ancora, profondamente umana e umanizzante – scaturiscono tutti gli altri principi che regolano l’intera convivenza umana. Come tale, rappresenta il principio architettonico, il cuore e l’anima di tutto quel ricco e articolato insegnamento sociale con cui il Magistero della Chiesa, soprattutto nel secolo scorso, ha letto la realtà sociale alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana e ha offerto, in modo sempre più puntuale e organico, il proprio contributo alla soluzione della questione sociale.

Ne deriva che, per poter essere effettivamente “sale” e “luce” nella società, i cristiani devono conoscere e condividere la Dottrina Sociale della Chiesa. È quanto va previsto nel cammino educativo di ogni parrocchia e di ogni realtà o aggregazione ecclesiale, innestando organicamente questo studio e approfondimento nella catechesi ordinaria, in particolare dei giovani e degli adulti (cfr. Sinodo 47°, cost. 563, 1).

Conoscere e condividere la Dottrina Sociale della Chiesa, così da diffonderla e applicarla nella concretezza dell’esistenza e delle attuali problematiche sociali, è un modo – non secondario né facoltativo, ma essenziale e necessario – per rispondere al mandato missionario ricevuto dal Signore e per assumere il compito inderogabile della “nuova evangelizzazione”. Lo è perché «per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano», in quanto «tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore» (Centesimus annus, 5). Lo è perchè «la dottrina sociale ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione: in quanto tale annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo a ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso. In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di ciascuno e, in particolare, del “proletariato”, della famiglia e dell’educazione, dei doveri dello Stato, dell’ordinamento della società na-zionale e internazionale, della vita economica, della cultura, della guerra e della pace, del rispetto della vita dal momento del concepimento fino alla morte» (Centesimus annus, 54).

81.   La fedeltà al compito di promuovere la dignità della persona umana esige anche di adoperarsi, con amore sincero e appassionato, per rendere ogni persona veramente e pienamente libera, cioè responsabile e pronta a lavorare per il bene di tutti, per il bene comune. Di questa responsabilità, noi cristiani per primi dobbiamo essere testimoni fieri, convinti e tenaci.

Lo richiede il nostro amore all’uomo e, prima ancora, la nostra fedeltà al Signore Gesù e al suo Vangelo. Sono proprio la contemplazione e la sequela di Cristo a far crescere dentro di noi la coscienza della dignità di ogni uomo, plasmato da Dio a immagine e somiglianza del suo Figlio Gesù. Sono esse a far sprigionare in noi il desiderio, anzi il bisogno insopprimibile, di rivivere e, in qualche modo, di ripresentare nella trama dei rapporti personali quell’amore senza misura che lo stesso Signore ha vissuto per ogni uomo e donna, in particolare per i più deboli, poveri, bisognosi ed emarginati.

Lo richiede il momento storico che stiamo vivendo. Il nostro non è – non può essere! – il tempo del disimpegno, del disinteresse, della fuga o anche solo della sterile lamentela. Non lo permettono le concrete e spesso gravi problematiche sociali che oggi attraversano le nostre città e il nostro Paese, quali, ad esempio, la disoccupazione, il benessere egoistico, la disgregazione familiare, il disagio giovanile, l’immigrazione, l’emarginazione degli anziani. Non lo consentono neppure il cammino europeo, che si trova a una svolta particolarmente significativa, il sempre più diffuso e spesso selvaggio processo di globalizzazione e le drammatiche questioni che si affacciano sullo scenario mondiale e minano la pacifica convivenza nelle Nazioni e tra i popoli.

È il tempo di una nuova responsabilità, senza aspettare che siano solo gli altri, o le istituzioni, a intervenire! Riascoltiamo, a questo proposito, quanto i Vescovi italiani scrivevano più di vent’anni fa: «C’è innanzitutto da assicurare presenza. L’assenteismo, il rifugio nel privato, la delega in bianco non sono leciti a nessuno, ma per i cristiani sono peccato di omissione». Sono parole chiare, che suonano come salutare “pro-vocazione” per la responsabilità di tutti e di ciascuno.

A queste, i Vescovi aggiungevano altre parole, ancora oggi pienamente attuali e che ci indicano la strada concreta da seguire per assicurare la necessaria presenza: «Si parte dalle realtà locali, dal territorio. E si è partecipi delle sorti della vita e dei problemi del comune, delle circoscrizioni e del quartiere: la scuola, i servizi sanitari, l’assistenza, l’amministrazione civica, la cultura locale. Ci si apre poi alla struttura regionale, alla quale oggi sono riconosciute molte competenze di legislazione e di programmazione. Così la presenza si estenderà anche ai livelli nazionale, europeo e mondiale, e potrà avere efficacia» (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 33).

 

Nell’assumere queste responsabilità ci deve guidare una duplice convinzione. La prima è che il Vangelo, nella logica della parabola dei talenti da non sotterrare ma da trafficare (cfr. Matteo 25, 14-30), lungi dal frenare e dal mortificare l’iniziativa e lo “spirito di intrapresa” nei diversi campi del vivere sociale e politico, li libera e li stimola, affinché si pongano al servizio di ogni uomo e di tutti gli uomini. La seconda è che il vivere un impegno serio, competente e coerente con la Dottrina Sociale della Chiesa in ogni ambito della vita sociale, compreso quello della partecipazione politica, fa parte a pieno titolo della missione di testimoniare e annunciare il Vangelo, promuovendo nel mondo i valori del Regno di Dio.

 

Per aiutare a far sì che tutto questo sia vissuto nel segno di un rinnovato slancio missionario, chiedo che, preferibilmente nell’anno pastorale 2005-2006, in ogni parrocchia, associazione e gruppo ecclesiale, si propongano momenti di catechesi, di riflessione, di studio e di confronto per risvegliare nei cristiani la coscienza del loro essere “cittadini del mondo”, impegnati a costruirlo secondo il disegno di Dio.

Pertanto, alla Segreteria per la Formazione all’Impegno Sociale e Politico – in collaborazione con altri Uffici o Servizi di Curia, in particolare con il Servizio per la Catechesi – chiedo di predisporre sussidi e materiali, da utilizzare in quell’anno pastorale nelle diverse articolazioni della Diocesi, per una più approfondita conoscenza della Dottrina Sociale della Chiesa e per una educazione finalizzata a far crescere una più corale passione per il bene comune.

La stessa Segreteria studi anche i modi più opportuni per riproporre itinerari di formazione all’impegno sociale e politico ordinati a far nascere “vocazioni” specifiche a tale proposito.

 

Evangelizzare la “cultura dominante”

 

82.   Nel vivere la passione missionaria in ogni ambito di vita sociale c’è, ancora, una “sfida” – una opportunità e una provocazione – che ci interroga profondamente. È la sfida dell’evangelizzazione delle culture! Il nostro essere dentro la società a servizio del Regno di Dio ci porta inevitabilmente a “confrontarci” – talvolta, addirittura, a “scontrarci” – con la “cultura dominante”. Inevitabilmente, perché la cultura stessa è l’imprescindibile habitat nel quale vive ogni persona, da cui è caratterizzato ogni ambiente di vita sociale e che, nello stesso tempo, ogni persona e ogni ambiente di vita sociale concorrono a determinare.

È proprio nella “cultura” dominante che noi siamo chiamati a far risuonare, come davvero propizi e decisivi per tutti, i valori e le esigenze del Regno di Dio. Il comando di Gesù «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Marco 16, 15) non comporta soltanto di annunciare, celebrare e servire il Vangelo in fasce geograficamente più vaste e a popolazioni sempre più numerose. Comporta «anche – come scrive Paolo VI – di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola Dio e col disegno della salvezza» (Evangelii nuntiandi, 19). Comporta di raggiungere la cultura e di trasformarla con la potenza, debole e disarmata, del Vangelo. È quanto leggiamo ancora nella stessa Esortazione apostolica: «Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo» (Evangelii nuntiandi, 20).

 

È un’impresa grande e affascinante!

Ci chiede di non sottovalutare la posta in gioco. È la possibilità per l’uomo di realizzarsi in pienezza come uomo e di raggiungere la felicità per cui è stato creato. È la possibilità, per la società stessa, di essere, come deve, a servizio di ogni persona e della sua vita secondo verità.

Ci chiede di mettere in atto scelte precise e concrete. Il Papa così le descrive, con particolare riferimento ai fedeli laici: «essere presenti, all’insegna del coraggio e della creatività intellettuale, nei posti privilegiati della cultura, quali sono il mondo della scuola e dell’università, gli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, i luoghi della creazione artistica e della riflessione umanistica». E aggiunge, indicando le modalità e gli scopi di questa presenza: «Tale presenza è destinata non so-lo al riconoscimento e all’eventuale purificazione degli elementi della cultura esistente criticamente vagliati, ma anche alla loro elevazione mediante le originali ricchezze del Vangelo e della fede cristiana» (Christifi-deles laici, 44).

Ci chiede una fede matura e testimoniante, autenticamente missionaria. Una fede illuminata dalla Parola di Dio e sostenuta da forti itinerari formativi, celebrata nella liturgia e alimentata con la preghiera, espressa e testimoniata nella carità. Una fede in grado di mostrare la sua ragionevolezza e bellezza agli uomini del nostro tempo. Una fede così viva e vitale, così forte e gioiosa da resistere a ogni attacco, anzi da saper discernere, purificare e valorizzare ogni cultura. Una fede così incarnata e propositiva da trasformare la nostra cultura, aiutandola a liberarsi e a costruirsi come “cultura secondo il Vangelo” e, proprio per questo, secondo le attese più radicali e il destino più autentico di ogni uomo e donna.

 

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