Mi sarete testimoni - Capitolo settimo   

Mi sarete testimoni - Capitolo settimo   

Capitolo settimo

 

E come potranno credere…

senza uno che lo annunzi?

Gli “operai del Vangelo”

in una Chiesa tutta missionaria

 

 

83.   L’evangelizzazione e la trasmissione della fede sono di una gravità unica, dal momento che riguardano la “salvezza” e, dunque, la riuscita o il fallimento della vita stessa. Riguardano la salvezza, nel senso che questa “deriva” dalla fede. Ce lo ricorda con estrema chiarezza san Paolo: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo… Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (Romani 10, 9.13).

Non c’è salvezza senza fede! È parola di Gesù: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Marco 16, 16).

Ma la fede esige l’evangelizzazione. È ancora Paolo a ricordarcelo con una logica rigorosa e inequivocabile, con una serie di domande che scandiscono i diversi passaggi obbligati di questa che è l’avventura decisiva per l’uomo: «Ora, come potranno invocarlo, senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?» (Romani 10, 14-15).

Non c’è fede senza evangelizzazione! E ancora: non c’è evangelizzazione senza missione, senza essere inviati. L’evangelizzazione nasce da un mandato. Come scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nessuno, né individuo né comunità, può annunziare a se stesso il Van-gelo… Nessuno può darsi da sé il mandato e la missione di annunziare il Vangelo. L’inviato del Signore parla e agisce non per autorità propria, ma in forza dell’autorità di Cristo…» (n. 875).

 

Ci soffermiamo ora a considerare i soggetti attivi e responsabili dell’evangelizzazione: gli evangelizzatori, gli “operai del Vangelo”, coloro che proprio per l’annuncio della “Buona Notizia” sono stati mandati.

Ci preme, da subito, rilevare un aspetto essenziale che segna in profondità la missione di evangelizzare e trasmettere la fede: essa è una “grazia”, qualcosa dunque di bello, di grande, di gioioso. È ancora Paolo a esclamare: «Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!» (Romani 10, 15). All’estrema serietà di un’evangelizzazione e trasmissione della fede, che pongono la fondamentale e decisiva questione della salvezza, fanno sorprendente riscontro l’immensa grazia e la straordinaria fortuna di essere inviati come messaggeri di «un lieto annunzio di bene».

 

Nella Chiesa tutti e ciascuno sono inviati

 

84.   Ma chi è inviato? È la Chiesa intera, in tutti e in ciascuno dei suoi membri. Vogliamo sostare su questa verità, di fronte al facile rischio di darla per ovvia e scontata e, quindi, di non coglierla nella particolare ricchezza del suo contenuto.

«E come potranno credere… senza uno che lo annunzi?… senza essere prima inviati?». Queste parole riguardano la Chiesa intera: è lei, Sposa di Cristo e Madre dei cristiani, la comunità evangelizzante, la comunità mandata dal Signore. Essa è sempre presente e operante quando viene annunciato il Vangelo. È la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. È la realtà spirituale e visibile, che si ritrova nella Chiesa particolare e nelle comunità parrocchiali e, analogamente, nelle diverse realtà e aggregazioni ecclesiali.

Sì, la realtà della Chiesa intera è qualcosa di estremamente concreto e vivo, che ci tocca comunitariamente e personalmente. In questo senso, le parole di Paolo riguardano tutti e ciascuno nella Chiesa. Siamo così invitati a cogliere immediatamente, tra gli altri, due aspetti di singolare importanza per la nostra vita e missione nella Chiesa.

Fondamentale è, innanzitutto, la “coscienza di Chiesa” di cui devono essere nutriti tutti i cristiani nell’annunciare il Vangelo. Essi non possono agire che in conformità con la loro identità profonda di “membri della Chiesa”, come coloro cioè che sono inseriti vitalmente nel mistero stesso della Chiesa e che partecipano, a loro modo e misura, alla grazia e alla responsabilità che Gesù Cristo dona alla Chiesa, costituendola “comunità di evangelizzazione e di trasmissione della fede”. E ciò vale di ogni singolo membro della Chiesa, come scrive il beato Isacco della Stella: «Anche la singola anima fedele può essere considerata come sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, vergine e feconda» (Discorso 51).

È da sottolineare, inoltre, il fatto che la chiamata e il compito di evangelizzare e trasmettere la fede sono, nella Chiesa, universali ma insieme individuali. Toccano “tutti”, senza esclusione di nessuno. Nello stesso tempo, toccano “ciascuno” nella propria unicità e irripetibilità. Ciò significa che, nella Chiesa, nessuno ha una posizione solo recettiva, perché tutti danno e ricevono, ricevono e danno. Ciò significa, poi, che ciascuno è necessario e, in un certo senso, insostituibile.

 

Ogni singolo cristiano deve essere sempre cosciente che il suo compito non può essere delegato ad altri, ma deve essere assunto e vissuto come assolutamente indispensabile per il bene di tutti. Ciascuno di noi – bambino o anziano, sano o malato, dotto o incolto, stimato o emarginato, eccetera – è chiamato per nome, con il proprio inconfondibile nome, nella singolarità della sua persona e della sua storia individuale, a portare il proprio contributo per l’avvento del Regno di Dio. È questa la volontà del Signore, la sua grazia!

Per ciascuno di noi sta l’entusiasmante verità che Paolo ci ricorda: «E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune…»; è «l’unico e il medesimo Spirito che opera [queste manifestazioni], distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Corinzi 12, 7.11). A sua volta, san Pietro inchioda la responsabilità di ognuno di noi con il monito: «Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio» (1 Pietro 4, 10).

È sempre e solo la libertà del singolo individuo a essere interpellata, senza possibilità di deleghe o alibi: quanto vale nel rapporto di ciascuna persona con Dio vale anche nel rapporto di ciascun cristiano con la Chiesa.

Ciò pone in luce l’assoluta necessità e insostituibilità dell’impegno personale di ogni cristiano nell’evangelizzare e trasmettere la fede (cfr. Apostolicam actuositatem, 16). Certamente la Chiesa conosce anche l’impegno della comunità come tale, nelle sue diverse articolazioni. Nasce così, pure necessario e insostituibile, l’apostolato associato. Ma non c’è dubbio che quello personale possiede alcune ricchezze e potenzialità proprie e peculiari di grande significato per il dinamismo missionario della Chiesa. Come ci ricorda il Papa nell’Esortazione Christifideles laici, «Con tale forma di apostolato, l’irradiazione del Vangelo può farsi quanto mai capillare, giungendo a tanti luoghi e ambienti quanti sono quelli legati alla vita quotidiana e concreta dei laici. Si tratta, inoltre, di un’irradiazione costante, essendo legata alla continua coerenza della vita personale con la fede; come pure di un’irradiazione particolarmente incisiva, perché, nella piena condivisione delle condizioni di vita, del lavoro, delle difficoltà e speranze dei fratelli, i fedeli laici possono giungere al cuore dei loro vicini o amici o colleghi, aprendolo all’orizzonte totale, al senso pieno dell’esistenza: la comunione con Dio e tra gli uomini» (n. 28).

 

Il modo “proprio e peculiare” dei laici,

dei consacrati e delle famiglie di essere

Chiesa immersa nel mondo a servizio del Regno

 

85.   Riproponiamo la domanda iniziale: qual è questa Chiesa mandata dal Signore risorto a portare a tutti il suo Vangelo che libera e salva? È la Chiesa immersa nel mondo a servizio del Regno.

Nella preghiera dell’ultima cena, Gesù stesso dipinge il volto della sua Chiesa – vedendolo riflesso nei suoi discepoli –, tratteggiandone due lineamenti fondamentali: la presenza nel mondo e la non appartenenza ad esso. Così egli prega: «Io non sono più nel mondo; essi [i discepoli] invece sono nel mondo… Il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Giovanni 17, 11.14). E, ancora, prega il Padre di far sì che i suoi discepoli siano là dove è lui, nella contemplazione della sua gloria (cfr. Giovanni 17, 24).

Emergono così, nell’unica e indivisibile Chiesa, due “dimensioni”: quella dell’essere “nel” mondo, o secolarità, e quella del non essere “del” mondo, o dimensione escatologica. Sono dimensioni che segnano in profondità la realtà della Chiesa come tale e che, di conseguenza, si ritrovano in tutti e in ciascuno dei suoi membri, caratterizzando il loro essere e agire e, pertanto, la loro missione di evangelizzare e trasmettere la fede.

Tutti nella Chiesa sono coinvolti nella duplice dimensione secolare ed escatologica: i sacerdoti, le persone consacrate, i fedeli laici; tutti abilitati e impegnati a operare nella missione evangelizzatrice della Chiesa. Ma come? In quali forme? Con quali posti e compiti? È proprio l’attenta considerazione delle dimensioni della Chiesa ad aiutarci a cogliere, secondo il disegno stesso di Gesù, l’ordine, il posto e il significato dei molteplici e diversi “operai del Vangelo”.

 

86.   La Chiesa «ha – come diceva Paolo VI – un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo Incarnato, e che è realizzata in forme diverse per i suoi membri» (Discorso ai membri degli Istituti Secolari, 2 febbraio 1972).

La forma “propria e peculiare” di partecipazione alla dimensione secolare della Chiesa è quella dei fedeli laici che, in tal modo, sono distinti, anche se non separati, dagli altri membri della Chiesa. È questo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che con formula sintetica afferma: «L’indole secolare è propria e peculiare dei laici» (Lumen gentium, 31). E così spiega: la condizione secolare, che caratterizza l’essere “cristiani” proprio dei laici (christifideles laici), significa che “il vivere nel mondo” corrisponde a una precisa “vocazione” di Dio e che “l’agire nel mondo” è ordinato a una specifica “missione”, quella di «cercare il Regno trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (Lumen gentium, 31).

L’essere e l’agire nel mondo non sono, per i fedeli laici, una realtà solo antropologica e sociologica. Sono, anche e specificamente, una realtà teologica ed ecclesiale. È in questione non semplicemente un dato esteriore e ambientale, ma il disegno stesso di Dio, che chiama i laici e li manda nel mondo a servire il Regno. Scrive il Concilio: «Essi vivono nel secolo, cioè in mezzo agli impegni e alle occupazioni del mondo e dentro le condizioni ordinarie della vita familiare e sociale di cui è intessuta la loro esistenza. Lì sono chiamati da Dio a contribuire, come dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo, mediante l’esercizio della loro specifica funzione e guidati dallo spirito evangelico» (Lumen gentium, 31).

Se tutti i membri della Chiesa rivelano e vivono la sua dimensione secolare, i fedeli laici lo fanno in un modo proprio e peculiare, con il loro essere e vivere nel mondo secondo quel senso cristiano, nuovo e originale, sopra ricordato. Di conseguenza, la prima forma di missionarietà alla quale i fedeli laici sono chiamati è data dalla loro stessa vita, da una vita nel mondo che ha la forma della testimonianza umana ed evangelica. È con il loro vivere quotidiano che essi “dicono” e “fanno vedere” che la Chiesa è sì immersa nel mondo, ma sempre e solo a servizio del Regno. «In tal modo rendono il Cristo visibile agli altri, soprattutto con la testimonianza di una vita che splende di fede, di speranza e di carità» (Lumen gentium, 31).

Non sottolineeremo mai abbastanza la singolare preziosità della testimonianza di vita dei fedeli laici e, quindi, il suo unico e straordinario potenziale di missionarietà. E questo non tanto per la ragione generica di una credibilità, che solo la coerenza di vita può assicurare, quanto per la ragione specifica di una condizione di vita nel mondo segnata e impregnata dalla novità cristiana dell’essere a servizio del Regno.

Il laico cristiano è, dunque, “segno di contraddizione” di fronte a tutti. Lo è perché è “nel” mondo, ma non è “del” mondo! Il vivere in coerenza con la propria identità cristiana è, di per se stesso, un contestare l’essere “del” mondo” e, dunque, un denunciare e rifiutare quella assolutizzazione delle realtà temporali, che nega il primato di Dio. In positivo, la vita coerente del laico cristiano è l’annuncio più efficace della verità che il servizio al Regno di Dio dentro e attraverso le attività terrene è la garanzia più solida e la forza più stimolante per il processo di un’autentica “umanizzazione” del mondo.

 

87.   La Chiesa, pur essendo “nel” mondo, non è “del” mondo, perché è segnata dalla dimensione escatologica. È, nella storia, profezia vivente del Regno di Dio. Di questo Regno «costituisce sulla terra il germe e l’inizio. Intanto mentre va lentamente crescendo, anela al Regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di riunirsi al suo Re nella gloria» (Lumen gentium, 5).

Ora, tutti i cristiani, proprio perché membri della Chiesa, sono partecipi della sua dimensione escatologica. In realtà, «il popolo di Dio non ha quaggiù la sua città permanente, ma è alla ricerca di quella futura» (Lumen gentium, 44). Ma questa dimensione escatologica viene realizzata in forme diverse.

La forma “propria e peculiare” di attuazione è quella delle persone consacrate, nelle molteplici modalità della loro consacrazione al Signore. In questo senso, il Concilio scrive: «Lo stato religioso, liberando i suoi seguaci dalle cure terrene, rende ai credenti ancora più visibili i beni celesti già presenti in questo mondo; testimonia meglio la vita nuova ed eterna che Cristo ci ha acquistato con la redenzione, e preannuncia la futura risurrezione e la gloria del Regno dei cieli… Manifesta infine con particolare evidenza la superiorità del Regno di Dio rispetto a ogni altra realtà terrena, e le esigenze supreme che esso avanza» (Lumen gentium, 44).

Le persone consacrate sono, dunque, un’epifania della Chiesa nella sua tensione verso il Regno di Dio. Lo sono in una modalità distinta, anche se non separata, da quella degli altri membri della Chiesa: una modalità “propria e peculiare”, che consiste nella loro vita di consacrazione al Signore, caratterizzata dai voti di povertà-castità-obbedienza. Con questi voti, le persone consacrate prefigurano e, in qualche modo, anticipano e pregustano la vita propria del Regno di Dio.

È con questo loro tipico essere e vivere che le persone consacrate attuano la prima forma di missionarietà. Esse “dicono” e “fanno vedere” che la Chiesa è assetata dell’Assoluto di Dio, è chiamata alla santità nel radicalismo delle beatitudini, è povera-casta-obbediente perché ha in Cristo il sommo e unico bene, la pienezza sovrabbondante dell’amore, la perfezione ultima della libertà.

Anche le persone consacrate, con il loro modo “proprio e peculiare” di essere e di agire, sono un “segno di contraddizione” vivente per la Chiesa e per il mondo. Specialmente nelle attuali situazioni sociali e culturali, la loro povertà-castità-obbedienza non può diventare una formidabile sfida al materialismo consumista, all’edonismo istintivo e aggressivo, alle degenerazioni schiavizzanti della libertà umana?

 

88.   Si dà un’altra modalità ancora – anche questa distinta e non separata, “propria e peculiare” – di essere “nel” mondo e non “del” mondo: è quella della famiglia cristiana. Se in tutti i membri della Chiesa le due dimensioni, secolare ed escatologica, della Chiesa stessa sono tra loro profondamente connesse, è proprio il loro intreccio, la loro compenetrazione e unione a presentarsi qui con un volto veramente originale. E questo grazie a quel sacramento del Matrimonio che fonda e vivifica la famiglia cristiana.

Il Matrimonio presenta una sua propria e inconfondibile dimensione secolare, perché si radica e cresce in una precisa realtà creaturale e umana. Esso è «l’intima comunità di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie» che nasce dal patto coniugale, ossia «dall’atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono» (Gaudium et spes, 48). Il Matrimonio, poi, si sviluppa mediante un amore, caratterizzato dall’unicità, dalla fedeltà e dalla oblatività, ordinato com’è alla comunione dei coniugi e al loro donarsi ai figli nella generazione e nella educazione, e tutto ciò nel contesto della società.

Ma questa realtà secolare, creaturale e umana del Matrimonio sperimenta un intreccio, una compenetrazione e una unione veramente originali e uniche con la dimensione escatologica della Chiesa. È quanto avviene in forza del sacramento del Matrimonio. Questo, infatti, non è qualcosa di estraneo e di diverso dalla realtà creaturale e umana degli sposi. È questa stessa realtà che viene assunta, confermata, purificata, elevata e trasformata a essere “sacramento”, segno e strumento del Regno di Dio, dell’amore salvifico del Padre per gli uomini e di Cristo per la Chiesa. In tal modo, il Matrimonio sacramento costituisce e struttura intimamente la realtà creaturale e umana degli sposi come realtà essenzialmente relativa al Regno di Dio, a Gesù Cristo stesso.

Fondata sul Sacramento, la famiglia cristiana viene edificata e plasmata come “Chiesa domestica” (cfr. Lumen gentium, 11), immagine viva e ripresentazione reale della Chiesa stessa. Per questo, viene configurata – nei riguardi dei propri membri, della Chiesa e della società intera – come “comunità salvata e salvante”: comunità attivamente partecipe, in maniera propria e peculiare, della missione evangelizzatrice di tutta la Chiesa.

Anche per la famiglia cristiana, si deve affermare che sono il suo stesso essere famiglia e il suo stesso vivere le realtà e attività proprie della famiglia a costituire la sua prima forma di missionarietà nella Chiesa e nel mondo.

È con la vita coniugale e familiare stessa – in tutti i suoi aspetti quotidiani, piccoli o grandi, ordinari o straordinari, faticosi o belli –, una vita coerente con la sua realtà creaturale e umana e inscindibilmente connessa con il Regno di Dio, che i coniugi, i genitori e i figli  annunciano il Vangelo e trasmettono la fede. Nella concretezza della sua esistenza d’ogni giorno, la famiglia cristiana “dice” e “fa vedere” che la Chiesa è alleanza d’amore tra Dio e l’umanità, tra il Signore Gesù e gli uomini da lui redenti in croce. È un’alleanza che assume tutto l’humanum, che prende la “carne” stessa dell’uomo e della donna nella molteplicità delle loro relazioni, per renderli segno efficace della salvezza. Coniugi, genitori e figli cristiani “dicono” e “fanno vedere”, con la testimonianza della vita coniugale e familiare, che il Regno di Dio è già presente e continuamente all’opera come sorgente di grazia.

A conforto e stimolo dell’impegno missionario della famiglia, possiamo qui riascoltare un interessante e ricco passo del Vaticano II. È nel contesto del “profetismo” dei fedeli laici che il Concilio fa emergere il posto e il compito tipici della famiglia cristiana: «Come i sacramenti della Nuova Legge… annunciano i cieli nuovi e la terra nuova (cfr. Ap 21, 1), così i laici diventeranno annunciatori efficaci dei beni futuri sperati (cfr. Eb 11, 1), se a una vita vissuta nella fede sapranno unire senza paura anche la parola che proclama la fede». È evidente che il riferimento conciliare ai Sacramenti si specifica, per gli sposi, in rapporto al loro “grande sacramento” (cfr. Efesini 5, 32), il Matrimonio. Il Concilio, infatti, così prosegue: «In questo compito appare di grande valore quello stato di vita che è santificato da uno speciale sacramento, cioè la vita matrimoniale e familiare». E precisa: «Lì si fa esercizio e scuola eccellente di apostolato dei laici, e la fede cristiana viene fatta penetrare nella pratica della vita, per trasformarla ogni giorno più. Lì i coniugi realizzano la loro specifica vocazione a essere, l’uno per l’altro e per i figli, testimoni della fede e dell’amore di Cristo». E conclude: «La famiglia cristiana proclama a voce alta sia le virtù presenti del Regno di Dio, sia la speranza della vita beata. Con l’esempio e la testimonianza essa accusa di peccato il mondo e illumina coloro che sono in ricerca della verità» (Lumen gentium, 35).

Queste ultime parole ci presentano la famiglia cristiana come “segno di contraddizione” nel mondo. Nella misura in cui vive il dono del Sacramento ricevuto, essa testimonia come la sua esistenza relativa al Regno di Dio non svilisce affatto, ma porta a compimento gli stessi valori umani (sessualità, affetti, impegno educativo, lavoro, ecc.). La speranza della vita beata, lungi dal contraddire o dall’impoverire la vita presente nelle sue autentiche esigenze, la assume pienamente e la perfeziona, liberandola dalle sue inevitabili chiusure e miserie.

 

Non possiamo concludere però senza un rilievo di capitale importanza, proprio nell’ambito dell’evangelizzazione e trasmissione della fede. Il quadro sinora offerto sugli “operai del Vangelo” ci si è presentato nella sua bellezza e nel suo fascino: un quadro, dunque, altamente ideale, che non poche volte la vita quotidiana dei fedeli laici, delle persone consacrate e delle famiglie cristiane s’incarica tristemente di alterare con il peso delle proprie lentezze e stanchezze, infedeltà e disordini. Il quadro cambia: è quello di “operai” stanchi e delusi, pigri e incostanti, disimpegnati e rinunciatari, a volte così incoerenti da distruggere l’opera loro affidata. E, in tal modo, la forza missionaria dei soggetti responsabili dell’evangelizzazione e trasmissione della fede viene profondamente indebolita, se non addirittura annullata.

Ma occorre ritornare senza posa alla bellezza del quadro ideale. È richiesta la “conversione”, una conversione permanente, se si vuole riprendere il cammino riascoltando la “vocazione” e rinnovando lo slancio della “missione”. Senza dimenticare che proprio gli “operai del Vangelo”, per primi, sono chiamati ad accogliere instancabilmente l’annuncio evangelico e a crescere nella fede ricevuta. È la luce del Vangelo e della fede la forza capace di “rigenerare” in tutti loro la disponibilità e l’entusiasmo nel porsi a servizio del Regno.

 

Gli operatori pastorali

 

89.   Se è preziosa e insostituibile la testimonianza di vita, per l’evangelizzazione e la trasmissione della fede, altrettanto prezioso e insostituibile è l’annuncio diretto ed esplicito del Vangelo, di Gesù Cristo stesso. Si tratta di “dire” la fede della Chiesa nel Signore Gesù come Parola da ascoltare-incontrare-incarnare nella vita.

In questo senso, la Chiesa evangelizza e trasmette la fede con l’esercizio di diversi ministeri, uffici e funzioni che lo Spirito di Cristo le comunica attraverso i Sacramenti e i più vari carismi o doni particolari. Sono ministeri, uffici e funzioni che si radicano in quel sacerdozio profetico e regale di cui Gesù Cristo, con l’effusione dello Spirito, rende partecipe tutta la Chiesa, sua Sposa, e, in essa, tutti e singoli i battezzati (cfr. 1 Pietro 2, 4-5.9).

Grazie al dono di Cristo e del suo Spirito, ogni cristiano può e deve, con la vita e le opere, far crescere il Regno di Dio nella storia, e dunque la Chiesa nel suo volto di comunità della Parola, del Sacramento e della carità. Da questo punto di vista, ogni cristiano può veramente dirsi un operatore pastorale.

Ma, per poter esprimere e realizzare più compiutamente questo suo volto, la comunità cristiana ha bisogno di uomini e donne che si mettano a servizio del Vangelo in modo più esplicito e diretto, in qualche misura stabile e pubblico, ossia riconoscibile nella comunità. Sono questi cristiani a rivestire il ruolo più specifico e proprio di “operatori pastorali”.

Questi operatori si possono ricondurre ai tre grandi “ministeri”, attraverso i quali si esprime la vita e si realizza la diversificata e unitaria missione della Chiesa immersa nel mondo a servizio del Regno: i ministeri della Parola, della liturgia e della carità. Questi tre ministeri fanno evidente riferimento alla triade indivisa e indivisibile di Parola-Sacramento-vita che caratterizza l’evangelizzazione e la fede e, dunque, tutta l’azione della Chiesa, interiormente finalizzata all’evangelizzazione e alla fede.

 

90.    Attraverso il ministero della Parola, la Chiesa cresce come “comunità di fede”, nella quale gli uomini e le donne ascoltano la Parola di Dio e a essa rispondono con la loro libertà, impegnandosi nella sequela del Signore. E poiché la Sacra Scrittura è luogo singolare e privilegiato di accostamento alla Parola, questo ministero riserva una cura tutta particolare nel promuovere un’ampia frequentazione della Scrittura stessa. Mediante l’annuncio kerigmatico, l’omelia, le diverse forme di predicazione, la “lectio divina”, la catechesi, la riflessione sistematica e teologica e molteplici altre forme di annuncio e di ascolto, questo ministero ecclesiale ha come scopo di “nutrirci della Parola”, affinché possiamo esserne “servi”, vivendo la missione evangelizzatrice che è di tutta la Chiesa.

Se questa, come ricorda Giovanni Paolo II, «è sicuramente una priorità per la Chiesa all’inizio del nuovo millennio» (Novo millennio ineunte, 40), particolarmente significativa e preziosa si rivela la presenza di operatori pastorali impegnati, ad esempio, nella catechesi per le varie fasce di età, negli itinerari di preparazione dei fidanzati al sacramento del Matrimonio, nell’apostolato biblico, nei “gruppi di ascolto”, nelle Scuole della Parola e nell’esercizio della “lectio divina”, in esperienze di “nuova evangelizzazione” per i cosiddetti “lontani”, in forme di “primo annuncio” ai non credenti e così via.

 

91.    Con il ministero della liturgia, la Chiesa viene edificata e cresce come “comunità redenta”, continuamente vivificata e plasmata dalla grazia del Signore. Attraverso questo ministero, la salvezza donataci da Gesù viene comunicata lungo la storia e raggiunge personalmente gli uomini e le donne di ogni tempo e luogo. Li raggiunge mediante un incontro vivo e vivificante con lo stesso Signore che, specialmente nelle azioni liturgiche, è sempre presente e operante nella sua Chiesa (cfr. Sacrosanctum Concilium, 7).

Ne deriva che «perché la parola e l’opera di Dio e la risposta dell’uomo si tramandino lungo la storia, è assolutamente indispensabile che vi siano tempi e spazi precisi nella nostra vita dedicati all’incontro con il Signore» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 47). Sono i tempi e gli spazi delle celebrazioni liturgiche – vissute come autentico luogo nel quale sperimentare e manifestare la grandezza e bellezza del mistero salvifico di Dio – e della preghiera personale e comunitaria, quale «relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2565) e quale preparazione ed estensione delle stesse celebrazioni liturgiche, in particolare dell’Eucaristia.

In questa ottica, per favorire l’alta “qualità celebrativa” di ogni azione liturgica e per educare alla preghiera come punto centrale e qualificante di ogni azione pastorale, va promossa la presenza sia di quei ministeri che riguardano la celebrazione liturgica – come, ad esempio, i lettori, gli animatori liturgici, gli animatori del canto e della musica, i ministri straordinari della Comunione eucaristica, gli addetti all’accoglienza (cfr. Sinodo 47°, cost. 54, 2) –, sia di operatori pastorali impegnati nell’animazione di momenti e/o di gruppi di preghiera.

Dobbiamo tutti apprezzare la loro presenza. Grazie al loro ministero, le nostre parrocchie e ogni gruppo e comunità ecclesiale devono poter diventare – come sottolinea con  forza Giovanni Paolo II introducendo la Chiesa nel terzo millennio – «autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino a un vero “invaghimento” del cuore» (Novo millennio ineunte, 33).

 

92.    C’è, infine, il ministero della carità, con cui la Chiesa, sull’esempio del suo Signore e Maestro, si costruisce e cresce come “serva” della persona e della società, attraverso un amore che si dona e si fa promozione e accoglienza. È questo il segno distintivo della comunità ecclesiale e del singolo cristiano. È mediante questa cura cristiana per l’uomo e per la società, che la verità e la bontà del messaggio evangelico trovano la loro più credibile conferma agli occhi disincantati di molti. La Chiesa, infatti, annuncia il Vangelo di Gesù non solo con la parola della predicazione e la celebrazione dei Sacramenti, ma anche con la concreta testimonianza di una vita spesa nell’amore, con generosità e con gioia. In questo senso, la pratica della carità è “lieta notizia”, luogo e strumento di evangelizzazione. Lo è in tutte le forme diversificate che la carità può e deve assumere. Ed è in riferimento a ciascuna di queste forme che il ministero della carità vede il dispiegarsi di una serie di molteplici figure di operatori pastorali.

Un primo servizio alla persona consiste nel prendersi cura di ognuno nella sua unicità e irripetibilità, per aiutarlo a riconoscere quanto è iscritto nel suo stesso essere, a scoprire il disegno che Dio ha su di lui, a crescere secondo verità e bontà, a realizzare se stesso fino a raggiungere la propria perfezione e felicità. Si apre qui tutto l’ambito del lavoro educativo, svolto con i singoli e/o nelle diverse realtà aggregative, nel quale la Chiesa ha un compito e un dovere da svolgere a un titolo tutto speciale (cfr. Gravissimun educationis, 3).

È qui che trovano spazio diverse figure di operatori pastorali, quali, ad esempio: gli animatori vocazionali; i responsabili laici degli oratori; gli educatori e gli animatori dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani negli oratori, come pure nelle associazioni e nei diversi gruppi e movimenti ecclesiali; i responsabili e gli animatori dei gruppi familiari e di associazioni, gruppi e movimenti di spiritualità familiare; gli animatori delle aggregazioni sportive a carattere educativo e così via.

 

Tra le molte forme con cui si esprime il ministero della carità, un posto del tutto particolare è quello occupato dalla cura del povero. Qui la pratica della carità si fa educazione dei singoli e delle comunità a coltivare un evangelico amore preferenziale per i poveri. Si fa anche risposta concreta alle loro molteplici, vecchie e nuove forme di povertà, riconoscendo la dignità personale di ogni povero e realizzando con lui un’autentica “condivisione”. Qui la carità diventa uno stare con i poveri, nel senso di realizzare con loro un vincolo personale, secondo l’indicazione dei Vescovi italiani: «Accogliere il povero, il malato, lo straniero, il carcerato è fargli spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle proprie amicizie, nella propria città e nelle proprie leggi. La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 39).

Per realizzare tutto questo – dando generosamente spazio alla «nuova “fantasia della carità”» richiesta dal Papa a ogni nostra comunità (cfr. Novo millennio ineunte, 50) –, dobbiamo promuovere la presenza di operatori pastorali impegnati, ad esempio, nella Caritas e nelle sue varie articolazioni e iniziative, come pure nelle diverse forme di attenzione e di assistenza ai poveri, agli emarginati, agli immigrati, ai carcerati, ecc.; nell’assistenza ai malati, alle persone disabili e agli anziani, come nelle numerose forme di volontariato; nell’attuazione delle opere di misericordia spirituale e corporale e così via.

 

Il ministero della carità esige anche la cura della comunità cristiana nel suo insieme e nelle sue molteplici forme di azione pastorale. Espressione irrinunciabile della carità è, infatti, l’unione fraterna tra i cristiani, nel segno della comunione e della corresponsabilità. In questa prospettiva, dobbiamo promuovere e valorizzare, in un quadro di autentica pastorale d’insieme, gli strumenti di partecipazione ecclesiale e gli organismi relativi ai diversi ambiti pastorali.

Anche qui le nostre comunità cristiane possono e devono prevedere la presenza di operatori pastorali. Tra questi sono da ricordare: i membri dei Consigli pastorali parrocchiali e decanali; i membri dei Consigli parrocchiali per gli affari economici; i responsabili e i membri delle diverse Commissioni pastorali; i responsabili delle diverse associazioni e dei gruppi e movimenti ecclesiali.

 

Un’altra espressione del ministero della carità è data dalla “animazione sociale” e dall’impegno politico. È questa un’espressione che nasce dal realismo tenace con cui la carità cerca il bene di ogni uomo e dell’intera società. Propriamente parlando, “l’impegno politico” può e deve essere sì qualificato come un modo di vivere la carità, anzi – secondo l’espressione di Paolo VI – come «una maniera esigente… di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Octogesima adveniens, 46), ma non come “azione pastorale”. Esso, infatti, consiste nelle «azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana» e non nelle «azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (cfr. Gaudium et spes, 76).

Più articolate sono, invece, le considerazioni da fare a proposito delle diverse forme di “animazione sociale”. «Esse – come leggiamo nel nostro Sinodo 47° – tendono a infondere una sensibilità umana nell’intera società e nelle sue articolazioni e strutture, a sollecitare e sostenere un’attenzione più vera e cordiale ai diversi bisogni delle persone, a individuare, progettare e proporre attività culturali, iniziative assistenziali e programmi economici che favoriscano l’accoglienza, l’inserimento sociale e la crescita libera di tutti i membri della società» (cost. 126, 2). L’animazione sociale sfocia certamente in forme di impegno diretto a livello sociale e politico: in questo senso, essa non è propriamente “azione pastorale”. D’altra parte, questa stessa animazione sociale comporta tutto un lavoro, in qualche modo previo, di discernimento, di sensibilizzazione e di educazione delle coscienze, che rientra tra i compiti propri dell’azione pastorale.

Ed è qui che si danno, come legittime e opportune, figure di operatori pastorali impegnati, anche tramite apposite Commissioni, a far crescere e a esprimere l’attenzione e l’impegno dei cristiani nei diversi ambiti della società, quali, ad esempio, la scuola e le comunicazioni sociali, il lavoro, l’economia e la politica, la sanità, l’assistenza, lo sport.

93.   Dopo avere illustrato, sia pure brevemente, le molteplici tipologie di operatori pastorali e averne sottolineato l’importanza, sento la necessità e l’urgenza di attirare l’attenzione di tutti – e, in particolare, degli stessi operatori pastorali – su tre aspetti, tra gli altri, che devono caratterizzare la loro presenza e azione nella Chiesa.

 

In primo luogo, sulla loro grande varietà. Essa nasce dalla diversità stessa dei ministeri, degli uffici e delle funzioni, legati al triplice servizio profetico, sacerdotale e regale della Chiesa. È richiesta, poi, dalle molteplici e mutevoli situazioni ed emergenze storiche nelle quali avvengono l’annuncio del Vangelo e la trasmissione della fede. Deriva, infine, dalla singolare ricchezza dei carismi o doni spirituali, che lo Spirito Santo continua a elargire ai credenti. È una varietà, questa, che vogliamo accogliere, riconoscere e promuovere con viva gratitudine al Signore, con sincerità e cordialità fraterne e con profondo senso di responsabilità verso la Chiesa e la storia degli uomini.

Chiedo, pertanto, che – alla luce delle indicazioni presenti nel nostro Sinodo 47° e riprendendo e sviluppando ulteriormente il cammino già sperimentato negli anni pastorali 2000-2001 e 2001-2002 con l’iniziativa “Collaboratori della vostra gioia” – in ogni articolazione della nostra Diocesi (parrocchia, decanato, zona pastorale), oltre a valorizzare quelle già presenti, si identifichino quali altre figure di operatori pastorali vanno concretamente promosse. È un discernimento doveroso, finalizzato a registrare le reali esigenze dell’azione pastorale oggi in ogni singola comunità e a creare le condizioni per una risposta adeguata a queste stesse esigenze. Ci sollecitano a questo la necessità e l’urgenza di rinnovare e rinvigorire in ogni nostra comunità lo slancio missionario voluto dal Signore risorto.

Con la varietà, va messa in risalto e garantita la profonda unità che deve caratterizzare tutti gli operatori pastorali. La loro molteplicità non deve sfociare in una scorretta “settorializzazione” dell’azione pastorale, né in una sua frammentazione e disgregazione o, peggio ancora, in forme inaccettabili di concorrenzialità o di competitività tra i vari operatori. Non deve accadere perché tutti gli operatori pastorali, sia pure con modalità e accentuazioni diverse, sono impegnati nel comune servizio all’unico Vangelo di Gesù. Sentiamoci, tutti e ciascuno, coinvolti nell’identica missione di trasmettere la fede, senza mai dimenticarne o contraddirne l’intrinseca fisionomia di “totalità unificata”, di fede confessata-celebrata-vissuta. Sentiamoci, tutti e ciascuno, a servizio del Vangelo, della fede e della presenza della Chiesa nella società non a nome proprio e come operatori “solitari”, ma come “mandati” dalla Chiesa e in suo nome. Viviamo il nostro compito non solo nel segno della fattiva collaborazione tra noi, ma anche e soprattutto nel segno di una più gioiosa comunione e di una più forte corresponsabilità.

Questo “senso di Chiesa” va adeguatamente educato in tutti e in ciascuno, attraverso ogni iniziativa e ogni itinerario formativo. È quanto, insieme con la formazione dottrinale e metodologica specifica per ogni operatore, va assicurato, in particolare, mediante le Scuole Diocesane per gli Operatori Pastorali.

Chiedo pertanto che – nella scia del cammino fatto nel precedente biennio pastorale con la già citata iniziativa “Collaboratori della vostra gioia” – la Segreteria delle Scuole Diocesane per gli Operatori Pastorali, in collaborazione con i diversi Organismi di Curia interessati, individui i mezzi per una convinta riproposizione e un efficace rilancio di queste stesse Scuole.

Chiedo pure che quanto verrà promosso a tale riguardo sia cordialmente ed effettivamente accolto, condiviso e seguito nelle diverse articolazioni della Diocesi.

Da ultimo, ma in modo decisivo perché fondamentale, è la missionarietà la prospettiva radicale che deve caratterizzare e animare la presenza e l’azione dei diversi operatori pastorali. Essi, infatti, sono compartecipi della missione evangelizzatrice che costituisce la ragione stessa della Chiesa. È, anzi, questa missionarietà a rappresentare la “causa” e il “fine” della presenza e azione di tutti gli operatori pastorali nella loro varietà e unità.

La “causa”, perché è proprio il mandato missionario di andare in tutto il mondo (cfr. Marco 16, 15) a esigere che l’azione pastorale della Chiesa si manifesti e si sviluppi in tutti i luoghi e i modi in cui si esprime e si vive il triplice unitario ministero della Parola, della liturgia e della carità. Ed è lo stesso mandato missionario a esigere che l’azione pastorale sia vissuta nel segno dell’unità: lo esige, anzitutto, per essere coerente con il comando dato a tutti gli Undici insieme e non a ciascuno di essi separatamente e, in secondo luogo, per essere davvero credibile ed efficace.

La missionarietà è anche il “fine” della presenza e azione degli operatori pastorali. Lo è perché le varie e molteplici forme attraverso cui si vive il ministero della Parola, della liturgia e della carità hanno come solo scopo di edificare e far crescere una Chiesa che annuncia, celebra e serve non sé stessa, ma unicamente Gesù e il suo Vangelo.

 

I ministri ordinati

 

94.   Un posto specifico e insostituibile nell’evangelizzazione e trasmissione della fede spetta ai Vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, a quanti cioè ricevono il sacramento dell’Ordine.

Nella comunione di tutti i fedeli che, in virtù dell’unico Battesimo, sono abilitati e impegnati a vivere la missione affidata dal Signore alla Chiesa, essi ricevono un “dono” e un “compito” propri e peculiari nel popolo di Dio e a suo servizio. In forza dell’Ordinazione sacramentale, infatti, ciascuno di essi è reso conforme a Gesù Cristo secondo una modalità specifica.

Configurati a Cristo Pastore nella pienezza del sacerdozio, i Vescovi ricevono il compito di annunciare il Vangelo a credenti e non credenti, di essere maestri della fede, di santificare e governare la Chiesa particolare loro affidata.

In comunione con il Vescovo e con il presbiterio, i Diaconi sono costituiti nella Chiesa come segno vivo di Gesù, Signore e Servo di tutti e, come tali, sono consacrati e mandati al servizio della comunione ecclesiale mediante l’esercizio del ministero della Parola, della liturgia e della carità.

 

È sui presbiteri che ci soffermiamo in modo particolare. La loro fisionomia specifica è di essere “ripresentazione” sacramentale, nella Chiesa e davanti alla Chiesa, di Gesù Cristo Capo e Pastore. Così il Concilio Vaticano II scrive a loro riguardo: «Lo stesso Signore, affinché i fedeli fossero uniti in un corpo solo, di cui però “non tutte le membra hanno la stessa funzione” (Rom. 12, 4), promosse alcuni di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero il sacro potere dell’Ordine per offrire il Sacrificio e perdonare i peccati, e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale. Pertanto, dopo aver inviato gli Apostoli come egli stesso era stato inviato dal Padre, Cristo, per mezzo degli stessi Apostoli, rese partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i Vescovi, la cui funzione ministeriale fu trasmessa in grado subordinato ai Presbiteri, affinché questi, costituiti nell’Ordine del presbiterato, fossero cooperatori dell’Ordine episcopale, per il retto assolvimento della missione apostolica affidata da Cristo».

E aggiunge, andando alla radice dell’identità e della missione dei presbiteri: «La funzione dei Presbiteri, in quanto strettamente unita all’Ordine episcopale, partecipa dell’autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio Corpo. Per questo motivo, il sacerdozio dei Presbiteri, pur presupponendo i Sacramenti dell’iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare Sacramento per il quale i Presbiteri, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire nella persona di Cristo Capo» (Presbyterorum ordinis, 2).

 

Come può emergere da una lettura attenta, il testo conciliare presenta elementi decisivi per definire l’essere e l’agire propri dei presbiteri, in particolare all’interno della missione evangelizzatrice della Chiesa.

Il Concilio fa riferimento, in modo immediato ed esplicito, alla “missione” che Gesù Cristo, l’inviato dal Padre, ha partecipato agli Apostoli e ai Vescovi, loro successori. Di questa stessa missione sono resi partecipi anche i presbiteri. Ciò avviene in forza di quello strettissimo legame con i Vescovi che li costituisce «cooperatori dell’Ordine episcopale». Si tratta di una partecipazione con caratteristiche specifiche, che determinano il loro compito proprio e peculiare nella Chiesa

Grazie all’Ordinazione, che li rende «cooperatori dell’Ordine episcopale», i presbiteri ci fanno risalire agli Apostoli, come ai testimoni oculari di Cristo risorto, e, quindi, a Gesù stesso. Proprio in questo senso, deve dirsi fondamentale la loro presenza all’interno e a favore della comunità cristiana. È grazie a loro che ogni comunità cristiana sta in viva relazione con le origini apostoliche della Chiesa. È grazie alla loro presenza e al loro ministero che ogni concreta localizzazione della Chiesa può dirsi “apostolica” e, quindi, una, santa e cattolica.

I presbiteri, inoltre, ricevono dal sacramento dell’Ordine il sacro potere di «agire nella persona di Cristo Capo», in particolare offrendo il Sacrificio della Messa e perdonando i peccati. Emerge così un’altra ragione dell’insostituibilità dei presbiteri per la vita e la missione della comunità cristiana: quest’ultima, infatti, trova nell’Eucaristia, con la presenza reale e personale di Gesù Cristo morto e risorto, la sorgente stessa della sua comunione e la forza prima della sua missione.

Grazie al legame sacramentale con il Vescovo, i presbiteri costituiscono un unico presbiterio. Vengono intimamente congiunti col Vescovo e tra di loro. In tal modo e con la celebrazione dei Sacramenti e in particolare dell’Eucaristia, i presbiteri fanno di ogni parrocchia e comunità cristiana una comunità organicamente inserita nella Chiesa particolare (cfr. Presbyterorum ordinis, 5).

Poiché il sacerdozio ministeriale è al servizio del sacerdozio comune di tutti i fedeli, i presbiteri  ricevono, infine, il compito di “edificare” la comunità cristiana come comunità della Parola, del Sacramento e della carità. Il loro modo specifico di edificarla è quello che si esprime nel “ministero della presidenza”, inteso come «servizio per la comunione tra tutti i fedeli e come impegno a rendere consapevole ogni battezzato della sua chiamata a un’effettiva corresponsabilità nella vita e nella missione del popolo di Dio» (Sinodo 47°, cost. 132, 3c). Rientra nel ministero della presidenza il compito di discernere ed educare, valorizzare, promuovere e coordinare l’esercizio concreto, da parte di tutti i fedeli, dei loro ministeri, uffici e funzioni in ordine a una crescita corale della comunità cristiana in senso decisamente missionario.

 

Con il loro stesso essere e agire in conformità al Sacramento ricevuto, i presbiteri attuano la loro prima forma di missionarietà. Essi  “dicono” e “fanno vede-re” che la Chiesa è fondata sugli Apostoli, nasce dal-l’Eucaristia e da essa viene continuamente plasmata e alimentata, è comunione organica e gerarchica intorno al Vescovo e con il Vescovo in una autentica ottica di “diocesanità”, è comunità animata e servita dalla varietà e complementarietà di carismi, uffici e ministeri.

E fanno tutto questo in un modo “proprio e peculiare”, non delegabile e non sostituibile. Un modo che li costituisce «modelli del gregge» loro affidato (1 Pietro 5, 3): persone che annunciano con la parola e testimoniano con la vita l’identità e la missione della Chiesa nel mondo, una identità e una missione di cui tutti i membri del popolo di Dio, ciascuno secondo la propria vocazione, sono resi partecipi.

Il Signore Gesù, con il soffio potente del suo Spirito, li configuri così di giorno in giorno e li renda evangelici “segni di contraddizione” nella Chiesa e nel mondo. Non sarà, infatti, la loro persona e la loro azione a contrastare ogni ricorrente tentazione di costruire una Chiesa sulla nostra misura di uomini e non secondo la misura di Cristo, nella fedeltà al volto che lo stesso Signore le ha donato?

 

I missionari “ad gentes”

 

95.   «La missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento. Al termine del secondo millennio dalla sua venuta uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio». Con queste significative parole si apre l’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II, nel ricordo, a venticinque anni, della pubblicazione del Decreto conciliare sull’attività missionaria Ad gentes.

Tutti i credenti hanno una precisa responsabilità missionaria, che conosce gli stessi confini assegnati dal Signore Gesù ai suoi discepoli prima di ascendere al cielo. Il compito loro affidato ha un’inequivocabile dimensione universale: «tutte le nazioni» (Matteo 28, 19), «in tutto il mondo, ad ogni creatura» (Marco 16, 15); «tutte le genti» (Luca 24, 47); «fino agli estremi confini della terra» (Atti 1, 8).

Fedeli laici, persone consacrate, famiglie, operatori pastorali, ministri ordinati sono tutti chiamati a vivere la grazia e l’impegno dell’annuncio del Vangelo secondo questa apertura propriamente universale. Questo è possibile e doveroso, in forza del fatto misterioso e reale di appartenere tutti, come battezzati, alla Chiesa di Cristo come Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. In particolare, la Chiesa è “cattolica”, ossia universale, perché in essa è presente Cristo, dal quale riceve tutti i mezzi necessari per la salvezza degli uomini. Inoltre, la Chiesa è “cattolica” perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere umano: «La Chiesa è missionaria per sua natura… Ne deriva che tutta la Chiesa e ciascuna Chiesa è inviata alle genti» (Redemptoris missio, 62).

Siamo chiamati a ridestare e rafforzare la coscienza della “cattolicità” della Chiesa. È questa coscienza il principio e la forza per poter assolvere il nostro dovere missionario universale, attraverso la preghiera, il sacrificio e l’aiuto concreto.

 

Ma subito dobbiamo precisare, come scrive il Papa: «Dire che tutta la Chiesa è missionaria non esclude che esista una specifica missione ad gentes, come dire che tutti i cattolici debbono essere missionari non esclude, anzi richiede che ci siano i “missionari ad gentes ed a vita” per vocazione specifica» (Redemptoris missio, 32).

La missione ad gentes è quella che riguarda, propriamente, «popoli, gruppi umani, contesti socio-culturali in cui Cristo e il suo Vangelo non sono conosciuti, o in cui mancano comunità cristiane abbastanza mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente e annunziarla ad altri gruppi» (Redemptoris missio, 33).

È vero che i responsabili specifici di tale missione sono i missionari e gli Istituti ad gentes, come pure alcuni Istituti di vita consacrata e anche laici, uomini e donne. Ma è altrettanto vero che una responsabilità per la missione ad gentes grava anche su tutti i Vescovi e i presbiteri in quanto tali. Dei primi il Concilio scrive: «Sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo. Il comando di Cristo di predicare il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16, 15), riguarda innanzitutto e immediatamente loro, con Pietro e sotto Pietro» (Ad gentes, 38).

Quanto poi ai presbiteri, lo stesso Concilio ricorda: «Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’Ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza, “fino agli estremi confini della terra”, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli Apostoli» (Presbyterorum ordinis, 10). È su questa base comune che può svilupparsi una vocazione specifica: quella dei presbiteri detti fidei donum, che si dedicano a un servizio temporaneo nelle missioni ad gentes.

Nel contesto di questa responsabilità specifica entrano anche le nostre comunità cristiane, a cominciare dalle parrocchie. È di nuovo il Concilio ad ammonirci con chiarezza e concretezza: «La grazia del rinnovamento non può crescere nella comunità, se ciascuna di esse non allarga gli spazi della carità sino ai confini della terra, dimostrando per quelli che sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono suoi propri membri… Sarà utilissimo mantenere i contatti, senza tuttavia trascurare l’opera missionaria universale, con i missionari che hanno avuto origine dalla comunità stessa, o con una parrocchia o con una diocesi di missione, perché la comunione tra le comunità diventi visibile e torni a vantaggio di una reciproca edificazione» (Ad gentes, 37).

 

In questo quadro, è di particolare valore l’affermazione del Papa: «Senza la missione ad gentes la stessa dimensione missionaria della Chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare» (Redemptoris missio, 34). La missione ad gentes è, dunque, “paradigma” della missionarietà evangelizzatrice propria di ogni comunità ecclesiale.

Ma che significa “paradigma”? Significa, attraverso un vivo e costante riferimento alla missione ad gentes, lasciarci richiamare ad alcune fondamentali “attenzioni” che devono segnare in modo più abituale e profondo la nostra azione pastorale quotidiana e ordinaria. Così, tra l’altro, la gratitudine profonda e umile per il dono della fede che abbiamo ricevuto, rispetto alle moltitudini di genti che ancora non conoscono Gesù Cristo. Così la percezione gioiosa della “novità”, sempre viva e intramontabile, che ci sorprende ogni volta che ascoltiamo o comunichiamo il Vangelo. E ancora: la ricerca missionaria di “spazi non cristiani” presenti anche all’interno delle nostre comunità di credenti; l’accoglienza, il dialogo, la testimonianza e l’annuncio della fede nei riguardi dei tanti immigrati – spesso non cristiani – che provengono dalle diverse parti del mondo e che si trovano tra noi, anche stabilmente; il richiamo pressante alle nostre comunità perché, superando indebiti localismi, allarghino il proprio sguardo e interesse verso un orizzonte planetario.

Di particolare importanza sono l’accoglienza e la valorizzazione, nelle nostre comunità, dei missionari e Istituti “ad gentes” e dei nostri sacerdoti “fidei donum”. Da essi ci può venire una spinta particolare a vivere con maggiore freschezza e con più decisa apertura al nuovo la nostra missione evangelizzatrice.

Rimaniamo, infine, in umile e saggio ascolto dell’esperienza cristiana delle Chiese di missione. È un’esperienza che, in particolare, può aiutarci a dare il giusto primato alla testimonianza dei martiri, riconoscendo in loro la vera misura del cristiano. Sono, infatti, i martiri, di cui le Chiese di missione sono ricche anche ai nostri giorni, a offrirci una indicazione di straordinario valore. È l’appello a «seguire il Signore fino a dare, come lui, la vita per i fratelli: nella difesa dei diritti dei più poveri, nell’affermazione della dignità di ogni persona anche se debole, nella condivisione e solidarietà con chi è vittima della ingiusta violenza, nella professione della fede che non è stata ridotta al silenzio dalle minacce. I martiri invitano la nostra Chiesa a contare non sulla forza e sul prestigio umani, ma sulla forza che Dio assicura a chi si affida a lui ed è fedele al suo Vangelo» (Consiglio Permanente della CEI, Lettera L’amore di Cristo ci spinge alle comunità cristiane per un rinnovato impegno missionario, 4 aprile 1999).

 

La formazione degli “operai del Vangelo”

 

96.  Dopo la presentazione dei diversi “operai del Vangelo”, dobbiamo ora fermarci su un valore fondamentale e su una condizione imprescindibile per il loro impegno apostolico e missionario: la formazione.

In realtà, non è possibile rispondere con una libertà piena di amore alla chiamata e missione che il Signore rivolge e affida a tutti i credenti se non con un serio e costante impegno alla formazione, ossia alla maturazione di tutti i doni e i compiti che, come un seme che vive e dà vita, sono stati deposti da Dio nel cuore di ciascuno di noi. In particolare, la bellezza e grandezza di questi doni e compiti e, insieme, la gravità della causa al cui servizio sono stati dati – l’annuncio del Vangelo e la trasmissione della fede in ordine alla salvezza – dicono l’assoluta necessità che gli “operai del Vangelo” amino sinceramente e sviluppino con fedeltà generosa la loro opera formativa. Solo così il “talento” ricevuto viene trafficato, solo così il “tralcio” può rimanere nella vite e portare frutto (cfr. Giovanni 15, 1.2.5).

Qual è l’obiettivo fondamentale della formazione? È la scoperta sempre più limpida e precisa della propria vocazione e la disponibilità sempre più pronta e matura a viverla nel compimento della propria missione. Infatti, se è vero che Dio nel suo amore chiama e manda tutti e ciascuno di noi al servizio del Vangelo, è anche vero che ogni cristiano riceve da lui la sua propria e peculiare vocazione e missione.

 

97.    Per ciascuno si pone, in primo luogo, il problema vocazionale, l’esigenza di discernere la specifica vocazione che Dio ci riserva nel nostro compito di annunciare il Vangelo e trasmettere la fede. Il che significa  non solo “sapere” quello che Dio vuole da noi, ma anche l’impegno a “fare” ciò che lui ci chiede. Anzi, significa diventare “sempre più capaci” di compiere la volontà del Signore. Questo diciamo nel segno di una grande serenità e di una straordinaria fiducia, perché sappiamo che la stessa vocazione è “una grazia che genera altre grazie” e che, quindi, assicura l’aiuto costante e più che abbondante del Signore, come ci ricorda san Leone Magno: «Darà il vigore Colui che ha conferito la dignità!» (Discorso II, 1). Ma, nello stesso tempo, questo diciamo nel segno d’una precisa e irrinunciabile responsabilità che il chiamato riceve: quella di mantenere sempre viva, grata e gioiosa la coscienza della propria vocazione e di rendere più libera, generosa e piena d’amore la risposta a Dio che chiama. «E io risposi: “Eccomi, manda me!”» (Isaia 6, 8).

Nella vita pastorale della Chiesa è di grande importanza il problema vocazionale, ossia l’impegno a discernere, accompagnare, sostenere tutti gli “operai del Vangelo” nelle loro diverse e complementari vocazioni.

 

In questo contesto, decisamente aperto sull’intero arco delle vocazioni, non c’è dubbio che una singolare attenzione deve essere riservata oggi alle vocazioni sacerdotali. Lo rileva esplicitamente l’Esortazione Ecclesia in Europa, che così scrive: «La cura delle vocazioni [dei ministri ordinati e dei consacrati] è un problema vitale per il futuro della fede cristiana in Europa e, di riflesso, per il progresso spirituale degli stessi popoli che l’abitano; è passaggio obbligato per una Chiesa che voglia annunciare, celebrare e servire il Vangelo della speranza» (n. 39).

Queste parole possono trovare, a loro modo, una applicazione anche per la nostra Chiesa particolare. Anche da noi il problema delle vocazioni sacerdotali si presenta come «problema vitale per il futuro della fede cristiana»! Se, come abbiamo detto sin dall’inizio, la nostra responsabilità non riguarda solo il presente, ma anche il futuro della nostra Chiesa, questo delle vocazioni sacerdotali è uno degli spazi primari dove si fa più grave e urgente tale responsabilità.

Non c’è dubbio che un’evangelizzazione più decisa, apostolicamente impegnata e integrale, è il miglior “programma” per ogni pastorale vocazionale. Ma è altrettanto vero che senza sufficienti vocazioni per il ministero ordinato sarà indubbiamente più difficile il servizio al Vangelo e, quindi, non sarà possibile una rinnovata e vigorosa evangelizzazione della nostra Chiesa e del nostro territorio.

«L’amore al presbiterio della nostra Chiesa ambrosiana, – dicevo nella Messa Crismale del Giovedì Santo 2003 – per la ben nota situazione del suo clero, non può non interpellare ciascuno di noi sul problema delle vocazioni. Noi preti, per primi e a un titolo specifico, siamo chiamati a realizzare una vera e propria pedagogia vocazionale, che passa – lo sappiamo bene, ma è doveroso ricordarlo – anzitutto dalla nostra stessa testimonianza di vita».

E concludevo, con un appello che rilancio con convinzione e vigore a tutta la Diocesi: «Di fronte al problema vocazionale, sento vivo il bisogno di ribadire la necessità e l’urgenza di dare vita a “una grande preghiera per le vocazioni”, una preghiera da viversi con intensa fiducia e tenace costanza, capace di coinvolgere personalmente tutti i membri del popolo di Dio – a iniziare da noi Vescovi, Presbiteri e Diaconi – e da esprimersi anche con opportune modalità comunitarie” (Rinnoviamo la nostra comunione presbiterale, Omelia nella Messa Crismale, 17 aprile 2003).

Chiedo, pertanto, che il Centro Diocesano Vocazioni – in stretta collaborazione con il Seminario, il Servizio per la Famiglia, il Servizio per i Ragazzi e l’Oratorio, il Servizio per i Giovani – studi le iniziative più opportune e adeguate da proporre alla Diocesi per una rinnovata e più vigorosa pastorale vocazionale.

In particolare e anzitutto, chiedo che individui le modalità concrete con cui riproporre e promuovere – nelle parrocchie, nei decanati e nelle diverse realtà aggregative – la “grande preghiera per le vocazioni”, coinvolgendo le singole persone – e, in particolare, i ragazzi, gli adolescenti e i giovani –, senza mai dimenticare l’apporto privilegiato che viene dai malati e dai sofferenti.

 

98.   La coscienza viva della propria vocazione a servire il Vangelo è il prerequisito primo e la forza più rilevante per la formazione, così da compiere fedelmente la missione affidata.

In una parola, si tratta di dar vita a una formazione permanente alla “fede adulta”. È una formazione che comporta – come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi Lombardi nel 1991 – «il passaggio da una fede di consuetudine, pur apprezzabile, a una fede che sia scelta personale, illuminata, convinta, testimoniante. È tale fede, celebrata e partecipata nella liturgia e nella carità, che nutre e fortifica la comunità dei discepoli del Signore e li edifica come Chiesa missionaria e profetica…. Il cristiano adulto, che aderisce con scelta personale e convinta al mistero di Cristo, va quindi guidato ad essere capace di offrire agli altri le ragioni della sua fede e della sua appartenenza ecclesiale e va spronato ad inserirsi con stile cristiano nel mondo della cultura, nelle strutture pubbliche, nelle realtà sociali, e nell’impegno politico» (Formati a una fede adulta. Discorso ai Vescovi Lombardi in visita “ad limina Apostolorum”, 3 febbraio 1991, 5-6).

 

La formazione alla “fede adulta” esige, tra l’altro, l’educazione a sentire e vivere la fede cristiana nella sua “totalità unificata”, come triade indivisa e indivisibile di fede confessata-celebrata-vissuta. È di assoluta necessità assicurare alla fede questa sua organicità e unità interiore, non solo per essere fedeli alla sua stessa natura e alla sua singolare ricchezza, ma anche e non meno per poter annunciare in modo credibile ed efficace il Vangelo di Gesù. È in questione, dunque, anche la forza missionaria della fede stessa.

In particolare, è necessario insistere su un aspetto della “totalità unificata” della fede, che riguarda specialmente i laici cristiani: è la loro formazione, di fronte a facili e comuni forme di dissociazione e di contrapposizione, a vivere l’unità di cui è segnato il loro stesso essere di membri della Chiesa e di cittadini della società umana. «Nella loro esistenza non possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta “spirituale”, con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall’altra, la vita cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei rapporti sociali, dell’impegno politico e della cultura. Il tralcio, radicato nella vite che è Cristo, porta i suoi frutti in ogni settore dell’attività e dell’esistenza…» (Christifideles laici, 59).

 

La formazione alla “fede adulta” esige, poi, l’educazione a “pensare” la fede o a crescere in una fede “pensata”. Non esiste fede vera che non sia fede pensata, ossia un’adesione d’amore a Gesù Cristo, che è inscindibilmente adesione al suo stesso “pensiero”: «Noi – scrive in modo incisivo l’apostolo Paolo – abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Corinzi 2, 16). La fede è comunione profondamente personale con Gesù Cristo, Verità e Luce del mondo, e i credenti sono “luce nel Signore”, in possesso di criteri di giudizio e di decisione nuovi e originali, con i quali essi entrano nel dibattito culturale in atto nella società. Vi entrano con questi criteri valutativi e operativi nuovi e, insieme, con un fiducioso e impegnato ricorso alla luce della ragione umana, anch’essa – analogamente alla fede – dono di Dio. In tal modo, possono comprendere e spiegare a sé e agli altri i problemi che investono i più diversi ambiti della vita, dalla bioetica alla famiglia, dall’economia alla politica, dalla comunicazione alla cultura, e così via.

Così la fede si incontra con la “cultura” e con le “culture” presenti nella società: un incontro che significa ascolto, confronto, dialogo, discussione, accoglienza, collaborazione, presa di distanza, rifiuto. In questo senso, l’evangelizzazione e la trasmissione della fede chiedono oggi non solo l’impegno di “diffondere” la parola salvifica del Vangelo nella sua interezza e con tutte le sue conseguenze, ma anche quello di “difendere” questa stessa parola.

È quanto avviene quando i credenti sanno mostrare la verità, la bontà e la bellezza della fede; illustrarla e spiegarla in modo argomentato e puntuale; rispondere con convinzione e portare adeguate motivazioni alle obiezioni che le vengono più o meno esplicitamente rivolte; confrontarsi criticamente e senza complessi di inferiorità con quanto va sempre più emergendo nella mentalità corrente. Scrive il Papa: «Per l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi [i problemi legati all’antropologia e all’etica], è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’essere umano» (Novo millennio ineunte, 51).

Dobbiamo ravvisare qui un punto debole della nostra abituale formazione pastorale. Più in generale, dobbiamo riconoscere una mancata o insufficiente consapevolezza, per non pochi credenti, del valore della cultura, sia in se stessa, sia in specifico rapporto con l’annuncio del Vangelo e con la fede cristiana. E ciò è tanto più preoccupante quanto più ampia e capillare, nei diversi ambienti di vita, si fa la presenza di visioni dell’uomo le più disparate e persino contraddittorie.

Il dovere della formazione alla “fede pensata”, se è di tutti i credenti, lo diviene in modo speciale per coloro che, come docenti e come studenti, sono impegnati nell’ambito della scuola, dell’università e della cultura. Qui le esigenze di razionalità e di scientificità nello studio, nella ricerca e nell’insegnamento chiedono, come necessari, il confronto e il dialogo tra il Vangelo e la cultura, tra la fede e la scienza, tra la “stoltezza della Croce” e la “sapienza degli uomini”.

Concludiamo sottolineando l’esigenza prioritaria di assicurare alle nostre comunità cristiane e, in particolare, agli “operai del Vangelo” uno spazio adeguato per la “formazione dei formatori”.

Uno stile missionario secondo il cuore di Cristo

 

99.   La formazione degli “operai del Vangelo” si radica in profondità e raggiunge il suo vertice quando fa della “coscienza di essere chiamati e mandati” dal Signore il principio interiore che plasma e vivifica i loro pensieri, sentimenti e gesti concreti, in una parola il loro stile di vita. È lo stile proprio del “discepolo”, di colui che deve imitare e rivivere lo stile stesso di Gesù Cristo, il missionario del Padre.

Gesù ha voluto delineare personalmente le attitudini del cuore e le condizioni di vita di colui che egli manda ad annunciare il suo Vangelo. Egli, infatti, in-viando i suoi discepoli in missione durante il suo ministero in Galilea, indica loro l’atteggiamento e il comportamento che devono assumere: una specie di “carta d’identità” dei missionari del Vangelo, perché riproducano sul loro volto, luminosi e affascinanti, i tratti del volto di chi li invia. In realtà, i tre evangelisti sinottici, mentre riferiscono le parole di Gesù (cfr. Matteo 10, 1-15; Marco 6, 6-13; Luca 9, 1-6; 10, 1-12), hanno davanti agli occhi l’azione missionaria delle prime comunità cristiane e sono portati a vedere in questa prima missione dei discepoli nei villaggi della Galilea, se non proprio il fondamento, almeno il “paradigma” di ogni successiva missione della Chiesa. Anche la nostra, dunque.

 

100.   Marco, nella sua descrizione, inizia parlando di Gesù: «Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando. Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli…» (Marco 6, 6-7). Egli va: in questo senso la sua casa è la strada. Egli va instancabilmente: così facendo, testimonia il suo amore che cerca tutti, senza posa. Gesù, dunque, fa in prima persona ciò che poi comanda. In tal senso, i missionari sono coloro che seguono, che imitano il Signore Gesù. Sono i suoi discepoli, più precisamente i discepoli che da lui sono chiamati. Scrive Luca: «Il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò…» (Luca 10, 1). Chiamati da Gesù, i discepoli sono da lui mandati.

Eccoci, allora, di fronte al dono di una grazia e all’affidamento di un compito. I missionari non vanno di loro iniziativa, ma in quanto chiamati e mandati da Gesù, anzi in quanto sono resi partecipi del potere che egli ha ricevuto dal Padre.

Troviamo qui indicata un’attitudine di base, nuova, originale e assolutamente necessaria per gli “operai del Vangelo”: la consapevolezza gioiosa e grata che il vero, grande, unico Missionario del Vangelo è il Signore Gesù. È il protagonista insuperabile, perché è unico. Il discepolo è missionario solo e sempre perché “chiamato” per pura grazia a “partecipare” alla missione di Gesù. Prende così pienezza di significato la parola del Signore: «Gratuitamente avete ricevuto…» (Matteo 10, 8).

È questa la coscienza di cui vibra la Chiesa delle origini: lo Spirito Santo, come dono di Cristo morto e risorto, è «l’agente principale dell’evangelizzazione» e lo è a tal punto che, senza la sua opera, «l’evangelizzazione non sarà mai possibile» (Evangelii nuntiandi, 75). In lui e per lui, Cristo è presente nel cuore di chi annuncia e di chi accoglie il Vangelo e sa operare prodigi: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Marco 16, 20).

Avere sempre limpida e fresca la coscienza della presenza di Gesù e del suo Spirito – e ciò è possibile solo coltivando la preghiera e la santità della vita – è fonte di fiducia incrollabile, di straordinaria audacia e di indomito coraggio nell’annuncio del Vangelo. Come diceva il Papa ai sacerdoti della Diocesi di Roma il 26 febbraio 1998: «Lo Spirito Santo non solo ci accompagna, ci guida e ci sostiene nel cammino della missione. Egli anche e anzitutto ci precede. Lo Spirito, infatti, è misteriosamente presente e operante nel cuore, nella coscienza e nella vita di ogni donna e di ogni uomo… Quando bussiamo alla porta di una casa, o alla porta di un cuore, lo Spirito ci ha già preceduto e l’annuncio di Cristo potrà forse risuonare nuovo all’orecchio di chi ci ascolta, ma non potrà mai risuonare estraneo al suo cuore. Nutrire pessimismo circa la possibilità o l’efficacia della missione sarebbe dunque, cari fratelli, in certo senso un peccato contro lo Spirito Santo, una mancanza di fiducia nella sua presenza e nella sua azione».

 

101.   «Ed incominciò a mandarli a due a due» (Marco 6, 7; cfr. Luca 10, 1). In questo contesto, il “due” è un numero ricco di significato. Dice il camminare, anzi l’essere insieme; parla di aiuto reciproco; è testimonianza viva di quell’amore che, prima di essere proclamato, deve essere vissuto. Il “due” dice l’inizio di una realtà più grande: è il germe della comunità.

La missione ha essenziale e irrinunciabile bisogno di comunione. E, reciprocamente, la comunione è non solo al servizio della missione, ma costituisce il fine e in un certo senso la sostanza stessa della missione. Sì, perché la comunione è evangelizzazione: “dice” chi è Gesù; “dice” chi è il discepolo di Gesù.

È quanto emerge dalla “preghiera sacerdotale” di Gesù: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Giovanni 17, 21). Questa singolarissima unità dei discepoli è veramente inimmaginabile dalla mente e indesiderabile dal cuore dell’uomo, perché è partecipazione misteriosa ma reale dell’unità che costituisce lo stesso “segreto” dell’intimo rapporto tra il Padre e il Figlio: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola». Una simile unità non può non essere una formidabile forza missionaria: «perché il mondo creda che tu mi hai mandato». È dunque la comunione dei discepoli a rivelare, a dire, ad annunciare il mistero stesso di Dio, quel rapporto eterno tra Padre e Figlio che racchiude e sprigiona nel tempo la “missione” di Gesù fra noi, la missione del Figlio che si fa carne per la nostra salvezza.

Citando questo passo, l’Esortazione Christifideles laici conclude: «Così la vita di comunione ecclesiale diventa un segno per il mondo e una forza attrattiva che conduce a credere a Cristo… In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione» (n. 31). È “segno e forza”: sono parole che alludono chiaramente al concetto di “sacramento”, di un segno efficace, che manifesta e insieme comunica. Non c’è modo più eloquente e pregnante per dire la carica missionaria che è insita nella comunione. La comunione, inoltre, «si apre alla missione»: è, dunque, finalizzata alla missione stessa. Per questo, può e deve trovare nella missione le motivazioni e i criteri delle forme concrete del suo realizzarsi. Nella Chiesa si è in comunione “per” la missione!

La comunione può adeguatamente servire la missione evangelizzatrice se si presenta, insieme, come comunione sincera dei cuori e come comunione di opere. La prima, che si radica e si alimenta in una vera e propria spiritualità (cfr. Novo millennio ineunte, 43), nasce e cresce con una serie di attitudini virtuose, tra le quali spiccano l’umiltà, il perdono e la stima reciproca. Queste sono talmente importanti e decisive che la loro assenza o insufficienza fa morire o compromette la comunione stessa. Circa poi la stima vicendevole riascoltiamo l’appello di Paolo: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Romani 12, 10). Ci è chiesto non solo di avere stima gli uni degli altri. Ci è chiesto molto di più: di impegnarci in una specie di vera e propria “gara” in questa avventura spirituale, faticosa sì, ma generatrice di freschezza, di unità e di gioia.

Quanto poi alla comunione delle opere, basta ricordare che sarà il senso vivo e profondo della nostra comune appartenenza all’unica Chiesa e alla sua identica missione a far nascere e sviluppare sia la corresponsabilità sia la compartecipazione concreta all’annuncio del medesimo Vangelo. È in questa comunione ecclesiale che – tra i presbiteri, tra le persone consacrate e tra i fedeli laici, come pure nei loro rapporti vicendevoli – deve trovare spazio l’impegno quotidiano umile, paziente e generoso per realizzare rapporti veramente “ecclesiali”, ossia “fraterni”, nella vita di tutti i giorni e nelle loro opere al servizio del Vangelo: «perché il mondo creda»!

Con questa “spiritualità di comunione” si potranno vivere, in modo corretto e cordiale, le relazioni che, proprio in ordine alla missione, devono svilupparsi tra le stesse comunità ecclesiali (parrocchie, unità pastorali, decanati, zone) e tra i diversi gruppi, associazioni e movimenti. È semplice traduzione del precetto evangelico dire: Ama la parrocchia altrui come la tua! Ama la realtà aggregativa altrui come la tua! In questa stessa linea, si dovrebbe continuare affermando l’esigenza di inserire – secondo verità e carità – il bene della comunione nei rapporti ecumenici e nel dialogo interreligioso. Sempre «perché il mondo creda»!

 

102.   Un altro fondamentale aspetto dello stile cristiano del missionario del Vangelo è l’essenzialità, la sobrietà, la povertà nel cibo, nel vestito, nelle esigenze quotidiane e nelle relazioni interpersonali: «E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche» (Marco 6, 8-9).

«E ordinò loro»: è la prima volta, in Marco, che Gesù comanda qualcosa e non si limita a consigliare. Come a dire che è solo l’obbedienza a Gesù che giustifica e rende possibile la missione in povertà.

«Non portare nulla»: dunque distacco pieno dalle cose, povertà totale. Ma una povertà che è frutto e segno di una grande libertà interiore: quella libertà che ha in sé l’energia di superare ogni possibile preoccupazione terrena, perché emerga e domini l’unica, vera, grande “passione” alla quale il missionario obbedisce, la passione di annunciare – senza ostacoli e freni di qualsiasi genere – il Vangelo, la lieta notizia del Regno di Dio. Nulla, in realtà, è più importante e prioritario del Regno! Solo il Regno è il fatto decisivo per eccellenza: tutte le altre cose passano in secondo piano!

La povertà che il Signore richiede al missionario non può non interpellarci, sempre e in un modo più forte nelle attuali situazioni segnate dalla cultura consumistica, proprio in ordine alla credibilità e all’efficacia dell’annuncio del Vangelo. Solo una Chiesa povera è pienamente libera, e solo una Chiesa libera è veramente missionaria! E questo diciamo non solo dei singoli membri della Chiesa, ma anche delle singole comunità cristiane: delle nostre stesse parrocchie e realtà di Chiesa. In questo senso, non basta che la Chiesa sia attenta e sollecita verso i poveri. Deve passare da una “Chiesa per i poveri” a una “Chiesa povera”, nel senso evangelico del termine: povera perché non s’aggrappa ai potenti di questo mondo; povera perché pronta a disfarsi di inutili pesi; povera perché consapevole che il segreto della propria forza è la grazia di Dio; povera perché capace di usare mezzi umani con distacco e libertà. Come diceva il cardinale Roger Etchegaray al Concistoro straordinario dei Cardinali il 21 maggio 2001, «Tocchiamo qui forse la questione più provocante, la più urgente per l’evangelizzazione del nuovo millennio. Solo una Chiesa povera può diventare una Chiesa missionaria e solo una Chiesa missionaria può esigere una Chiesa povera».

È questa l’indicazione precisa, la consegna solenne che Paolo VI rivolgeva alla Chiesa, «come una confidenza del cuore, che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare», concludendo il suo Pensiero alla morte: «E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione: abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo».

Questo non è un discorso astratto, lontano dalla vita. Al contrario ci sollecita, tutti insieme, a un serio esame di coscienza, che ci aiuti a convertirci, a individuare e a mettere in atto risoluzioni concrete. Proprio in questa linea il cardinale Carlo Maria Martini, in Partenza da Emmaus, scriveva: «Lo stile di povertà impone la sobrietà nel dotarci di mezzi e strutture pastorali, l’esempio rigoroso di povertà personale, l’amministrazione dei beni comunitari veramente finalizzata alla carità, lo scambio anche di beni economici tra persone e comunità in vista di una giusta perequazione dei beni personali e comunitari» (n. 23).

 

103.    Altri elementi irrinunciabili dello stile missionario evangelico sono il coraggio e la franchezza (parresìa) di annunciare – in libertà di parola – il Signore Gesù e il suo Vangelo, l’audacia e la disponibilità all’incomprensione, all’odio, all’emarginazione, al rifiuto, e dunque alla persecuzione e al martirio: «Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno…» (Marco 6, 11). Gesù, che dice: «Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (Luca 10, 3), prevede il rifiuto. Egli per primo è stato rifiutato. La stessa triste esperienza potrà verificarsi anche per il discepolo. Questi deve proclamare il messaggio con generosità eroica, ma deve lasciare a Dio il risultato: perché al discepolo è stato affidato un compito, non garantito il successo. Senza dire, peraltro, che il rifiuto che accompagna la missione, non distrugge, anzi realizza il Regno. Non è forse questa la logica del seme che porta frutto solo se è gettato e muore (cfr. Giovanni 12, 24)?

Nel sopportare contrasti e rifiuti da parte dell’ottusità od ostilità degli ascoltatori, come da parte della prepotenza e oppressione delle autorità, anzi nell’aspettarsi dolori e persecuzioni, i discepoli non devono aver paura, perché lo Spirito parlerà in loro (cfr. Matteo 10, 19-20) e il Padre li custodirà (cfr. Matteo 10, 24-31). Unica deve essere la loro preoccupazione: essere fedeli pubblicamente e coraggiosamente alle esigenze radicali del Vangelo e alla croce di Gesù (cfr. Matteo 10, 32-39). Certo, i discepoli possono essere richiesti di pagare un “prezzo” per il Vangelo: il prezzo della sofferenza e persino della morte. Ma è sempre possibile, per grazia, una coesistenza tra la persecuzione e la serenità interiore, anzi la stessa gioia.

 

104.   Anche la gioia spirituale è una componente ineliminabile dello stile del discepolo missionario. Non è senza significato che Luca riferisca questa esperienza dei settantadue discepoli al ritorno della missione ricevuta da Gesù: «I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”. Egli disse loro: “…Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”» (Luca 10, 17-20).

Accogliamo l’invito e l’augurio di Paolo VI: «Conserviamo il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo il corso della storia della Chiesa – uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (Evangelii nuntiandi, 80).

 

Questo che abbiamo sinora descritto è lo stile missionario secondo il cuore di Cristo. È un ideale normativo nel quale fissare continuamente il nostro sguardo, nel senso più radicale e impegnativo, quello della conversione spirituale e pastorale. È una conversione che certamente tocca le stesse comunità, ma che, in definitiva, interpella e coinvolge sempre la singola persona. Non ci sarà l’auspicato, anzi il necessario rinnovamento missionario della Chiesa, delle nostre comunità cristiane, se non ci sarà quello di ciascuno di noi, con tutto il peso e l’onore di una responsabilità personale insostituibile e indelegabile.

Imploriamo dal Signore la grazia di questa conversione! Con fiducia umile e salda, chiediamo a lui che, tra il dono e il compito missionari che ci affida e la fragile libertà umana di ciascuno di noi che gli risponde, non prevalgano mai la nostra infedeltà e la nostra miseria di uomini “plasmati di polvere”. Prevalgano sempre la sua fedeltà e la sua grandezza misericordiosa. Vinca la sua salvezza come “lieta notizia” per noi e per tutti. Sia, ancora e sempre, il suo Vangelo a correre per le strade del mondo e a ricreare in novità il cuore di ogni uomo.


Conclusione

 

Si mise in viaggio verso la montagna…

Maria, icona vivente della Chiesa in missione

 

 

 

105.   Nello stendere queste pagine, mi è tornato spesso il pensiero – che si faceva preghiera – alla Madonna. E mi è venuto spontaneo rivederla in viaggio verso la casa di Elisabetta: un viaggio umano e spirituale che – alla mia mente e al  mio cuore – presentava sempre più una singolare corrispondenza con quanto andavo scrivendo su “il volto missionario della Chiesa di Milano”. Maria mi si delineava, con tratti splendidi e avvincenti, come “icona vivente della Chiesa in missione”.

Ecco, a mo’ di conclusione, alcuni spunti meditativi, che hanno attraversato il mio animo. Li offro con grande semplicità a quanti vorranno leggere questo Percorso pastorale diocesano, nella gioiosa consapevolezza che Maria cammina con noi, perché è parte viva e membro «sovraeminente e del tutto singolare» del Popolo di Dio, e che, anzi, Maria cammina davanti a noi, perché è «figura della Chiesa», è «l’esemplare incomparabile e perfetto» della vita e della missione della Chiesa; di più, è la madre che genera i cristiani e li conduce alla perfezione della carità (cfr. Lumen gentium, 63-65).

 

106.   «In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna…» (Luca 1, 39). Il viaggio non è casuale. Non nasce dalla semplice iniziativa di questa «vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe» (Luca 1, 27). Esso scaturisce da un precedente viaggio: quello di Dio che esce dalla sua beata eternità per entrare nel nostro tempo, che lascia il cielo per discendere sulla terra. È il viaggio dell’Incarnazione, il percorso misterioso e mirabile di Dio che si fa uomo. E la prima tappa è a Nazaret, nel grembo e nel cuore della vergine Maria. A lei l’angelo dice: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Luca 1, 35).

Maria, a sua volta, dà inizio a un’altra tappa. Lasciando Nazaret per portarsi in una città di Giuda, ella – in un certo senso – prosegue e quasi “fa vedere”, nell’incontro e nel dialogo con Elisabetta, il viaggio del Signore. Nello stesso tempo, quello di Maria diventa l’anticipazione e il modello di un grande e inarrestabile viaggio che si snoderà, giorno dopo giorno, su tutte le strade del mondo: è il percorso missionario della Chiesa e dei cristiani. Come «il Signore Dio d’Israele» in Cristo «ha visitato» il suo popolo (Luca 1, 68) e come Maria «ha visitato» Elisabetta e «il bambino» che «le sussultò nel grembo» (Luca 1, 41), così la Chiesa continua nel tempo a “visitare” ogni uomo bisognoso della salvezza di Dio.

 

Maria, nella descrizione dell’evangelista, sembra essere sola nell’affrontare il viaggio «verso la montagna». In realtà, sola non è. Con lei c’è il Signore! In lei è presente e vive, fatto carne umana, il Figlio eterno di Dio.

Così pure è del viaggio missionario della Chiesa: c’è sempre il Signore, lui che invia i suoi discepoli, li guida, li accompagna. E assicura loro la sua permanente e immancabile presenza: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo 28, 20).

Quella del Signore è sempre una presenza operosa, sorgente di prodigi, come ci ricorda Marco: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Marco 16, 20).

Esattamente come è avvenuto nella casa di Zaccaria, nell’incontro tra le due madri e i due figli. E come avviene in ogni incontro tra il Vangelo annunciato e l’uomo chiamato alla fede.

 

Maria «raggiunse in fretta una città di Giuda». Quale città? Si tratta, forse, del delizioso villaggio di Ain Karim, ora divenuto un sobborgo di Gerusalemme, distante circa centocinquanta chilometri da Nazaret. Come non pensare che, soprattutto allora, per una fanciulla più o meno adolescente un viaggio così lungo e faticoso doveva significare un uscire dal proprio piccolo paese per spaziare nel mondo, in un mondo sconosciuto? A Maria quel viaggio verso la montagna doveva sembrare davvero un “andare in capo al mondo”!

Quasi un simbolo di quella missione della Chiesa, che Gesù ha voluto veramente estendere a tutto il mondo: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (Atti 1, 8).

 

107.   Quello di Maria è realmente un viaggio missionario, nel senso che abbiamo illustrato in tutte le pagine precedenti: un viaggio di annuncio del Vangelo e di trasmissione della fede. Maria, infatti, accoglie dall’angelo la “lieta notizia”: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo…» (Luca 1, 30-32). E all’annuncio ella dà la risposta della fede: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Luca 1, 38).

È proprio questa fede che spinge Maria ad alzarsi e a mettersi in viaggio, obbedendo prontamente all’indicazione dell’angelo: «Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio» (Luca 1, 36-37). Ed è ancora la fede che Elisabetta, «piena di Spirito Santo», riconosce in Maria e per la quale la proclama beata: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Luca 1, 45).

È sempre così: «La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi» (Redemptoris missio, 11). Solo la Parola accolta nella fede suscita nel credente il bisogno di portarla agli altri, come luce «per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte» (Luca 1, 79).

 

108.   La fede, per pura grazia di Dio, ha il suo preziosissimo frutto: è Gesù stesso. Sì, frutto della carne verginale di Maria, ma anche e innanzitutto – come non si stancano di cantare i Padri della Chiesa – frutto della sua fede: «Maria, se fu beata per aver concepito il corpo di Cristo – scrive sant’Agostino –, lo fu maggiormente per aver accettato la fede nel Cristo… Di nessun valore sarebbe stata per lei la stessa divina maternità, se lei il Cristo non l’avesse portato nel cuore, con una sorte più fortunata di quando lo concepì nella carne» (La Santa Verginità, 3, 3). Frutto, dunque, della fede amorosa e della carne verginale di Maria è Gesù concepito, portato in grembo e “donato” da lei, la Madre, a Elisabetta e al figlio che è in attesa di nascere.

Luca è esplicito al riguardo: «Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”» (Luca 1, 41-44).

Proprio questo sussultare ed esultare di gioia è il “segno” che Gesù, portato da Maria, è entrato in comunione con il nascituro Giovanni Battista e si è donato a lui come sorgente di grazia e di santificazione. Lo ricorda in un suo bellissimo testo sant’Ambrogio: «Si vedono subito gli effetti benefici della venuta di Maria e della presenza del Signore… Elisabetta per prima intese la voce [di Maria], ma Giovanni fu il primo a sperimentare la grazia: quella intese nell’ordine della natura, questi esultò per effetto del mistero, quella avvertì la venuta di Maria, questi la venuta del Signore, la donna avvertì quella dell’altra donna, il figlio quella dell’altro figlio; queste parlano parole di grazia, quelli la esercitano restando nascosti; e danno inizio al mistero della pietà facendone profittare le loro madri, mentre queste, con duplice prodigio, profetizzano nello spirito dei loro figli. Il bambino esultò, e la madre fu ripiena dello Spirito: né la madre fu ripiena prima del figlio, ma essendo il figlio ripieno dello Spirito Santo, ne ricolmò anche la madre» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 22-23).

Siamo veramente al “cuore” della missione evangelizzatrice. Questa è sì annuncio del Vangelo, ma più precisamente è comunicazione-donazione del Vangelo vivente e personale che è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, Figlio del Padre e figlio della Vergine, unico, universale e necessario Salvatore dell’uomo e del mondo.

L’opera missionaria, nella sua verità intera, originale e sorprendente, è una vera e propria “generazione”, come del resto affermava l’apostolo Paolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo» (1 Corinzi 4, 15); «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (Galati 4, 19). E si tratta, da parte della Chiesa in missione, di una gratuita, misteriosa, ma reale “partecipazione” alla maternità stessa di Maria.

109.   Alla radice dell’evangelizzazione stanno la presenza e l’impulso dello Spirito Santo. Se Maria, messasi in viaggio verso la montagna, «raggiunse in fretta» la meta, lo dobbiamo non semplicemente al suo amore pronto e premuroso verso una parente bisognosa, quanto all’accendersi nel suo cuore di un fuoco nuovo, quello dello Spirito. Interessante è il commento di sant’Ambrogio su questo “affrettarsi” di Maria verso la montagna: «Dove – si chiede –, se non verso le cime, doveva tendere premurosamente colei che già era piena di Dio?». E subito risponde, indicando la molla di simile dinamismo: «La grazia dello Spirito Santo non conosce ostacoli, che ritardino il passo» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19). È per opera dello Spirito che Maria concepisce il Figlio di Dio; è sempre per opera del medesimo Spirito che lo porta e lo dona a Elisabetta e al Battista.

E da sempre, come testimonia la Pentecoste, la missione evangelizzatrice della Chiesa – il suo donare Cristo al mondo – scaturisce dal vento e dal fuoco dello Spirito. È questa la promessa di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni…» (Atti 1, 8). Ed è questo il compimento della promessa: «Essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi» (Atti 2, 4).

Proprio in riferimento a quest’ultimo passo, Giovanni Paolo II, nell’omelia tenuta a Milano, al Gallaratese, il 22 maggio 1983, diceva: «Con questo dono delle lingue è entrato nel cenacolo il mondo degli uomini, che parlano le varie lingue, ed ai quali bisogna parlare in varie lingue per essere compresi nell’annuncio delle “grandi opere di Dio” (At 2, 11). Dunque, nel giorno della Pentecoste è nata la Chiesa, sotto il po-tente soffio dello Spirito Santo. Essa è nata, in un cer-to senso, in tutto il mondo abitato dagli uomini, che parlano diverse lingue. È nata per andare in tutto il mondo… È nata perché, ammaestrando gli uomini e le nazioni, essa nasca sempre di nuovo mediante la parola del Vangelo».

Sorgente e forza della missione evangelizzatrice è lo stesso Spirito che, alla vigilia della Pentecoste, è stato implorato dalla preghiera di Maria (cfr. Atti 1, 14) e che da lei viene continuamente richiesto per la Chiesa nel suo annuncio di salvezza rivolto senza posa a tutti gli uomini.

 

110.   Il brano evangelico di Luca pone in luce altri aspetti della fede di Maria, che si possono immediatamente collegare a quella “totalità unificata” di cui più volte abbiamo parlato: la fede  è autentica e coerente con la sua intima natura solo se è, inscindibilmente, fede confessata-celebrata-vissuta. Proprio questo triplice valore emerge luminoso dal “viaggio missionario” di Maria alla parente Elisabetta.

La vergine madre “confessa” la sua fede in Dio, riconoscendo di essere «la serva del Signore» (Luca 1, 38); accogliendo da Elisabetta la rivelazione della maternità inimmaginabile che le è stata donata: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (Luca 1, 43); proclamando la grandezza e la misericordia di Dio e delle sue opere, non solo nei riguardi dell’umile sua serva, ma anche nei riguardi delle vicende storiche di Israele e dell’umanità: «Allora Maria disse: “…Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore…”» (Luca 1, 46.49-51).

Maria, inoltre, testimonia una fede nel Signore che si fa vera e propria “celebrazione” con il canto di esultanza, di gratitudine e di lode del Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore…» (Luca 1, 46-47).

Quella di Maria, infine, è una fede “vissuta” mediante il “sì” della libera e totale consegna di se stessa al disegno di Dio sulla propria esistenza: «avvenga di me quello che hai detto» (Luca 1, 38) e mediante il servizio premuroso e generoso della carità nella casa di Elisabetta: «Maria rimase con lei circa tre mesi» (Luca 1, 56).

La fede di Maria, possiamo dire, non appartiene solo a lei. È diventata un dono e un bene disponibili per tutti coloro che Gesù, dall’alto della croce, ha affidato come figli alla sua maternità di grazia (cfr. Giovanni 19, 26). Alla Chiesa viene data così la grazia di prendere parte alla fede di Maria e, in questo modo, di condividere la sua stessa “maternità”. Lo afferma il Concilio, scrivendo: «La Chiesa, contemplando l’arcana santità di Maria, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio» (Lumen gentium, 64).

In questo senso, si deve dire che la missionarietà della Chiesa, come grazia e responsabilità di annunciare e donare Gesù Cristo al mondo, trova principio, esempio e stimolo – anche e in particolare – nella grande fede di Maria, la Vergine Madre: «Anche nella sua opera apostolica la Chiesa giustamente guarda a colei che generò Cristo, il quale fu concepito di Spirito Santo e nacque dalla Vergine, per poter poi nascere e crescere per mezzo della Chiesa anche nel cuore dei fedeli. La Vergine infatti nella sua vita fu il modello di quell’amore materno, del quale devono essere animati tutti quelli che nella missione apostolica della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini» (Lumen gentium, 65).

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore,

non manchi mai la nostra fervida preghiera a Maria, Madre di Cristo e della Chiesa, perché, sul suo esempio e con la sua grazia, possiamo quotidianamente crescere nella fede, così da poterla testimoniare e annunciare a tutti con sempre rinnovato fervore e slancio missionario.

E sant’Ambrogio, patrono della nostra Chiesa, ci doni di condividere con lui la gioia e lo stupore della “beatitudine” della fede: «Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì creduto, e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. Beata tu che hai creduto. Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio, e ne comprende le operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio; se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 26).

 

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