Mi sarete testimoni - Capitolo
settimo
Capitolo settimo
E come
potranno credere…
senza
uno che lo annunzi?
Gli “operai del Vangelo”
in una Chiesa tutta missionaria
83.
L’evangelizzazione e la trasmissione della fede sono di una gravità unica, dal
momento che riguardano la “salvezza” e, dunque, la riuscita o il fallimento
della vita stessa. Riguardano la salvezza, nel senso che questa “deriva” dalla
fede. Ce lo ricorda con estrema chiarezza san Paolo: «Se confesserai con la tua
bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha
risuscitato dai morti, sarai salvo… Chiunque invocherà il nome del Signore sarà
salvato» (Romani 10, 9.13).
Non c’è salvezza senza
fede! È
parola di Gesù: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà
sarà condannato» (Marco 16, 16).
Ma la fede esige
l’evangelizzazione. È ancora Paolo a ricordarcelo con una logica rigorosa e
inequivocabile, con una serie di domande che scandiscono i diversi passaggi
obbligati di questa che è l’avventura decisiva per l’uomo: «Ora, come potranno
invocarlo, senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza
averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, senza uno che lo
annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?» (Romani
10, 14-15).
Non c’è fede senza
evangelizzazione! E ancora: non c’è evangelizzazione senza missione, senza essere
inviati. L’evangelizzazione nasce da un mandato. Come scrive il Catechismo
della Chiesa Cattolica: «Nessuno, né individuo né comunità, può annunziare
a se stesso il Van-gelo… Nessuno può darsi da sé il mandato e la missione di
annunziare il Vangelo. L’inviato del Signore parla e agisce non per autorità
propria, ma in forza dell’autorità di Cristo…» (n. 875).
Ci soffermiamo ora a considerare i
soggetti attivi e responsabili dell’evangelizzazione:
gli evangelizzatori, gli “operai del Vangelo”, coloro che proprio per
l’annuncio della “Buona Notizia” sono stati mandati.
Ci preme, da subito, rilevare un
aspetto essenziale che segna in profondità la missione di evangelizzare e
trasmettere la fede: essa è una “grazia”, qualcosa dunque di bello, di grande,
di gioioso. È ancora Paolo a esclamare: «Quanto son belli i piedi di coloro
che recano un lieto annuncio di bene!» (Romani 10, 15). All’estrema
serietà di un’evangelizzazione e trasmissione della fede, che pongono la
fondamentale e decisiva questione della salvezza, fanno sorprendente riscontro
l’immensa grazia e la straordinaria fortuna di essere inviati come messaggeri
di «un lieto annunzio di bene».
Nella Chiesa tutti e ciascuno sono inviati
84. Ma chi è inviato? È la Chiesa
intera, in tutti e in ciascuno dei suoi membri. Vogliamo sostare su questa
verità, di fronte al facile rischio di darla per ovvia e scontata e, quindi, di
non coglierla nella particolare ricchezza del suo contenuto.
«E come potranno credere… senza
uno che lo annunzi?… senza essere prima inviati?». Queste parole riguardano la Chiesa
intera: è lei, Sposa di Cristo e Madre dei cristiani, la comunità
evangelizzante, la comunità mandata dal Signore. Essa è sempre presente e
operante quando viene annunciato il Vangelo. È la Chiesa una, santa, cattolica
e apostolica. È la realtà spirituale e visibile, che si ritrova nella Chiesa
particolare e nelle comunità parrocchiali e, analogamente, nelle diverse realtà
e aggregazioni ecclesiali.
Sì, la realtà della Chiesa intera
è qualcosa di estremamente concreto e vivo, che ci tocca comunitariamente e
personalmente. In questo senso, le parole di Paolo riguardano tutti e
ciascuno nella Chiesa. Siamo così invitati a cogliere immediatamente, tra
gli altri, due aspetti di singolare importanza per la nostra vita e missione
nella Chiesa.
Fondamentale è, innanzitutto, la “coscienza
di Chiesa” di cui devono essere nutriti tutti i cristiani nell’annunciare
il Vangelo. Essi non possono agire che in conformità con la loro identità
profonda di “membri della Chiesa”, come coloro cioè che sono inseriti
vitalmente nel mistero stesso della Chiesa e che partecipano, a loro modo e
misura, alla grazia e alla responsabilità che Gesù Cristo dona alla Chiesa, costituendola
“comunità di evangelizzazione e di trasmissione della fede”. E ciò vale di ogni
singolo membro della Chiesa, come scrive il beato Isacco della Stella:
«Anche la singola anima fedele può essere considerata come sposa del Verbo di
Dio, madre figlia e sorella di Cristo, vergine e feconda» (Discorso 51).
È da sottolineare, inoltre, il
fatto che la chiamata e il compito di evangelizzare e trasmettere
la fede sono, nella Chiesa, universali ma insieme individuali.
Toccano “tutti”, senza esclusione di nessuno. Nello stesso tempo, toccano
“ciascuno” nella propria unicità e irripetibilità. Ciò significa che, nella
Chiesa, nessuno ha una posizione solo recettiva, perché tutti danno e ricevono,
ricevono e danno. Ciò significa, poi, che ciascuno è necessario e, in un certo
senso, insostituibile.
Ogni singolo cristiano
deve essere sempre cosciente che il suo compito non può essere delegato ad
altri, ma
deve essere assunto e vissuto come assolutamente indispensabile per il bene di
tutti. Ciascuno di noi – bambino o anziano, sano o malato, dotto o incolto,
stimato o emarginato, eccetera – è chiamato per nome, con il proprio
inconfondibile nome, nella singolarità della sua persona e della sua storia
individuale, a portare il proprio contributo per l’avvento del Regno di Dio. È
questa la volontà del Signore, la sua grazia!
Per ciascuno di noi sta
l’entusiasmante verità che Paolo ci ricorda: «E a ciascuno è data una
manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune…»; è «l’unico e
il medesimo Spirito che opera [queste manifestazioni], distribuendole a
ciascuno come vuole» (1 Corinzi 12, 7.11). A sua volta, san Pietro
inchioda la responsabilità di ognuno di noi con il monito: «Ciascuno viva
secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni
amministratori di una multiforme grazia di Dio» (1 Pietro 4, 10).
È sempre e solo la libertà del
singolo individuo a essere interpellata, senza possibilità di deleghe o alibi:
quanto vale nel rapporto di ciascuna persona con Dio vale anche nel rapporto di
ciascun cristiano con la Chiesa.
Ciò pone in luce l’assoluta
necessità e insostituibilità dell’impegno personale di ogni cristiano
nell’evangelizzare e trasmettere la fede (cfr. Apostolicam actuositatem,
16). Certamente la Chiesa conosce anche l’impegno della comunità come tale,
nelle sue diverse articolazioni. Nasce così, pure necessario e insostituibile,
l’apostolato associato. Ma non c’è dubbio che quello personale possiede alcune
ricchezze e potenzialità proprie e peculiari di grande significato per il
dinamismo missionario della Chiesa. Come ci ricorda il Papa nell’Esortazione Christifideles
laici, «Con tale forma di apostolato, l’irradiazione del Vangelo può farsi
quanto mai capillare, giungendo a tanti luoghi e ambienti quanti sono
quelli legati alla vita quotidiana e concreta dei laici. Si tratta, inoltre, di
un’irradiazione costante, essendo legata alla continua coerenza della
vita personale con la fede; come pure di un’irradiazione particolarmente incisiva,
perché, nella piena condivisione delle condizioni di vita, del lavoro, delle
difficoltà e speranze dei fratelli, i fedeli laici possono giungere al cuore
dei loro vicini o amici o colleghi, aprendolo all’orizzonte totale, al senso
pieno dell’esistenza: la comunione con Dio e tra gli uomini» (n. 28).
Il modo “proprio e peculiare” dei
laici,
dei consacrati e delle famiglie di
essere
Chiesa immersa nel mondo a
servizio del Regno
85. Riproponiamo la domanda iniziale:
qual è questa Chiesa mandata dal Signore risorto a portare a tutti il suo
Vangelo che libera e salva? È la Chiesa immersa nel mondo a servizio del
Regno.
Nella preghiera dell’ultima cena,
Gesù stesso dipinge il volto della sua Chiesa – vedendolo riflesso nei suoi
discepoli –, tratteggiandone due lineamenti fondamentali: la presenza nel mondo
e la non appartenenza ad esso. Così egli prega: «Io non sono più nel mondo;
essi [i discepoli] invece sono nel mondo… Il mondo li ha odiati perché
essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Giovanni
17, 11.14). E, ancora, prega il Padre di far sì che i suoi discepoli siano là
dove è lui, nella contemplazione della sua gloria (cfr. Giovanni 17,
24).
Emergono così, nell’unica e
indivisibile Chiesa, due “dimensioni”: quella dell’essere “nel” mondo, o secolarità,
e quella del non essere “del” mondo, o dimensione escatologica. Sono
dimensioni che segnano in profondità la realtà della Chiesa come tale e che, di
conseguenza, si ritrovano in tutti e in ciascuno dei suoi membri,
caratterizzando il loro essere e agire e, pertanto, la loro missione
di evangelizzare e trasmettere la fede.
Tutti nella Chiesa sono
coinvolti nella duplice dimensione secolare ed escatologica: i sacerdoti, le persone
consacrate, i fedeli laici; tutti abilitati e impegnati a operare nella
missione evangelizzatrice della Chiesa. Ma come? In quali forme? Con
quali posti e compiti? È proprio l’attenta considerazione delle dimensioni
della Chiesa ad aiutarci a cogliere, secondo il disegno stesso di Gesù,
l’ordine, il posto e il significato dei molteplici e diversi “operai del
Vangelo”.
86. La Chiesa «ha – come diceva Paolo
VI – un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e
missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo Incarnato, e che è
realizzata in forme diverse per i suoi membri» (Discorso ai membri degli
Istituti Secolari, 2 febbraio 1972).
La forma “propria e peculiare” di
partecipazione alla dimensione secolare della Chiesa è quella dei fedeli
laici che, in tal modo, sono distinti, anche se non separati, dagli altri
membri della Chiesa. È questo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che con
formula sintetica afferma: «L’indole secolare è propria e peculiare dei
laici» (Lumen gentium, 31). E così spiega: la condizione secolare,
che caratterizza l’essere “cristiani” proprio dei laici (christifideles
laici), significa che “il vivere nel mondo” corrisponde a una precisa
“vocazione” di Dio e che “l’agire nel mondo” è ordinato a una specifica
“missione”, quella di «cercare il Regno trattando le cose temporali e
ordinandole secondo Dio» (Lumen gentium, 31).
L’essere e l’agire nel
mondo non
sono, per i fedeli laici, una realtà solo antropologica e sociologica. Sono,
anche e specificamente, una realtà teologica ed ecclesiale. È in
questione non semplicemente un dato esteriore e ambientale, ma il disegno
stesso di Dio, che chiama i laici e li manda nel mondo a servire il Regno.
Scrive il Concilio: «Essi vivono nel secolo, cioè in mezzo agli impegni e alle
occupazioni del mondo e dentro le condizioni ordinarie della vita familiare e
sociale di cui è intessuta la loro esistenza. Lì sono chiamati da Dio a
contribuire, come dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del
mondo, mediante l’esercizio della loro specifica funzione e guidati dallo
spirito evangelico» (Lumen gentium, 31).
Se tutti i membri della Chiesa
rivelano e vivono la sua dimensione secolare, i fedeli laici lo fanno in un
modo proprio e peculiare, con il loro essere e vivere nel
mondo secondo quel senso cristiano, nuovo e originale, sopra ricordato. Di
conseguenza, la prima forma di missionarietà alla quale i fedeli laici
sono chiamati è data dalla loro stessa vita, da una vita nel mondo che ha la
forma della testimonianza umana ed evangelica. È con il loro vivere quotidiano
che essi “dicono” e “fanno vedere” che la Chiesa è sì immersa nel mondo, ma
sempre e solo a servizio del Regno. «In tal modo rendono il Cristo visibile
agli altri, soprattutto con la testimonianza di una vita che splende di fede,
di speranza e di carità» (Lumen gentium, 31).
Non sottolineeremo mai abbastanza
la singolare preziosità della testimonianza di vita dei fedeli laici e, quindi,
il suo unico e straordinario potenziale di missionarietà. E questo non tanto
per la ragione generica di una credibilità, che solo la coerenza di vita
può assicurare, quanto per la ragione specifica di una condizione di vita nel
mondo segnata e impregnata dalla novità cristiana dell’essere a servizio
del Regno.
Il laico cristiano è, dunque, “segno
di contraddizione” di fronte a tutti. Lo è perché è “nel” mondo, ma non è
“del” mondo! Il vivere in coerenza con la propria identità cristiana è, di per
se stesso, un contestare l’essere “del” mondo” e, dunque, un denunciare
e rifiutare quella assolutizzazione delle realtà temporali, che nega il primato
di Dio. In positivo, la vita coerente del laico cristiano è l’annuncio
più efficace della verità che il servizio al Regno di Dio dentro e attraverso
le attività terrene è la garanzia più solida e la forza più stimolante per il
processo di un’autentica “umanizzazione” del mondo.
87. La Chiesa, pur essendo “nel”
mondo, non è “del” mondo, perché è segnata dalla dimensione escatologica.
È, nella storia, profezia vivente del Regno di Dio. Di questo Regno
«costituisce sulla terra il germe e l’inizio. Intanto mentre va lentamente
crescendo, anela al Regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di
riunirsi al suo Re nella gloria» (Lumen gentium, 5).
Ora, tutti i cristiani, proprio
perché membri della Chiesa, sono partecipi della sua dimensione escatologica.
In realtà, «il popolo di Dio non ha quaggiù la sua città permanente, ma è alla
ricerca di quella futura» (Lumen gentium, 44). Ma questa dimensione
escatologica viene realizzata in forme diverse.
La forma “propria e peculiare” di
attuazione è quella delle persone consacrate, nelle molteplici modalità
della loro consacrazione al Signore. In questo senso, il Concilio scrive: «Lo
stato religioso, liberando i suoi seguaci dalle cure terrene, rende ai credenti
ancora più visibili i beni celesti già presenti in questo mondo; testimonia meglio
la vita nuova ed eterna che Cristo ci ha acquistato con la redenzione, e
preannuncia la futura risurrezione e la gloria del Regno dei cieli… Manifesta
infine con particolare evidenza la superiorità del Regno di Dio rispetto a ogni
altra realtà terrena, e le esigenze supreme che esso avanza» (Lumen gentium,
44).
Le persone consacrate sono,
dunque, un’epifania della Chiesa nella sua tensione verso il Regno di Dio.
Lo sono in una modalità distinta, anche se non separata, da quella degli altri
membri della Chiesa: una modalità “propria e peculiare”, che consiste
nella loro vita di consacrazione al Signore, caratterizzata dai voti di
povertà-castità-obbedienza. Con questi voti, le persone consacrate prefigurano
e, in qualche modo, anticipano e pregustano la vita propria del Regno di Dio.
È con questo loro tipico essere
e vivere che le persone consacrate attuano la prima forma di
missionarietà. Esse “dicono” e “fanno vedere” che la Chiesa è assetata
dell’Assoluto di Dio, è chiamata alla santità nel radicalismo delle
beatitudini, è povera-casta-obbediente perché ha in Cristo il sommo e unico
bene, la pienezza sovrabbondante dell’amore, la perfezione ultima della
libertà.
Anche le persone consacrate, con
il loro modo “proprio e peculiare” di essere e di agire, sono un “segno di
contraddizione” vivente per la Chiesa e per il mondo. Specialmente nelle
attuali situazioni sociali e culturali, la loro povertà-castità-obbedienza non
può diventare una formidabile sfida al materialismo consumista, all’edonismo
istintivo e aggressivo, alle degenerazioni schiavizzanti della libertà umana?
88. Si dà un’altra modalità ancora –
anche questa distinta e non separata, “propria e peculiare” – di essere “nel”
mondo e non “del” mondo: è quella della famiglia cristiana. Se in tutti
i membri della Chiesa le due dimensioni, secolare ed escatologica, della Chiesa
stessa sono tra loro profondamente connesse, è proprio il loro intreccio,
la loro compenetrazione e unione a presentarsi qui con un volto
veramente originale. E questo grazie a quel sacramento del Matrimonio che fonda
e vivifica la famiglia cristiana.
Il Matrimonio presenta una
sua propria e inconfondibile dimensione secolare, perché si radica e cresce in
una precisa realtà creaturale e umana. Esso è «l’intima comunità di vita
e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie» che
nasce dal patto coniugale, ossia «dall’atto umano col quale i coniugi
mutuamente si danno e si ricevono» (Gaudium et spes, 48). Il Matrimonio,
poi, si sviluppa mediante un amore, caratterizzato dall’unicità, dalla fedeltà
e dalla oblatività, ordinato com’è alla comunione dei coniugi e al loro donarsi
ai figli nella generazione e nella educazione, e tutto ciò nel contesto della
società.
Ma questa realtà secolare,
creaturale e umana del Matrimonio sperimenta un intreccio, una compenetrazione
e una unione veramente originali e uniche con la dimensione escatologica della
Chiesa. È quanto avviene in forza del sacramento del Matrimonio. Questo,
infatti, non è qualcosa di estraneo e di diverso dalla realtà creaturale e
umana degli sposi. È questa stessa realtà che viene assunta, confermata,
purificata, elevata e trasformata a essere “sacramento”, segno e strumento del
Regno di Dio, dell’amore salvifico del Padre per gli uomini e di Cristo per la
Chiesa. In tal modo, il Matrimonio sacramento costituisce e struttura
intimamente la realtà creaturale e umana degli sposi come
realtà essenzialmente relativa al Regno di Dio,
a Gesù Cristo stesso.
Fondata sul Sacramento, la
famiglia cristiana viene edificata e plasmata come “Chiesa domestica” (cfr. Lumen
gentium, 11), immagine viva e ripresentazione reale della Chiesa stessa.
Per questo, viene configurata – nei riguardi dei propri membri, della Chiesa e
della società intera – come “comunità salvata e salvante”: comunità attivamente
partecipe, in maniera propria e peculiare, della missione evangelizzatrice di
tutta la Chiesa.
Anche per la famiglia cristiana,
si deve affermare che sono il suo stesso essere famiglia e il suo stesso
vivere le realtà e attività proprie della famiglia a costituire la sua prima
forma di missionarietà nella Chiesa e nel mondo.
È con la vita coniugale e
familiare stessa – in tutti i suoi aspetti quotidiani, piccoli o grandi,
ordinari o straordinari, faticosi o belli –, una vita coerente con la sua
realtà creaturale e umana e inscindibilmente connessa con il Regno di Dio, che
i coniugi, i genitori e i figli annunciano il Vangelo e trasmettono la fede.
Nella concretezza della sua esistenza d’ogni giorno, la famiglia cristiana
“dice” e “fa vedere” che la Chiesa è alleanza d’amore tra Dio e l’umanità, tra
il Signore Gesù e gli uomini da lui redenti in croce. È un’alleanza che assume
tutto l’humanum, che prende la “carne” stessa dell’uomo e della donna
nella molteplicità delle loro relazioni, per renderli segno efficace della
salvezza. Coniugi, genitori e figli cristiani “dicono” e “fanno vedere”, con la
testimonianza della vita coniugale e familiare, che il Regno di Dio è già
presente e continuamente all’opera come sorgente di grazia.
A conforto e stimolo dell’impegno
missionario della famiglia, possiamo qui riascoltare un interessante e ricco
passo del Vaticano II. È nel contesto del “profetismo” dei fedeli laici che il
Concilio fa emergere il posto e il compito tipici della famiglia cristiana:
«Come i sacramenti della Nuova Legge… annunciano i cieli nuovi e la terra nuova
(cfr. Ap 21, 1), così i laici diventeranno annunciatori efficaci dei
beni futuri sperati (cfr. Eb 11, 1), se a una vita vissuta nella fede
sapranno unire senza paura anche la parola che proclama la fede». È evidente
che il riferimento conciliare ai Sacramenti si specifica, per gli sposi, in
rapporto al loro “grande sacramento” (cfr. Efesini 5, 32), il
Matrimonio. Il Concilio, infatti, così prosegue: «In questo compito appare di
grande valore quello stato di vita che è santificato da uno speciale
sacramento, cioè la vita matrimoniale e familiare». E precisa: «Lì si fa
esercizio e scuola eccellente di apostolato dei laici, e la fede cristiana
viene fatta penetrare nella pratica della vita, per trasformarla ogni giorno
più. Lì i coniugi realizzano la loro specifica vocazione a essere, l’uno per
l’altro e per i figli, testimoni della fede e dell’amore di Cristo». E
conclude: «La famiglia cristiana proclama a voce alta sia le virtù presenti del
Regno di Dio, sia la speranza della vita beata. Con l’esempio e la
testimonianza essa accusa di peccato il mondo e illumina coloro che sono in
ricerca della verità» (Lumen gentium, 35).
Queste ultime parole ci presentano
la famiglia cristiana come “segno di contraddizione” nel mondo. Nella
misura in cui vive il dono del Sacramento ricevuto, essa testimonia come la sua
esistenza relativa al Regno di Dio non svilisce affatto, ma porta a compimento
gli stessi valori umani (sessualità, affetti, impegno educativo, lavoro, ecc.).
La speranza della vita beata, lungi dal contraddire o dall’impoverire la vita
presente nelle sue autentiche esigenze, la assume pienamente e la perfeziona,
liberandola dalle sue inevitabili chiusure e miserie.
Non possiamo concludere però senza
un rilievo di capitale importanza, proprio nell’ambito dell’evangelizzazione e
trasmissione della fede. Il quadro sinora offerto sugli “operai del Vangelo” ci
si è presentato nella sua bellezza e nel suo fascino: un quadro, dunque,
altamente ideale, che non poche volte la vita quotidiana dei
fedeli laici, delle persone consacrate e delle famiglie cristiane s’incarica
tristemente di alterare con il peso delle proprie lentezze e stanchezze,
infedeltà e disordini. Il quadro cambia: è quello di “operai” stanchi e
delusi, pigri e incostanti, disimpegnati e rinunciatari, a volte così
incoerenti da distruggere l’opera loro affidata. E, in tal modo, la forza
missionaria dei soggetti responsabili dell’evangelizzazione e trasmissione
della fede viene profondamente indebolita, se non addirittura annullata.
Ma occorre ritornare senza posa
alla bellezza del quadro ideale. È richiesta la “conversione”, una
conversione permanente, se si vuole riprendere il cammino riascoltando la
“vocazione” e rinnovando lo slancio della “missione”. Senza dimenticare che
proprio gli “operai del Vangelo”, per primi, sono chiamati ad accogliere
instancabilmente l’annuncio evangelico e a crescere nella fede ricevuta. È la
luce del Vangelo e della fede la forza capace di “rigenerare” in tutti loro la
disponibilità e l’entusiasmo nel porsi a servizio del Regno.
Gli operatori pastorali
89. Se è preziosa e insostituibile la testimonianza
di vita, per l’evangelizzazione e la trasmissione della fede, altrettanto prezioso
e insostituibile è l’annuncio diretto ed esplicito del Vangelo, di Gesù
Cristo stesso. Si tratta di “dire” la fede della Chiesa nel Signore Gesù come
Parola da ascoltare-incontrare-incarnare nella vita.
In questo senso, la Chiesa
evangelizza e trasmette la fede con l’esercizio di diversi ministeri, uffici
e funzioni che lo Spirito di Cristo le comunica attraverso i Sacramenti e i
più vari carismi o doni particolari. Sono ministeri, uffici e funzioni che si
radicano in quel sacerdozio profetico e regale di cui Gesù
Cristo, con l’effusione dello Spirito, rende partecipe tutta la Chiesa, sua
Sposa, e, in essa, tutti e singoli i battezzati (cfr. 1 Pietro 2,
4-5.9).
Grazie al dono di Cristo e del suo
Spirito, ogni cristiano può e deve, con la vita e le opere, far
crescere il Regno di Dio nella storia, e dunque la Chiesa nel suo volto di
comunità della Parola, del Sacramento e della carità. Da questo punto di vista,
ogni cristiano può veramente dirsi un operatore pastorale.
Ma, per poter esprimere e realizzare
più compiutamente questo suo volto, la comunità cristiana ha bisogno di uomini
e donne che si mettano a servizio del Vangelo in modo più esplicito e
diretto, in qualche misura stabile e pubblico, ossia riconoscibile
nella comunità. Sono questi cristiani a rivestire il ruolo più specifico e
proprio di “operatori pastorali”.
Questi operatori si possono ricondurre
ai tre grandi “ministeri”, attraverso i quali si esprime la vita e si
realizza la diversificata e unitaria missione della Chiesa immersa nel mondo a
servizio del Regno: i ministeri della Parola, della liturgia e della
carità. Questi tre ministeri fanno evidente riferimento alla triade
indivisa e indivisibile di Parola-Sacramento-vita che caratterizza
l’evangelizzazione e la fede e, dunque, tutta l’azione della Chiesa,
interiormente finalizzata all’evangelizzazione e alla fede.
90. Attraverso il ministero della
Parola, la Chiesa cresce come “comunità di fede”, nella quale
gli uomini e le donne ascoltano la Parola di Dio e a essa rispondono con la
loro libertà, impegnandosi nella sequela del Signore. E poiché la Sacra
Scrittura è luogo singolare e privilegiato di accostamento alla Parola, questo
ministero riserva una cura tutta particolare nel promuovere un’ampia
frequentazione della Scrittura stessa. Mediante l’annuncio kerigmatico,
l’omelia, le diverse forme di predicazione, la “lectio divina”, la catechesi,
la riflessione sistematica e teologica e molteplici altre forme di annuncio e
di ascolto, questo ministero ecclesiale ha come scopo di “nutrirci della
Parola”, affinché possiamo esserne “servi”, vivendo la missione
evangelizzatrice che è di tutta la Chiesa.
Se questa, come ricorda Giovanni
Paolo II, «è sicuramente una priorità per la Chiesa all’inizio del nuovo
millennio» (Novo millennio ineunte, 40), particolarmente significativa e
preziosa si rivela la presenza di operatori pastorali impegnati, ad esempio,
nella catechesi per le varie fasce di età, negli itinerari di preparazione dei
fidanzati al sacramento del Matrimonio, nell’apostolato biblico, nei “gruppi di
ascolto”, nelle Scuole della Parola e nell’esercizio della “lectio divina”, in
esperienze di “nuova evangelizzazione” per i cosiddetti “lontani”, in forme di
“primo annuncio” ai non credenti e così via.
91. Con il ministero della liturgia,
la Chiesa viene edificata e cresce come “comunità redenta”,
continuamente vivificata e plasmata dalla grazia del Signore. Attraverso questo
ministero, la salvezza donataci da Gesù viene comunicata lungo la storia e
raggiunge personalmente gli uomini e le donne di ogni tempo e luogo. Li
raggiunge mediante un incontro vivo e vivificante con lo stesso Signore che,
specialmente nelle azioni liturgiche, è sempre presente e operante nella sua
Chiesa (cfr. Sacrosanctum Concilium, 7).
Ne deriva che «perché la parola e
l’opera di Dio e la risposta dell’uomo si tramandino lungo la storia, è
assolutamente indispensabile che vi siano tempi e spazi precisi nella
nostra vita dedicati all’incontro con il Signore» (Comunicare il
Vangelo in un mondo che cambia, 47). Sono i tempi e gli spazi delle
celebrazioni liturgiche – vissute come autentico luogo nel quale sperimentare e
manifestare la grandezza e bellezza del mistero salvifico di Dio – e della
preghiera personale e comunitaria, quale «relazione vivente dei figli di Dio
con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo
Spirito Santo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2565) e quale
preparazione ed estensione delle stesse celebrazioni liturgiche, in particolare
dell’Eucaristia.
In questa ottica, per favorire
l’alta “qualità celebrativa” di ogni azione liturgica e per educare alla preghiera
come punto centrale e qualificante di ogni azione pastorale, va promossa la
presenza sia di quei ministeri che riguardano la celebrazione liturgica – come,
ad esempio, i lettori, gli animatori liturgici, gli animatori del canto e della
musica, i ministri straordinari della Comunione eucaristica, gli addetti
all’accoglienza (cfr. Sinodo 47°, cost. 54, 2) –, sia di operatori
pastorali impegnati nell’animazione di momenti e/o di gruppi di preghiera.
Dobbiamo tutti apprezzare la loro
presenza. Grazie al loro ministero, le nostre parrocchie e ogni gruppo e
comunità ecclesiale devono poter diventare – come sottolinea con forza
Giovanni Paolo II introducendo la Chiesa nel terzo millennio – «autentiche
“scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto
in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione,
contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino a un vero “invaghimento” del
cuore» (Novo millennio ineunte, 33).
92. C’è, infine, il ministero della
carità, con cui la Chiesa, sull’esempio del suo Signore e Maestro,
si costruisce e cresce come “serva” della persona e della società,
attraverso un amore che si dona e si fa promozione e accoglienza. È questo il
segno distintivo della comunità ecclesiale e del singolo cristiano. È mediante
questa cura cristiana per l’uomo e per la società, che la verità e la bontà del
messaggio evangelico trovano la loro più credibile conferma agli occhi
disincantati di molti. La Chiesa, infatti, annuncia il Vangelo di Gesù non solo
con la parola della predicazione e la celebrazione dei Sacramenti, ma anche con
la concreta testimonianza di una vita spesa nell’amore, con generosità e con
gioia. In questo senso, la pratica della carità è “lieta notizia”, luogo e
strumento di evangelizzazione. Lo è in tutte le forme diversificate che la
carità può e deve assumere. Ed è in riferimento a ciascuna di queste forme che
il ministero della carità vede il dispiegarsi di una serie di molteplici figure
di operatori pastorali.
Un primo servizio alla persona
consiste nel prendersi cura di ognuno nella sua unicità e
irripetibilità, per aiutarlo a riconoscere quanto è iscritto nel suo stesso essere,
a scoprire il disegno che Dio ha su di lui, a crescere secondo verità e bontà,
a realizzare se stesso fino a raggiungere la propria perfezione e felicità. Si
apre qui tutto l’ambito del lavoro educativo, svolto con i singoli e/o
nelle diverse realtà aggregative, nel quale la Chiesa ha un compito e un dovere
da svolgere a un titolo tutto speciale (cfr. Gravissimun educationis,
3).
È qui che trovano spazio diverse
figure di operatori pastorali, quali, ad esempio: gli animatori vocazionali; i
responsabili laici degli oratori; gli educatori e gli animatori dei ragazzi,
degli adolescenti e dei giovani negli oratori, come pure nelle associazioni e
nei diversi gruppi e movimenti ecclesiali; i responsabili e gli animatori dei
gruppi familiari e di associazioni, gruppi e movimenti di spiritualità
familiare; gli animatori delle aggregazioni sportive a carattere educativo e
così via.
Tra le molte forme con cui si
esprime il ministero della carità, un posto del tutto particolare è quello
occupato dalla cura del povero. Qui la pratica della carità si fa
educazione dei singoli e delle comunità a coltivare un evangelico amore
preferenziale per i poveri. Si fa anche risposta concreta alle loro
molteplici, vecchie e nuove forme di povertà, riconoscendo la dignità personale
di ogni povero e realizzando con lui un’autentica “condivisione”. Qui la carità
diventa uno stare con i poveri, nel senso di realizzare con loro un
vincolo personale, secondo l’indicazione dei Vescovi italiani: «Accogliere il
povero, il malato, lo straniero, il carcerato è fargli spazio nel proprio
tempo, nella propria casa, nelle proprie amicizie, nella propria città e nelle
proprie leggi. La carità è molto più impegnativa di una beneficenza
occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di
un gesto» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 39).
Per realizzare tutto questo –
dando generosamente spazio alla «nuova “fantasia della carità”» richiesta dal
Papa a ogni nostra comunità (cfr. Novo millennio ineunte, 50) –, dobbiamo
promuovere la presenza di operatori pastorali impegnati, ad esempio, nella
Caritas e nelle sue varie articolazioni e iniziative, come pure nelle diverse
forme di attenzione e di assistenza ai poveri, agli emarginati, agli immigrati,
ai carcerati, ecc.; nell’assistenza ai malati, alle persone disabili e agli
anziani, come nelle numerose forme di volontariato; nell’attuazione delle opere
di misericordia spirituale e corporale e così via.
Il ministero della carità esige
anche la cura della comunità cristiana nel suo insieme e nelle sue
molteplici forme di azione pastorale. Espressione irrinunciabile della carità
è, infatti, l’unione fraterna tra i cristiani, nel segno della comunione e
della corresponsabilità. In questa prospettiva, dobbiamo promuovere e
valorizzare, in un quadro di autentica pastorale d’insieme, gli strumenti di
partecipazione ecclesiale e gli organismi relativi ai diversi ambiti pastorali.
Anche qui le nostre comunità
cristiane possono e devono prevedere la presenza di operatori pastorali. Tra
questi sono da ricordare: i membri dei Consigli pastorali parrocchiali e
decanali; i membri dei Consigli parrocchiali per gli affari economici; i
responsabili e i membri delle diverse Commissioni pastorali; i responsabili
delle diverse associazioni e dei gruppi e movimenti ecclesiali.
Un’altra espressione del ministero
della carità è data dalla “animazione sociale” e dall’impegno politico.
È questa un’espressione che nasce dal realismo tenace con cui la carità cerca
il bene di ogni uomo e dell’intera società. Propriamente parlando, “l’impegno
politico” può e deve essere sì qualificato come un modo di vivere la carità,
anzi – secondo l’espressione di Paolo VI – come «una maniera esigente… di
vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Octogesima adveniens,
46), ma non come “azione pastorale”. Esso, infatti, consiste nelle «azioni che
i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come
cittadini, guidati dalla coscienza cristiana» e non nelle «azioni che essi
compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (cfr. Gaudium
et spes, 76).
Più articolate sono, invece, le
considerazioni da fare a proposito delle diverse forme di “animazione sociale”.
«Esse – come leggiamo nel nostro Sinodo 47° – tendono a infondere una
sensibilità umana nell’intera società e nelle sue articolazioni e strutture, a
sollecitare e sostenere un’attenzione più vera e cordiale ai diversi bisogni
delle persone, a individuare, progettare e proporre attività culturali,
iniziative assistenziali e programmi economici che favoriscano l’accoglienza,
l’inserimento sociale e la crescita libera di tutti i membri della società»
(cost. 126, 2). L’animazione sociale sfocia certamente in forme di impegno
diretto a livello sociale e politico: in questo senso, essa non è propriamente
“azione pastorale”. D’altra parte, questa stessa animazione sociale comporta
tutto un lavoro, in qualche modo previo, di discernimento, di sensibilizzazione
e di educazione delle coscienze, che rientra tra i compiti propri dell’azione
pastorale.
Ed è qui che si danno, come
legittime e opportune, figure di operatori pastorali impegnati, anche tramite
apposite Commissioni, a far crescere e a esprimere l’attenzione e l’impegno dei
cristiani nei diversi ambiti della società, quali, ad esempio, la scuola e le
comunicazioni sociali, il lavoro, l’economia e la politica, la sanità,
l’assistenza, lo sport.
93. Dopo avere illustrato, sia pure
brevemente, le molteplici tipologie di operatori pastorali e averne
sottolineato l’importanza, sento la necessità e l’urgenza di attirare
l’attenzione di tutti – e, in particolare, degli stessi operatori pastorali –
su tre aspetti, tra gli altri, che devono caratterizzare la loro
presenza e azione nella Chiesa.
In primo luogo, sulla loro grande
varietà. Essa nasce dalla diversità stessa dei ministeri, degli uffici e
delle funzioni, legati al triplice servizio profetico, sacerdotale e regale
della Chiesa. È richiesta, poi, dalle molteplici e mutevoli situazioni ed
emergenze storiche nelle quali avvengono l’annuncio del Vangelo e la
trasmissione della fede. Deriva, infine, dalla singolare ricchezza dei carismi
o doni spirituali, che lo Spirito Santo continua a elargire ai credenti. È una
varietà, questa, che vogliamo accogliere, riconoscere e promuovere con viva
gratitudine al Signore, con sincerità e cordialità fraterne e con profondo
senso di responsabilità verso la Chiesa e la storia degli uomini.
Chiedo, pertanto, che – alla luce
delle indicazioni presenti nel nostro Sinodo 47° e riprendendo e sviluppando
ulteriormente il cammino già sperimentato negli anni pastorali 2000-2001 e
2001-2002 con l’iniziativa “Collaboratori della vostra gioia” – in ogni
articolazione della nostra Diocesi (parrocchia, decanato, zona pastorale),
oltre a valorizzare quelle già presenti, si identifichino quali altre figure
di operatori pastorali vanno concretamente promosse. È un discernimento
doveroso, finalizzato a registrare le reali esigenze dell’azione pastorale oggi
in ogni singola comunità e a creare le condizioni per una risposta adeguata a
queste stesse esigenze. Ci sollecitano a questo la necessità e l’urgenza di
rinnovare e rinvigorire in ogni nostra comunità lo slancio missionario voluto
dal Signore risorto.
Con la varietà, va messa in
risalto e garantita la profonda unità che deve caratterizzare tutti gli
operatori pastorali. La loro molteplicità non deve sfociare in una scorretta
“settorializzazione” dell’azione pastorale, né in una sua frammentazione e
disgregazione o, peggio ancora, in forme inaccettabili di concorrenzialità o di
competitività tra i vari operatori. Non deve accadere perché tutti gli
operatori pastorali, sia pure con modalità e accentuazioni diverse, sono
impegnati nel comune servizio all’unico Vangelo di Gesù. Sentiamoci, tutti e
ciascuno, coinvolti nell’identica missione di trasmettere la fede, senza mai
dimenticarne o contraddirne l’intrinseca fisionomia di “totalità unificata”, di
fede confessata-celebrata-vissuta. Sentiamoci, tutti e ciascuno, a servizio del
Vangelo, della fede e della presenza della Chiesa nella società non a nome
proprio e come operatori “solitari”, ma come “mandati” dalla Chiesa e in suo
nome. Viviamo il nostro compito non solo nel segno della fattiva collaborazione
tra noi, ma anche e soprattutto nel segno di una più gioiosa comunione e di una
più forte corresponsabilità.
Questo “senso di Chiesa” va
adeguatamente educato in tutti e in ciascuno, attraverso ogni iniziativa e ogni
itinerario formativo. È quanto, insieme con la formazione dottrinale e
metodologica specifica per ogni operatore, va assicurato, in particolare,
mediante le Scuole Diocesane per gli Operatori Pastorali.
Chiedo pertanto che – nella scia
del cammino fatto nel precedente biennio pastorale con la già citata iniziativa
“Collaboratori della vostra gioia” – la Segreteria delle Scuole Diocesane
per gli Operatori Pastorali, in collaborazione con i diversi Organismi di
Curia interessati, individui i mezzi per una convinta riproposizione e un
efficace rilancio di queste stesse Scuole.
Chiedo pure che quanto verrà
promosso a tale riguardo sia cordialmente ed effettivamente accolto,
condiviso e seguito nelle diverse articolazioni della Diocesi.
Da ultimo, ma in modo decisivo
perché fondamentale, è la missionarietà la prospettiva radicale che deve
caratterizzare e animare la presenza e l’azione dei diversi operatori
pastorali. Essi, infatti, sono compartecipi della missione evangelizzatrice che
costituisce la ragione stessa della Chiesa. È, anzi, questa missionarietà a
rappresentare la “causa” e il “fine” della presenza e azione di tutti gli
operatori pastorali nella loro varietà e unità.
La “causa”, perché è
proprio il mandato missionario di andare in tutto il mondo (cfr. Marco
16, 15) a esigere che l’azione pastorale della Chiesa si manifesti e si
sviluppi in tutti i luoghi e i modi in cui si esprime e si vive il triplice
unitario ministero della Parola, della liturgia e della carità. Ed è lo stesso
mandato missionario a esigere che l’azione pastorale sia vissuta nel segno
dell’unità: lo esige, anzitutto, per essere coerente con il comando dato a
tutti gli Undici insieme e non a ciascuno di essi separatamente e, in secondo
luogo, per essere davvero credibile ed efficace.
La missionarietà è anche il “fine”
della presenza e azione degli operatori pastorali. Lo è perché le varie e
molteplici forme attraverso cui si vive il ministero della Parola, della
liturgia e della carità hanno come solo scopo di edificare e far crescere una
Chiesa che annuncia, celebra e serve non sé stessa, ma unicamente Gesù e il suo
Vangelo.
I ministri ordinati
94. Un posto specifico e insostituibile
nell’evangelizzazione e trasmissione della fede spetta ai Vescovi, ai presbiteri
e ai diaconi, a quanti cioè ricevono il sacramento dell’Ordine.
Nella comunione di tutti i fedeli
che, in virtù dell’unico Battesimo, sono abilitati e impegnati a vivere la
missione affidata dal Signore alla Chiesa, essi ricevono un “dono” e un
“compito” propri e peculiari nel popolo di Dio e a suo servizio. In forza
dell’Ordinazione sacramentale, infatti, ciascuno di essi è reso conforme a Gesù
Cristo secondo una modalità specifica.
Configurati a Cristo Pastore nella
pienezza del sacerdozio, i Vescovi ricevono il compito di annunciare il
Vangelo a credenti e non credenti, di essere maestri della fede, di santificare
e governare la Chiesa particolare loro affidata.
In comunione con il Vescovo e con
il presbiterio, i Diaconi sono costituiti nella Chiesa come segno vivo
di Gesù, Signore e Servo di tutti e, come tali, sono consacrati e mandati al
servizio della comunione ecclesiale mediante l’esercizio del ministero della
Parola, della liturgia e della carità.
È sui presbiteri che ci
soffermiamo in modo particolare. La loro fisionomia specifica è di essere “ripresentazione”
sacramentale, nella Chiesa e davanti alla Chiesa, di Gesù Cristo Capo e
Pastore. Così il Concilio Vaticano II scrive a loro riguardo: «Lo stesso
Signore, affinché i fedeli fossero uniti in un corpo solo, di cui però “non
tutte le membra hanno la stessa funzione” (Rom. 12, 4), promosse alcuni
di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero
il sacro potere dell’Ordine per offrire il Sacrificio e perdonare i peccati, e
che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione
sacerdotale. Pertanto, dopo aver inviato gli Apostoli come egli stesso era
stato inviato dal Padre, Cristo, per mezzo degli stessi Apostoli, rese
partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè
i Vescovi, la cui funzione ministeriale fu trasmessa in grado subordinato ai
Presbiteri, affinché questi, costituiti nell’Ordine del presbiterato, fossero
cooperatori dell’Ordine episcopale, per il retto assolvimento della missione
apostolica affidata da Cristo».
E aggiunge, andando alla radice
dell’identità e della missione dei presbiteri: «La funzione dei Presbiteri, in
quanto strettamente unita all’Ordine episcopale, partecipa dell’autorità con la
quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio Corpo. Per
questo motivo, il sacerdozio dei Presbiteri, pur presupponendo i Sacramenti
dell’iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare Sacramento per
il quale i Presbiteri, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo, sono segnati
da uno speciale carattere che li configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter
agire nella persona di Cristo Capo» (Presbyterorum ordinis, 2).
Come può emergere da una lettura
attenta, il testo conciliare presenta elementi decisivi per definire l’essere
e l’agire propri dei presbiteri, in particolare all’interno della missione
evangelizzatrice della Chiesa.
Il Concilio fa riferimento, in
modo immediato ed esplicito, alla “missione” che Gesù Cristo, l’inviato dal
Padre, ha partecipato agli Apostoli e ai Vescovi, loro successori. Di questa
stessa missione sono resi partecipi anche i presbiteri. Ciò avviene in forza di
quello strettissimo legame con i Vescovi che li costituisce «cooperatori
dell’Ordine episcopale». Si tratta di una partecipazione con caratteristiche
specifiche, che determinano il loro compito proprio e peculiare nella Chiesa
Grazie all’Ordinazione, che li
rende «cooperatori dell’Ordine episcopale», i presbiteri ci fanno risalire
agli Apostoli, come ai testimoni oculari di Cristo risorto, e, quindi, a
Gesù stesso. Proprio in questo senso, deve dirsi fondamentale la
loro presenza all’interno e a favore della comunità cristiana. È grazie a loro
che ogni comunità cristiana sta in viva relazione con le origini apostoliche
della Chiesa. È grazie alla loro presenza e al loro ministero che ogni concreta
localizzazione della Chiesa può dirsi “apostolica” e, quindi, una, santa e
cattolica.
I presbiteri, inoltre, ricevono
dal sacramento dell’Ordine il sacro potere di «agire nella persona di Cristo
Capo», in particolare offrendo il Sacrificio della Messa e perdonando
i peccati. Emerge così un’altra ragione dell’insostituibilità dei presbiteri
per la vita e la missione della comunità cristiana: quest’ultima, infatti,
trova nell’Eucaristia, con la presenza reale e personale di Gesù Cristo morto e
risorto, la sorgente stessa della sua comunione e la forza prima della sua
missione.
Grazie al legame sacramentale con
il Vescovo, i presbiteri costituiscono un unico presbiterio. Vengono
intimamente congiunti col Vescovo e tra di loro. In tal modo e con la
celebrazione dei Sacramenti e in particolare dell’Eucaristia, i presbiteri
fanno di ogni parrocchia e comunità cristiana una comunità organicamente
inserita nella Chiesa particolare (cfr. Presbyterorum ordinis, 5).
Poiché il sacerdozio ministeriale
è al servizio del sacerdozio comune di tutti i fedeli, i presbiteri ricevono,
infine, il compito di “edificare” la comunità cristiana come comunità
della Parola, del Sacramento e della carità. Il loro modo specifico di
edificarla è quello che si esprime nel “ministero della presidenza”,
inteso come «servizio per la comunione tra tutti i fedeli e come impegno a
rendere consapevole ogni battezzato della sua chiamata a un’effettiva
corresponsabilità nella vita e nella missione del popolo di Dio» (Sinodo 47°,
cost. 132, 3c). Rientra nel ministero della presidenza il compito di discernere
ed educare, valorizzare, promuovere e coordinare l’esercizio concreto, da parte
di tutti i fedeli, dei loro ministeri, uffici e funzioni in ordine a una
crescita corale della comunità cristiana in senso decisamente missionario.
Con il loro stesso essere
e agire
in conformità al Sacramento ricevuto, i presbiteri attuano la loro prima
forma di missionarietà. Essi “dicono” e “fanno vede-re” che la Chiesa è
fondata sugli Apostoli, nasce dal-l’Eucaristia e da essa viene continuamente
plasmata e alimentata, è comunione organica e gerarchica intorno al Vescovo e
con il Vescovo in una autentica ottica di “diocesanità”, è comunità animata e
servita dalla varietà e complementarietà di carismi, uffici e ministeri.
E fanno tutto questo in un modo
“proprio e peculiare”, non delegabile e non sostituibile. Un modo che li
costituisce «modelli del gregge» loro affidato (1 Pietro 5, 3):
persone che annunciano con la parola e testimoniano con la vita l’identità e la
missione della Chiesa nel mondo, una identità e una missione di cui tutti i
membri del popolo di Dio, ciascuno secondo la propria vocazione, sono resi
partecipi.
Il Signore Gesù, con il soffio
potente del suo Spirito, li configuri così di giorno in giorno e li renda
evangelici “segni di contraddizione” nella Chiesa e nel mondo. Non sarà,
infatti, la loro persona e la loro azione a contrastare ogni ricorrente
tentazione di costruire una Chiesa sulla nostra misura di uomini e non secondo
la misura di Cristo, nella fedeltà al volto che lo stesso Signore le ha donato?
I missionari “ad gentes”
95. «La missione di Cristo redentore,
affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento. Al termine del
secondo millennio dalla sua venuta uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra
che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le
forze al suo servizio». Con queste significative parole si apre l’enciclica Redemptoris
missio di Giovanni Paolo II, nel ricordo, a venticinque anni, della
pubblicazione del Decreto conciliare sull’attività missionaria Ad gentes.
Tutti i credenti hanno una precisa responsabilità
missionaria, che conosce gli stessi confini assegnati dal Signore Gesù ai
suoi discepoli prima di ascendere al cielo. Il compito loro affidato ha un’inequivocabile
dimensione universale: «tutte le nazioni» (Matteo 28, 19), «in tutto
il mondo, ad ogni creatura» (Marco 16, 15); «tutte le genti» (Luca
24, 47); «fino agli estremi confini della terra» (Atti 1, 8).
Fedeli laici, persone consacrate,
famiglie, operatori pastorali, ministri ordinati sono tutti chiamati a vivere
la grazia e l’impegno dell’annuncio del Vangelo secondo questa apertura
propriamente universale. Questo è possibile e doveroso, in forza del fatto
misterioso e reale di appartenere tutti, come battezzati, alla Chiesa di Cristo
come Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. In particolare, la Chiesa è
“cattolica”, ossia universale, perché in essa è presente Cristo, dal quale
riceve tutti i mezzi necessari per la salvezza degli uomini. Inoltre, la Chiesa
è “cattolica” perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere
umano: «La Chiesa è missionaria per sua natura… Ne deriva che tutta la Chiesa e
ciascuna Chiesa è inviata alle genti» (Redemptoris missio, 62).
Siamo chiamati a ridestare e
rafforzare la coscienza della “cattolicità” della Chiesa. È questa
coscienza il principio e la forza per poter assolvere il nostro dovere
missionario universale, attraverso la preghiera, il sacrificio e l’aiuto
concreto.
Ma subito dobbiamo precisare, come
scrive il Papa: «Dire che tutta la Chiesa è missionaria non esclude che esista
una specifica missione ad gentes, come dire che tutti i cattolici
debbono essere missionari non esclude, anzi richiede che ci siano i “missionari
ad gentes ed a vita” per vocazione specifica» (Redemptoris
missio, 32).
La missione ad gentes
è quella che riguarda, propriamente, «popoli, gruppi umani, contesti
socio-culturali in cui Cristo e il suo Vangelo non sono conosciuti, o in cui
mancano comunità cristiane abbastanza mature da poter incarnare la fede nel
proprio ambiente e annunziarla ad altri gruppi» (Redemptoris missio,
33).
È vero che i responsabili
specifici di tale missione sono i missionari e gli Istituti ad gentes,
come pure alcuni Istituti di vita consacrata e anche laici, uomini e donne.
Ma è altrettanto vero che una responsabilità per la missione ad gentes
grava anche su tutti i Vescovi e i presbiteri in quanto tali. Dei primi
il Concilio scrive: «Sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per
la salvezza di tutto il mondo. Il comando di Cristo di predicare il Vangelo ad
ogni creatura (cfr. Mc 16, 15), riguarda innanzitutto e immediatamente
loro, con Pietro e sotto Pietro» (Ad gentes, 38).
Quanto poi ai presbiteri,
lo stesso Concilio ricorda: «Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto
nell’Ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a
una vastissima e universale missione di salvezza, “fino agli estremi confini
della terra”, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa
ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli Apostoli» (Presbyterorum
ordinis, 10). È su questa base comune che può svilupparsi una vocazione
specifica: quella dei presbiteri detti fidei donum, che si
dedicano a un servizio temporaneo nelle missioni ad gentes.
Nel contesto di questa
responsabilità specifica entrano anche le nostre comunità cristiane, a
cominciare dalle parrocchie. È di nuovo il Concilio ad ammonirci con
chiarezza e concretezza: «La grazia del rinnovamento non può crescere nella
comunità, se ciascuna di esse non allarga gli spazi della carità sino ai
confini della terra, dimostrando per quelli che sono lontani la stessa
sollecitudine che ha per coloro che sono suoi propri membri… Sarà utilissimo
mantenere i contatti, senza tuttavia trascurare l’opera missionaria universale,
con i missionari che hanno avuto origine dalla comunità stessa, o con una
parrocchia o con una diocesi di missione, perché la comunione tra le comunità diventi
visibile e torni a vantaggio di una reciproca edificazione» (Ad gentes,
37).
In questo quadro, è di particolare
valore l’affermazione del Papa: «Senza la missione ad gentes la
stessa dimensione missionaria della Chiesa sarebbe priva del suo significato
fondamentale e della sua attuazione esemplare» (Redemptoris missio,
34). La missione ad gentes è, dunque, “paradigma” della
missionarietà evangelizzatrice propria di ogni
comunità ecclesiale.
Ma che significa “paradigma”?
Significa, attraverso un vivo e costante riferimento alla missione ad gentes,
lasciarci richiamare ad alcune fondamentali “attenzioni” che devono
segnare in modo più abituale e profondo la nostra azione pastorale quotidiana e
ordinaria. Così, tra l’altro, la gratitudine profonda e umile per il dono della
fede che abbiamo ricevuto, rispetto alle moltitudini di genti che ancora non
conoscono Gesù Cristo. Così la percezione gioiosa della “novità”, sempre viva e
intramontabile, che ci sorprende ogni volta che ascoltiamo o comunichiamo il Vangelo.
E ancora: la ricerca missionaria di “spazi non cristiani” presenti anche
all’interno delle nostre comunità di credenti; l’accoglienza, il dialogo, la
testimonianza e l’annuncio della fede nei riguardi dei tanti immigrati – spesso
non cristiani – che provengono dalle diverse parti del mondo e che si trovano
tra noi, anche stabilmente; il richiamo pressante alle nostre comunità perché,
superando indebiti localismi, allarghino il proprio sguardo e interesse verso
un orizzonte planetario.
Di particolare importanza sono l’accoglienza
e la valorizzazione, nelle nostre comunità, dei missionari e Istituti
“ad gentes” e dei nostri sacerdoti “fidei donum”. Da essi ci può venire una
spinta particolare a vivere con maggiore freschezza e con più decisa apertura
al nuovo la nostra missione evangelizzatrice.
Rimaniamo, infine, in umile e
saggio ascolto dell’esperienza cristiana delle Chiese di missione. È
un’esperienza che, in particolare, può aiutarci a dare il giusto primato
alla testimonianza dei martiri, riconoscendo in loro la vera misura del
cristiano. Sono, infatti, i martiri, di cui le Chiese di missione sono ricche
anche ai nostri giorni, a offrirci una indicazione di straordinario valore. È
l’appello a «seguire il Signore fino a dare, come lui, la vita per i fratelli:
nella difesa dei diritti dei più poveri, nell’affermazione della dignità di
ogni persona anche se debole, nella condivisione e solidarietà con chi è
vittima della ingiusta violenza, nella professione della fede che non è stata
ridotta al silenzio dalle minacce. I martiri invitano la nostra Chiesa a
contare non sulla forza e sul prestigio umani, ma sulla forza che Dio assicura
a chi si affida a lui ed è fedele al suo Vangelo» (Consiglio Permanente della CEI, Lettera L’amore di Cristo
ci spinge alle comunità cristiane per un rinnovato impegno missionario, 4
aprile 1999).
La formazione degli “operai del Vangelo”
96. Dopo la presentazione dei diversi
“operai del Vangelo”, dobbiamo ora fermarci su un valore fondamentale e su una
condizione imprescindibile per il loro impegno apostolico e missionario: la
formazione.
In realtà, non è possibile
rispondere con una libertà piena di amore alla chiamata e missione che il
Signore rivolge e affida a tutti i credenti se non con un serio e costante
impegno alla formazione, ossia alla maturazione di tutti i doni e i compiti
che, come un seme che vive e dà vita, sono stati deposti da Dio nel cuore di
ciascuno di noi. In particolare, la bellezza e grandezza di questi doni e
compiti e, insieme, la gravità della causa al cui servizio sono stati dati –
l’annuncio del Vangelo e la trasmissione della fede in ordine alla salvezza –
dicono l’assoluta necessità che gli “operai del Vangelo” amino sinceramente e
sviluppino con fedeltà generosa la loro opera formativa. Solo così il “talento”
ricevuto viene trafficato, solo così il “tralcio” può rimanere nella vite e
portare frutto (cfr. Giovanni 15, 1.2.5).
Qual è l’obiettivo fondamentale
della formazione? È la scoperta sempre più limpida e precisa della propria vocazione
e la disponibilità sempre più pronta e matura a viverla nel compimento della
propria missione. Infatti, se è vero che Dio nel suo amore chiama e
manda tutti e ciascuno di noi al servizio del Vangelo, è anche vero che ogni
cristiano riceve da lui la sua propria e peculiare vocazione e missione.
97. Per ciascuno si pone, in primo
luogo, il problema vocazionale, l’esigenza di discernere la specifica
vocazione che Dio ci riserva nel nostro compito di annunciare il Vangelo e
trasmettere la fede. Il che significa non solo “sapere” quello che Dio vuole
da noi, ma anche l’impegno a “fare” ciò che lui ci chiede. Anzi, significa
diventare “sempre più capaci” di compiere la volontà del Signore. Questo
diciamo nel segno di una grande serenità e di una straordinaria fiducia,
perché sappiamo che la stessa vocazione è “una grazia che genera altre
grazie” e che, quindi, assicura l’aiuto costante e più che abbondante del
Signore, come ci ricorda san Leone Magno: «Darà il vigore Colui che ha
conferito la dignità!» (Discorso II, 1). Ma, nello stesso tempo, questo
diciamo nel segno d’una precisa e irrinunciabile responsabilità che il
chiamato riceve: quella di mantenere sempre viva, grata e gioiosa la coscienza
della propria vocazione e di rendere più libera, generosa e piena d’amore la
risposta a Dio che chiama. «E io risposi: “Eccomi, manda me!”» (Isaia 6,
8).
Nella vita pastorale della Chiesa
è di grande importanza il problema vocazionale, ossia l’impegno a discernere,
accompagnare, sostenere tutti gli “operai del Vangelo” nelle loro
diverse e complementari vocazioni.
In questo contesto, decisamente
aperto sull’intero arco delle vocazioni, non c’è dubbio che una singolare
attenzione deve essere riservata oggi alle vocazioni sacerdotali.
Lo rileva esplicitamente l’Esortazione Ecclesia in Europa, che così
scrive: «La cura delle vocazioni [dei ministri ordinati e dei consacrati] è un
problema vitale per il futuro della fede cristiana in Europa e, di riflesso,
per il progresso spirituale degli stessi popoli che l’abitano; è passaggio
obbligato per una Chiesa che voglia annunciare, celebrare e servire il Vangelo
della speranza» (n. 39).
Queste parole possono trovare, a
loro modo, una applicazione anche per la nostra Chiesa particolare. Anche da
noi il problema delle vocazioni sacerdotali si presenta come «problema
vitale per il futuro della fede cristiana»! Se, come abbiamo detto sin
dall’inizio, la nostra responsabilità non riguarda solo il presente, ma anche
il futuro della nostra Chiesa, questo delle vocazioni sacerdotali è uno degli
spazi primari dove si fa più grave e urgente tale responsabilità.
Non c’è dubbio che
un’evangelizzazione più decisa, apostolicamente impegnata e integrale, è il
miglior “programma” per ogni pastorale vocazionale. Ma è altrettanto vero che
senza sufficienti vocazioni per il ministero ordinato sarà indubbiamente più
difficile il servizio al Vangelo e, quindi, non sarà possibile una rinnovata e
vigorosa evangelizzazione della nostra Chiesa e del nostro territorio.
«L’amore al presbiterio della
nostra Chiesa ambrosiana, – dicevo nella Messa Crismale del Giovedì Santo 2003
– per la ben nota situazione del suo clero, non può non interpellare ciascuno
di noi sul problema delle vocazioni. Noi preti, per primi e a un titolo
specifico, siamo chiamati a realizzare una vera e propria pedagogia
vocazionale, che passa – lo sappiamo bene, ma è doveroso ricordarlo –
anzitutto dalla nostra stessa testimonianza di vita».
E concludevo, con un appello che
rilancio con convinzione e vigore a tutta la Diocesi: «Di fronte al problema
vocazionale, sento vivo il bisogno di ribadire la necessità e l’urgenza di
dare vita… a “una grande preghiera per le vocazioni”, una preghiera
da viversi con intensa fiducia e tenace costanza, capace di coinvolgere personalmente
tutti i membri del popolo di Dio – a iniziare da noi Vescovi, Presbiteri e
Diaconi – e da esprimersi anche con opportune modalità comunitarie”
(Rinnoviamo la nostra comunione presbiterale,
Omelia nella Messa Crismale, 17 aprile 2003).
Chiedo, pertanto, che il Centro
Diocesano Vocazioni – in stretta collaborazione con il Seminario, il
Servizio per la Famiglia, il Servizio per i Ragazzi e l’Oratorio, il Servizio
per i Giovani – studi le iniziative più opportune e adeguate da proporre
alla Diocesi per una rinnovata e più vigorosa pastorale vocazionale.
In particolare e anzitutto, chiedo
che individui le modalità concrete con cui riproporre e promuovere –
nelle parrocchie, nei decanati e nelle diverse realtà aggregative – la
“grande preghiera per le vocazioni”, coinvolgendo le singole persone – e,
in particolare, i ragazzi, gli adolescenti e i giovani –, senza mai dimenticare
l’apporto privilegiato che viene dai malati e dai sofferenti.
98. La coscienza viva della propria
vocazione a servire il Vangelo è il prerequisito primo e la forza più rilevante
per la formazione, così da compiere fedelmente la missione affidata.
In una parola, si tratta di dar
vita a una formazione permanente alla “fede adulta”. È una formazione
che comporta – come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi Lombardi nel 1991 – «il
passaggio da una fede di consuetudine, pur apprezzabile, a una fede che sia
scelta personale, illuminata, convinta, testimoniante. È tale fede, celebrata e
partecipata nella liturgia e nella carità, che nutre e fortifica la comunità
dei discepoli del Signore e li edifica come Chiesa missionaria e profetica…. Il
cristiano adulto, che aderisce con scelta personale e convinta al mistero di
Cristo, va quindi guidato ad essere capace di offrire agli altri le ragioni
della sua fede e della sua appartenenza ecclesiale e va spronato ad inserirsi
con stile cristiano nel mondo della cultura, nelle strutture pubbliche, nelle
realtà sociali, e nell’impegno politico» (Formati a una fede adulta.
Discorso ai Vescovi Lombardi in visita “ad limina Apostolorum”, 3 febbraio
1991, 5-6).
La formazione alla “fede adulta”
esige, tra l’altro, l’educazione a sentire e vivere la fede cristiana nella
sua “totalità unificata”, come triade indivisa e
indivisibile di fede confessata-celebrata-vissuta. È di
assoluta necessità assicurare alla fede questa sua organicità e unità
interiore, non solo per essere fedeli alla sua stessa natura e alla sua
singolare ricchezza, ma anche e non meno per poter annunciare in modo credibile
ed efficace il Vangelo di Gesù. È in questione, dunque, anche la forza
missionaria della fede stessa.
In particolare, è necessario
insistere su un aspetto della “totalità unificata” della fede, che riguarda
specialmente i laici cristiani: è la loro formazione, di fronte a
facili e comuni forme di dissociazione e di contrapposizione, a vivere
l’unità di cui è segnato il loro stesso essere di membri della
Chiesa e di cittadini della società umana. «Nella loro
esistenza non possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita
cosiddetta “spirituale”, con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall’altra,
la vita cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei
rapporti sociali, dell’impegno politico e della cultura. Il tralcio, radicato
nella vite che è Cristo, porta i suoi frutti in ogni settore dell’attività e
dell’esistenza…» (Christifideles laici, 59).
La formazione alla “fede adulta”
esige, poi, l’educazione a “pensare” la fede o a crescere in una fede
“pensata”. Non esiste fede vera che non sia fede pensata, ossia un’adesione
d’amore a Gesù Cristo, che è inscindibilmente adesione al suo stesso
“pensiero”: «Noi – scrive in modo incisivo l’apostolo Paolo – abbiamo il
pensiero di Cristo» (1 Corinzi 2, 16). La fede è comunione profondamente
personale con Gesù Cristo, Verità e Luce del mondo, e i credenti sono “luce nel
Signore”, in possesso di criteri di giudizio e di decisione nuovi e originali,
con i quali essi entrano nel dibattito culturale in atto nella società. Vi
entrano con questi criteri valutativi e operativi nuovi e, insieme, con un
fiducioso e impegnato ricorso alla luce della ragione umana, anch’essa –
analogamente alla fede – dono di Dio. In tal modo, possono comprendere e
spiegare a sé e agli altri i problemi che investono i più diversi ambiti della
vita, dalla bioetica alla famiglia, dall’economia alla politica, dalla
comunicazione alla cultura, e così via.
Così la fede si incontra con la
“cultura” e con le “culture” presenti nella società: un incontro che significa
ascolto, confronto, dialogo, discussione, accoglienza, collaborazione, presa di
distanza, rifiuto. In questo senso, l’evangelizzazione e la trasmissione della
fede chiedono oggi non solo l’impegno di “diffondere” la parola
salvifica del Vangelo nella sua interezza e con tutte le sue conseguenze, ma
anche quello di “difendere” questa stessa parola.
È quanto avviene quando i credenti
sanno mostrare la verità, la bontà e la bellezza della fede; illustrarla e
spiegarla in modo argomentato e puntuale; rispondere con convinzione e portare
adeguate motivazioni alle obiezioni che le vengono più o meno esplicitamente
rivolte; confrontarsi criticamente e senza complessi di inferiorità con quanto
va sempre più emergendo nella mentalità corrente. Scrive il Papa: «Per
l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e
controversi [i problemi legati all’antropologia e all’etica], è importante fare
un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della
Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti
una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella
natura stessa dell’essere umano» (Novo millennio ineunte, 51).
Dobbiamo ravvisare qui un punto
debole della nostra abituale formazione pastorale. Più in generale,
dobbiamo riconoscere una mancata o insufficiente consapevolezza, per non pochi
credenti, del valore della cultura, sia in se stessa, sia
in specifico rapporto con l’annuncio del Vangelo e con la fede cristiana. E ciò
è tanto più preoccupante quanto più ampia e capillare, nei diversi ambienti di
vita, si fa la presenza di visioni dell’uomo le più disparate e persino
contraddittorie.
Il dovere della formazione alla
“fede pensata”, se è di tutti i credenti, lo diviene in modo speciale per
coloro che, come docenti e come studenti, sono impegnati nell’ambito della
scuola, dell’università e della cultura. Qui le esigenze di razionalità e di
scientificità nello studio, nella ricerca e nell’insegnamento chiedono, come
necessari, il confronto e il dialogo tra il Vangelo e la cultura, tra la fede e
la scienza, tra la “stoltezza della Croce” e la “sapienza degli uomini”.
Concludiamo sottolineando l’esigenza
prioritaria di assicurare alle nostre comunità cristiane e, in particolare,
agli “operai del Vangelo” uno spazio adeguato per la “formazione dei
formatori”.
Uno stile missionario secondo il cuore di Cristo
99. La formazione degli “operai del
Vangelo” si radica in profondità e raggiunge il suo vertice quando fa della
“coscienza di essere chiamati e mandati” dal Signore il principio interiore che
plasma e vivifica i loro pensieri, sentimenti e gesti concreti, in una parola
il loro stile di vita. È lo stile proprio del “discepolo”, di colui che
deve imitare e rivivere lo stile stesso di Gesù Cristo, il missionario
del Padre.
Gesù ha voluto delineare
personalmente le attitudini del cuore e le condizioni di vita di colui che egli
manda ad annunciare il suo Vangelo. Egli, infatti, in-viando i suoi discepoli
in missione durante il suo ministero in Galilea, indica loro l’atteggiamento e
il comportamento che devono assumere: una specie di “carta d’identità” dei
missionari del Vangelo, perché riproducano sul loro volto, luminosi e
affascinanti, i tratti del volto di chi li invia. In realtà, i tre evangelisti
sinottici, mentre riferiscono le parole di Gesù (cfr. Matteo 10, 1-15; Marco
6, 6-13; Luca 9, 1-6; 10, 1-12), hanno davanti agli occhi l’azione
missionaria delle prime comunità cristiane e sono portati a vedere in questa
prima missione dei discepoli nei villaggi della Galilea, se non proprio il
fondamento, almeno il “paradigma” di ogni successiva missione della Chiesa.
Anche la nostra, dunque.
100. Marco, nella sua descrizione,
inizia parlando di Gesù: «Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando.
Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli…» (Marco 6, 6-7). Egli
va: in questo senso la sua casa è la strada. Egli va instancabilmente: così
facendo, testimonia il suo amore che cerca tutti, senza posa. Gesù, dunque, fa
in prima persona ciò che poi comanda. In tal senso, i missionari sono coloro
che seguono, che imitano il Signore Gesù. Sono i suoi discepoli, più
precisamente i discepoli che da lui sono chiamati. Scrive Luca: «Il
Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò…» (Luca
10, 1). Chiamati da Gesù, i discepoli sono da lui mandati.
Eccoci, allora, di fronte al dono
di una grazia e all’affidamento di un compito. I missionari non
vanno di loro iniziativa, ma in quanto chiamati e mandati da Gesù, anzi in
quanto sono resi partecipi del potere che egli ha ricevuto dal Padre.
Troviamo qui indicata
un’attitudine di base, nuova, originale e assolutamente necessaria per gli
“operai del Vangelo”: la consapevolezza gioiosa e grata che il vero,
grande, unico Missionario del Vangelo è il Signore Gesù. È il protagonista
insuperabile, perché è unico. Il discepolo è missionario solo e sempre perché
“chiamato” per pura grazia a “partecipare” alla missione di Gesù. Prende così
pienezza di significato la parola del Signore: «Gratuitamente avete ricevuto…»
(Matteo 10, 8).
È questa la coscienza di cui vibra
la Chiesa delle origini: lo Spirito Santo, come dono di Cristo morto e
risorto, è «l’agente principale dell’evangelizzazione» e lo è a tal
punto che, senza la sua opera, «l’evangelizzazione non sarà mai possibile» (Evangelii
nuntiandi, 75). In lui e per lui, Cristo è presente nel cuore di chi
annuncia e di chi accoglie il Vangelo e sa operare prodigi: «Allora essi
partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro
e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Marco 16,
20).
Avere sempre limpida e fresca la
coscienza della presenza di Gesù e del suo Spirito – e ciò è possibile solo
coltivando la preghiera e la santità della vita – è fonte di fiducia
incrollabile, di straordinaria audacia e di indomito coraggio nell’annuncio del
Vangelo. Come diceva il Papa ai sacerdoti della Diocesi di Roma il 26 febbraio
1998: «Lo Spirito Santo non solo ci accompagna, ci guida e ci sostiene nel
cammino della missione. Egli anche e anzitutto ci precede. Lo Spirito, infatti,
è misteriosamente presente e operante nel cuore, nella coscienza e nella vita
di ogni donna e di ogni uomo… Quando bussiamo alla porta di una casa, o alla
porta di un cuore, lo Spirito ci ha già preceduto e l’annuncio di Cristo potrà
forse risuonare nuovo all’orecchio di chi ci ascolta, ma non potrà mai
risuonare estraneo al suo cuore. Nutrire pessimismo circa la possibilità o
l’efficacia della missione sarebbe dunque, cari fratelli, in certo senso un
peccato contro lo Spirito Santo, una mancanza di fiducia nella sua presenza e
nella sua azione».
101. «Ed incominciò a mandarli a due a
due» (Marco 6, 7; cfr. Luca 10, 1). In questo contesto, il “due”
è un numero ricco di significato. Dice il camminare, anzi l’essere insieme;
parla di aiuto reciproco; è testimonianza viva di quell’amore che, prima di
essere proclamato, deve essere vissuto. Il “due” dice l’inizio di una realtà
più grande: è il germe della comunità.
La missione ha
essenziale e irrinunciabile bisogno di comunione. E, reciprocamente,
la comunione è non solo al servizio della missione, ma costituisce
il fine e in un certo senso la sostanza stessa della missione. Sì,
perché la comunione è evangelizzazione: “dice” chi è Gesù; “dice” chi è
il discepolo di Gesù.
È quanto emerge dalla “preghiera
sacerdotale” di Gesù: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in
noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Giovanni
17, 21). Questa singolarissima unità dei discepoli è veramente inimmaginabile
dalla mente e indesiderabile dal cuore dell’uomo, perché è partecipazione
misteriosa ma reale dell’unità che costituisce lo stesso “segreto” dell’intimo
rapporto tra il Padre e il Figlio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano
anch’essi in noi una cosa sola». Una simile unità non può
non essere una formidabile forza missionaria: «perché il mondo creda che tu
mi hai mandato». È dunque la comunione dei discepoli a rivelare, a dire, ad
annunciare il mistero stesso di Dio, quel rapporto eterno tra Padre e Figlio
che racchiude e sprigiona nel tempo la “missione” di Gesù fra noi, la missione
del Figlio che si fa carne per la nostra salvezza.
Citando questo passo,
l’Esortazione Christifideles laici conclude: «Così la vita di
comunione ecclesiale diventa un segno per il mondo e una forza
attrattiva che conduce a credere a Cristo… In tal modo la comunione si apre
alla missione, si fa essa stessa missione» (n. 31). È “segno e forza”:
sono parole che alludono chiaramente al concetto di “sacramento”, di un segno
efficace, che manifesta e insieme comunica. Non c’è modo più eloquente e
pregnante per dire la carica missionaria che è insita nella comunione. La
comunione, inoltre, «si apre alla missione»: è, dunque, finalizzata alla
missione stessa. Per questo, può e deve trovare nella missione le motivazioni e
i criteri delle forme concrete del suo realizzarsi. Nella Chiesa si è in
comunione “per” la missione!
La comunione può adeguatamente
servire la missione evangelizzatrice se si presenta, insieme, come comunione
sincera dei cuori e come comunione di opere. La
prima, che si radica e si alimenta in una vera e propria spiritualità (cfr. Novo
millennio ineunte, 43), nasce e cresce con una serie di attitudini
virtuose, tra le quali spiccano l’umiltà, il perdono e la stima
reciproca. Queste sono talmente importanti e decisive che la loro assenza o
insufficienza fa morire o compromette la comunione stessa. Circa poi la stima
vicendevole riascoltiamo l’appello di Paolo: «Gareggiate nello stimarvi a
vicenda» (Romani 12, 10). Ci è chiesto non solo di avere stima gli uni
degli altri. Ci è chiesto molto di più: di impegnarci in una specie di vera e
propria “gara” in questa avventura spirituale, faticosa sì, ma generatrice di
freschezza, di unità e di gioia.
Quanto poi alla comunione delle
opere, basta ricordare che sarà il senso vivo e profondo della nostra
comune appartenenza all’unica Chiesa e alla sua identica missione a far nascere
e sviluppare sia la corresponsabilità sia la compartecipazione concreta
all’annuncio del medesimo Vangelo. È in questa comunione ecclesiale che – tra i
presbiteri, tra le persone consacrate e tra i fedeli laici, come pure nei loro
rapporti vicendevoli – deve trovare spazio l’impegno quotidiano umile, paziente
e generoso per realizzare rapporti veramente “ecclesiali”, ossia “fraterni”,
nella vita di tutti i giorni e nelle loro opere al servizio del Vangelo:
«perché il mondo creda»!
Con questa “spiritualità di
comunione” si potranno vivere, in modo corretto e cordiale, le relazioni che,
proprio in ordine alla missione, devono svilupparsi tra le stesse comunità
ecclesiali (parrocchie, unità pastorali, decanati, zone) e tra i diversi
gruppi, associazioni e movimenti. È semplice traduzione del precetto evangelico
dire: Ama la parrocchia altrui come la tua! Ama la realtà aggregativa
altrui come la tua! In questa stessa linea, si dovrebbe continuare
affermando l’esigenza di inserire – secondo verità e carità – il bene della
comunione nei rapporti ecumenici e nel dialogo interreligioso.
Sempre «perché il mondo creda»!
102. Un altro fondamentale aspetto
dello stile cristiano del missionario del Vangelo è l’essenzialità, la
sobrietà, la povertà nel cibo, nel vestito, nelle esigenze quotidiane e
nelle relazioni interpersonali: «E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero
nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati
solo i sandali, non indossassero due tuniche» (Marco 6, 8-9).
«E ordinò loro»: è la prima volta,
in Marco, che Gesù comanda qualcosa e non si limita a consigliare. Come a dire
che è solo l’obbedienza a Gesù che giustifica e rende possibile la missione
in povertà.
«Non portare nulla»: dunque
distacco pieno dalle cose, povertà totale. Ma una povertà che è frutto
e segno di una grande libertà interiore: quella libertà che ha in sé
l’energia di superare ogni possibile preoccupazione terrena, perché emerga e
domini l’unica, vera, grande “passione” alla quale il missionario obbedisce, la
passione di annunciare – senza ostacoli e freni di qualsiasi genere – il
Vangelo, la lieta notizia del Regno di Dio. Nulla, in realtà, è più importante
e prioritario del Regno! Solo il Regno è il fatto decisivo per eccellenza:
tutte le altre cose passano in secondo piano!
La povertà che il Signore richiede
al missionario non può non interpellarci, sempre e in un modo più forte nelle
attuali situazioni segnate dalla cultura consumistica, proprio in ordine alla
credibilità e all’efficacia dell’annuncio del Vangelo. Solo una Chiesa
povera è pienamente libera, e solo una Chiesa libera è veramente missionaria!
E questo diciamo non solo dei singoli membri della Chiesa, ma anche delle
singole comunità cristiane: delle nostre stesse parrocchie e realtà di Chiesa.
In questo senso, non basta che la Chiesa sia attenta e sollecita verso i
poveri. Deve passare da una “Chiesa per i poveri” a una “Chiesa povera”,
nel senso evangelico del termine: povera perché non s’aggrappa ai potenti di
questo mondo; povera perché pronta a disfarsi di inutili pesi; povera perché
consapevole che il segreto della propria forza è la grazia di Dio; povera
perché capace di usare mezzi umani con distacco e libertà. Come diceva il
cardinale Roger Etchegaray al Concistoro straordinario dei Cardinali il 21
maggio 2001, «Tocchiamo qui forse la questione più provocante, la più urgente
per l’evangelizzazione del nuovo millennio. Solo una Chiesa povera può
diventare una Chiesa missionaria e solo una Chiesa missionaria può esigere una
Chiesa povera».
È questa l’indicazione precisa, la
consegna solenne che Paolo VI rivolgeva alla Chiesa, «come una confidenza del
cuore, che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare»,
concludendo il suo Pensiero alla morte: «E alla Chiesa, a cui tutto devo
e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza
della tua natura e della tua missione: abbi il senso dei bisogni veri e
profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa
verso Cristo».
Questo non è un discorso astratto,
lontano dalla vita. Al contrario ci sollecita, tutti insieme, a un serio
esame di coscienza, che ci aiuti a convertirci, a individuare e a mettere
in atto risoluzioni concrete. Proprio in questa linea il cardinale Carlo Maria
Martini, in Partenza da Emmaus, scriveva: «Lo stile di povertà impone la
sobrietà nel dotarci di mezzi e strutture pastorali, l’esempio rigoroso di
povertà personale, l’amministrazione dei beni comunitari veramente finalizzata
alla carità, lo scambio anche di beni economici tra persone e comunità in vista
di una giusta perequazione dei beni personali e comunitari» (n. 23).
103. Altri elementi irrinunciabili
dello stile missionario evangelico sono il coraggio e la franchezza
(parresìa) di annunciare – in libertà di parola – il Signore Gesù e il suo
Vangelo, l’audacia e la disponibilità all’incomprensione, all’odio,
all’emarginazione, al rifiuto, e dunque alla persecuzione e al
martirio: «Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno…» (Marco
6, 11). Gesù, che dice: «Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi»
(Luca 10, 3), prevede il rifiuto. Egli per primo è stato rifiutato. La
stessa triste esperienza potrà verificarsi anche per il discepolo. Questi deve
proclamare il messaggio con generosità eroica, ma deve lasciare a Dio il
risultato: perché al discepolo è stato affidato un compito, non garantito il
successo. Senza dire, peraltro, che il rifiuto che accompagna la missione, non
distrugge, anzi realizza il Regno. Non è forse questa la logica del seme che
porta frutto solo se è gettato e muore (cfr. Giovanni 12, 24)?
Nel sopportare contrasti e rifiuti
da parte dell’ottusità od ostilità degli ascoltatori, come da parte della
prepotenza e oppressione delle autorità, anzi nell’aspettarsi dolori e
persecuzioni, i discepoli non devono aver paura, perché lo Spirito parlerà in loro
(cfr. Matteo 10, 19-20) e il Padre li custodirà (cfr. Matteo 10,
24-31). Unica deve essere la loro preoccupazione: essere fedeli pubblicamente e
coraggiosamente alle esigenze radicali del Vangelo e alla croce di Gesù (cfr. Matteo
10, 32-39). Certo, i discepoli possono essere richiesti di pagare un “prezzo”
per il Vangelo: il prezzo della sofferenza e persino della morte. Ma è sempre
possibile, per grazia, una coesistenza tra la persecuzione e la serenità
interiore, anzi la stessa gioia.
104. Anche la gioia spirituale
è una componente ineliminabile dello stile del discepolo missionario.
Non è senza significato che Luca riferisca questa esperienza dei settantadue
discepoli al ritorno della missione ricevuta da Gesù: «I settantadue tornarono
pieni di gioia dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo
nome”. Egli disse loro: “…Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono
a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”» (Luca
10, 17-20).
Accogliamo l’invito e l’augurio di
Paolo VI: «Conserviamo il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e
confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime.
Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per
gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo
il corso della storia della Chiesa – uno slancio interiore che nessuno, né
alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia delle nostre vite
impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora
nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e
scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del vangelo, la cui vita
irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e
accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato
e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (Evangelii nuntiandi,
80).
Questo che abbiamo sinora
descritto è lo stile missionario secondo il cuore di Cristo. È un ideale
normativo nel quale fissare continuamente il nostro sguardo, nel senso più
radicale e impegnativo, quello della conversione spirituale e pastorale. È
una conversione che certamente tocca le stesse comunità, ma che, in definitiva,
interpella e coinvolge sempre la singola persona. Non ci sarà
l’auspicato, anzi il necessario rinnovamento missionario della Chiesa, delle
nostre comunità cristiane, se non ci sarà quello di ciascuno di noi, con tutto
il peso e l’onore di una responsabilità personale insostituibile e
indelegabile.
Imploriamo dal Signore la grazia
di questa conversione! Con fiducia umile e salda, chiediamo a lui che, tra il
dono e il compito missionari che ci affida e la fragile libertà umana di
ciascuno di noi che gli risponde, non prevalgano mai la nostra infedeltà e la
nostra miseria di uomini “plasmati di polvere”. Prevalgano sempre la sua
fedeltà e la sua grandezza misericordiosa. Vinca la sua salvezza come “lieta
notizia” per noi e per tutti. Sia, ancora e sempre, il suo Vangelo a correre
per le strade del mondo e a ricreare in novità il cuore di ogni uomo.
Conclusione
Si
mise in viaggio verso la montagna…
Maria, icona vivente della Chiesa in missione
105. Nello
stendere queste pagine, mi è tornato spesso il pensiero – che si faceva
preghiera – alla Madonna. E mi è venuto spontaneo rivederla in viaggio verso la
casa di Elisabetta: un viaggio umano e spirituale che – alla mia mente e al
mio cuore – presentava sempre più una singolare corrispondenza con quanto
andavo scrivendo su “il volto missionario della Chiesa di Milano”. Maria mi si
delineava, con tratti splendidi e avvincenti, come “icona vivente della Chiesa
in missione”.
Ecco, a mo’ di conclusione, alcuni
spunti meditativi, che hanno attraversato il mio animo. Li offro con grande
semplicità a quanti vorranno leggere questo Percorso pastorale diocesano, nella
gioiosa consapevolezza che Maria cammina con noi,
perché è parte viva e membro «sovraeminente e del tutto singolare» del Popolo
di Dio, e che, anzi, Maria cammina davanti a noi, perché è
«figura della Chiesa», è «l’esemplare incomparabile e perfetto» della vita e
della missione della Chiesa; di più, è la madre che genera i cristiani e li
conduce alla perfezione della carità (cfr. Lumen gentium, 63-65).
106. «In quei giorni Maria si mise in
viaggio verso la montagna…» (Luca 1, 39). Il viaggio non è casuale. Non
nasce dalla semplice iniziativa di questa «vergine, promessa sposa di un uomo
della casa di Davide, chiamato Giuseppe» (Luca 1, 27). Esso scaturisce
da un precedente viaggio: quello di Dio che esce dalla sua beata
eternità per entrare nel nostro tempo, che lascia il cielo per discendere sulla
terra. È il viaggio dell’Incarnazione, il percorso misterioso e
mirabile di Dio che si fa uomo. E la prima tappa è a Nazaret, nel grembo e nel
cuore della vergine Maria. A lei l’angelo dice: «Lo Spirito Santo scenderà su
di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà
sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Luca 1, 35).
Maria, a sua volta, dà inizio a un’altra
tappa. Lasciando Nazaret per portarsi in una città di Giuda, ella – in
un certo senso – prosegue e quasi “fa vedere”, nell’incontro e nel dialogo con
Elisabetta, il viaggio del Signore. Nello stesso tempo, quello di Maria diventa
l’anticipazione e il modello di un grande e inarrestabile viaggio che si
snoderà, giorno dopo giorno, su tutte le strade del mondo: è il percorso
missionario della Chiesa e dei cristiani. Come «il Signore
Dio d’Israele» in Cristo «ha visitato» il suo popolo (Luca 1, 68) e come
Maria «ha visitato» Elisabetta e «il bambino» che «le sussultò nel grembo» (Luca
1, 41), così la Chiesa continua nel tempo a “visitare” ogni uomo bisognoso
della salvezza di Dio.
Maria, nella descrizione
dell’evangelista, sembra essere sola nell’affrontare il viaggio «verso la
montagna». In realtà, sola non è. Con lei c’è il Signore! In lei
è presente e vive, fatto carne umana, il Figlio eterno di Dio.
Così pure è del viaggio
missionario della Chiesa: c’è sempre il Signore, lui che invia i suoi
discepoli, li guida, li accompagna. E assicura loro la sua permanente e immancabile
presenza: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo» (Matteo 28, 20).
Quella del Signore è sempre una
presenza operosa, sorgente di prodigi, come ci ricorda Marco: «Allora essi
partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro
e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Marco 16,
20).
Esattamente come è avvenuto nella
casa di Zaccaria, nell’incontro tra le due madri e i due figli. E come avviene
in ogni incontro tra il Vangelo annunciato e l’uomo chiamato alla fede.
Maria «raggiunse in fretta una
città di Giuda». Quale città? Si tratta, forse, del delizioso villaggio di Ain
Karim, ora divenuto un sobborgo di Gerusalemme, distante circa centocinquanta
chilometri da Nazaret. Come non pensare che, soprattutto allora, per una
fanciulla più o meno adolescente un viaggio così lungo e faticoso doveva
significare un uscire dal proprio piccolo paese per spaziare nel mondo,
in un mondo sconosciuto? A Maria quel viaggio verso la montagna doveva sembrare
davvero un “andare in capo al mondo”!
Quasi un simbolo di quella
missione della Chiesa, che Gesù ha voluto veramente estendere a tutto il mondo:
«Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli
estremi confini della terra» (Atti 1, 8).
107. Quello di Maria è realmente un viaggio
missionario, nel senso che abbiamo illustrato in tutte le pagine
precedenti: un viaggio di annuncio del Vangelo e di trasmissione
della fede. Maria, infatti, accoglie dall’angelo la “lieta
notizia”: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco
concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e
chiamato Figlio dell’Altissimo…» (Luca 1, 30-32). E all’annuncio ella dà
la risposta della fede: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me
quello che hai detto» (Luca 1, 38).
È proprio questa fede che spinge
Maria ad alzarsi e a mettersi in viaggio, obbedendo prontamente all’indicazione
dell’angelo: «Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha
concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano
sterile: nulla è impossibile a Dio» (Luca 1, 36-37). Ed è ancora la fede
che Elisabetta, «piena di Spirito Santo», riconosce in Maria e per la quale la
proclama beata: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del
Signore» (Luca 1, 45).
È sempre così: «La missione è un
problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore
per noi» (Redemptoris missio, 11). Solo la Parola accolta nella
fede suscita nel credente il bisogno di portarla agli altri, come luce «per
rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte» (Luca
1, 79).
108. La fede, per pura
grazia di Dio, ha il suo preziosissimo frutto: è Gesù stesso. Sì,
frutto della carne verginale di Maria, ma anche e innanzitutto – come non si
stancano di cantare i Padri della Chiesa – frutto della sua fede: «Maria, se fu
beata per aver concepito il corpo di Cristo – scrive sant’Agostino –, lo fu
maggiormente per aver accettato la fede nel Cristo… Di nessun valore sarebbe
stata per lei la stessa divina maternità, se lei il Cristo non l’avesse portato
nel cuore, con una sorte più fortunata di quando lo concepì nella carne» (La
Santa Verginità, 3, 3). Frutto, dunque, della fede amorosa e
della carne verginale di Maria è Gesù concepito, portato in grembo e “donato”
da lei, la Madre, a Elisabetta e al figlio che è in attesa di nascere.
Luca è esplicito al riguardo:
«Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra
le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio
Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei
orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”» (Luca 1,
41-44).
Proprio questo sussultare ed
esultare di gioia è il “segno” che Gesù, portato da Maria, è entrato in
comunione con il nascituro Giovanni Battista e si è donato a lui come sorgente
di grazia e di santificazione. Lo ricorda in un suo bellissimo testo
sant’Ambrogio: «Si vedono subito gli effetti benefici della venuta di Maria e
della presenza del Signore… Elisabetta per prima intese la voce [di Maria], ma
Giovanni fu il primo a sperimentare la grazia: quella intese nell’ordine della
natura, questi esultò per effetto del mistero, quella avvertì la venuta di
Maria, questi la venuta del Signore, la donna avvertì quella dell’altra donna,
il figlio quella dell’altro figlio; queste parlano parole di grazia, quelli la
esercitano restando nascosti; e danno inizio al mistero della pietà facendone
profittare le loro madri, mentre queste, con duplice prodigio, profetizzano
nello spirito dei loro figli. Il bambino esultò, e la madre fu ripiena dello
Spirito: né la madre fu ripiena prima del figlio, ma essendo il figlio ripieno
dello Spirito Santo, ne ricolmò anche la madre» (Esposizione del Vangelo
secondo Luca, II, 22-23).
Siamo veramente al “cuore”
della missione evangelizzatrice. Questa è sì annuncio del Vangelo, ma più
precisamente è comunicazione-donazione del Vangelo vivente e
personale che è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, Figlio del Padre e
figlio della Vergine, unico, universale e necessario Salvatore dell’uomo e del
mondo.
L’opera missionaria, nella sua
verità intera, originale e sorprendente, è una vera e propria “generazione”,
come del resto affermava l’apostolo Paolo: «Sono io che vi ho generato in
Cristo Gesù, mediante il Vangelo» (1 Corinzi 4, 15); «Figlioli
miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in
voi!» (Galati 4, 19). E si tratta, da parte della Chiesa in missione, di
una gratuita, misteriosa, ma reale “partecipazione” alla maternità stessa di
Maria.
109. Alla radice dell’evangelizzazione
stanno la presenza e l’impulso dello Spirito Santo. Se
Maria, messasi in viaggio verso la montagna, «raggiunse in fretta» la meta, lo
dobbiamo non semplicemente al suo amore pronto e premuroso verso una parente
bisognosa, quanto all’accendersi nel suo cuore di un fuoco nuovo, quello dello
Spirito. Interessante è il commento di sant’Ambrogio su questo “affrettarsi” di
Maria verso la montagna: «Dove – si chiede –, se non verso le cime, doveva
tendere premurosamente colei che già era piena di Dio?». E subito risponde,
indicando la molla di simile dinamismo: «La grazia dello Spirito Santo non
conosce ostacoli, che ritardino il passo» (Esposizione del Vangelo
secondo Luca, II, 19). È per opera dello Spirito che Maria concepisce il
Figlio di Dio; è sempre per opera del medesimo Spirito che lo porta e lo dona a
Elisabetta e al Battista.
E da sempre, come testimonia la
Pentecoste, la missione evangelizzatrice della Chiesa – il suo donare Cristo al
mondo – scaturisce dal vento e dal fuoco dello Spirito. È questa la promessa di
Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete
testimoni…» (Atti 1, 8). Ed è questo il compimento della promessa: «Essi
furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue
come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi» (Atti 2, 4).
Proprio in riferimento a
quest’ultimo passo, Giovanni Paolo II, nell’omelia tenuta a Milano, al
Gallaratese, il 22 maggio 1983, diceva: «Con questo dono delle lingue è entrato
nel cenacolo il mondo degli uomini, che parlano le varie lingue, ed ai quali
bisogna parlare in varie lingue per essere compresi nell’annuncio delle “grandi
opere di Dio” (At 2, 11). Dunque, nel giorno della Pentecoste è nata la
Chiesa, sotto il po-tente soffio dello Spirito Santo. Essa è nata, in un cer-to
senso, in tutto il mondo abitato dagli uomini, che parlano diverse lingue. È
nata per andare in tutto il mondo… È nata perché, ammaestrando gli uomini e le
nazioni, essa nasca sempre di nuovo mediante la parola del Vangelo».
Sorgente e forza della missione
evangelizzatrice è lo stesso Spirito che, alla vigilia della Pentecoste, è
stato implorato dalla preghiera di Maria (cfr. Atti 1, 14) e che da lei
viene continuamente richiesto per la Chiesa nel suo annuncio di salvezza
rivolto senza posa a tutti gli uomini.
110. Il brano evangelico di Luca pone in luce altri
aspetti della fede di Maria, che si possono immediatamente collegare a quella
“totalità unificata” di cui più volte abbiamo parlato: la fede è autentica e
coerente con la sua intima natura solo se è, inscindibilmente, fede confessata-celebrata-vissuta.
Proprio questo triplice valore emerge luminoso dal “viaggio missionario” di
Maria alla parente Elisabetta.
La vergine madre “confessa” la sua
fede in Dio, riconoscendo di essere «la serva del Signore» (Luca 1, 38);
accogliendo da Elisabetta la rivelazione della maternità inimmaginabile che le
è stata donata: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (Luca
1, 43); proclamando la grandezza e la misericordia di Dio e delle sue opere,
non solo nei riguardi dell’umile sua serva, ma anche nei riguardi delle vicende
storiche di Israele e dell’umanità: «Allora Maria disse: “…Grandi cose ha fatto
in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua
misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo
braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore…”» (Luca 1,
46.49-51).
Maria, inoltre, testimonia una
fede nel Signore che si fa vera e propria “celebrazione” con il canto di
esultanza, di gratitudine e di lode del Magnificat: «L’anima mia
magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore…» (Luca
1, 46-47).
Quella di Maria, infine, è una
fede “vissuta” mediante il “sì” della libera e totale consegna di se stessa al
disegno di Dio sulla propria esistenza: «avvenga di me quello che hai detto» (Luca
1, 38) e mediante il servizio premuroso e generoso della carità nella casa di
Elisabetta: «Maria rimase con lei circa tre mesi» (Luca 1, 56).
La fede di Maria, possiamo dire, non
appartiene solo a lei. È diventata un dono e un bene disponibili per tutti
coloro che Gesù, dall’alto della croce, ha affidato come figli alla sua
maternità di grazia (cfr. Giovanni 19, 26). Alla Chiesa viene data così
la grazia di prendere parte alla fede di Maria e, in questo modo, di
condividere la sua stessa “maternità”. Lo afferma il Concilio, scrivendo: «La
Chiesa, contemplando l’arcana santità di Maria, imitandone la carità e
adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio
accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il
battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello
Spirito Santo e nati da Dio» (Lumen gentium, 64).
In questo senso, si deve dire che la
missionarietà della Chiesa, come grazia e responsabilità di annunciare e
donare Gesù Cristo al mondo, trova principio, esempio e stimolo –
anche e in particolare – nella grande fede di Maria, la Vergine Madre:
«Anche nella sua opera apostolica la Chiesa giustamente guarda a colei che
generò Cristo, il quale fu concepito di Spirito Santo e nacque dalla Vergine,
per poter poi nascere e crescere per mezzo della Chiesa anche nel cuore dei
fedeli. La Vergine infatti nella sua vita fu il modello di quell’amore materno,
del quale devono essere animati tutti quelli che nella missione apostolica
della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini» (Lumen gentium,
65).
Carissimi fratelli e
sorelle nel Signore,
non manchi mai la nostra fervida preghiera
a Maria, Madre di Cristo e della Chiesa, perché, sul suo esempio
e con la sua grazia, possiamo quotidianamente crescere nella fede, così da
poterla testimoniare e annunciare a tutti con sempre rinnovato fervore e
slancio missionario.
E sant’Ambrogio, patrono della
nostra Chiesa, ci doni di condividere con lui la gioia e lo stupore della
“beatitudine” della fede: «Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì
creduto, e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. Beata tu che
hai creduto. Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti,
ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio, e ne comprende le
operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in
ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio; se, secondo la carne, una sola
è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo» (Esposizione
del Vangelo secondo Luca, II, 26).