LETTERA ENCICLICA
SPE SALVI
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULLA SPERANZA CRISTIANA
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LITTERAE ENCYCLICAE
SPE SALVI
SUMMI PONTIFICIS
BENEDICTI PP. XVI
EPISCOPIS
PRESBYTERIS AC DIACONIS
VIRIS ET MULIERIBUS CONSECRATIS
OMNIBUSQUE CHRISTIFIDELIBUS LAICIS
DE SPE CHRISTIANA
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Introduzione |
Prooemium |
1. 㐅 SALVI facti sumus 栮ella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La ⥤enzione ଡ salvezza, secondo la fede cristiana, non 蠵n semplice dato di fatto. La redenzione ci 蠯fferta nel senso che ci 蠳tata donata la speranza, una speranza affidabile, in virt䥬la quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, puॳsere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta 蠣os젧rande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere 蠭ai questa speranza per poter giustificare l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perch頥ssa c'謠noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?
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1. 㐅 SALVI facti sumus 校it sanctus Paulus Romanis et nobis quoque (Rom 8,24). ⥤emptio ೡlus in christiana fide non est tantum simplex notitia. Redemptio nobis offertur eo sensu quod spes data est nobis, spes vero credenda, vi cuius nos praesentem possumus oppetere vitam: operosam quoque praesentem vitam quae geri et accipi potest, dummodo perducat in metam atque si de hac meta certi esse possumus, si haec meta ita sublimis est ut pondus itineris pretium sit operae. Nunc statim menti quaestio obversatur: talis spes cuiusnam est generis, ut comprobari possit assertio secundum quam, initio ab illa sumpto, et simpliciter quoniam illa exsistit, nos redempti sumus? Ac de quanam agitur certitudine?
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La fede 蠳peranza |
Fides spes est |
2. Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo ascoltare ancora un po' piᴴentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza. 㰥ranza ऩ fatto, 蠵na parola centrale della fede biblica ᬠpunto che in diversi passi le parole 楤e 堫 speranza 㥭brano interscambiabili. Cos젬a Lettera agli Ebrei lega strettamente alla nezza della fede 豰,22) la 魭utabile professione della speranza 豰,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos 鬠senso e la ragione 䥬la loro speranza (cfr 3,15), 㰥ranza 蠬'equivalente di 楤e ѵanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche lࠤove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero 㥮za speranza e senza Dio nel mondo 腦 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli d詬 che avevano avuto una religione, ma i loro d詠si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli d詬 essi erano 㥮za Dio 堣onseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. 鮠nihil ab nihilo quam cito recidimus 莥l nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) [1] dice un epitaffio di quell'epoca ࡲole nelle quali appare senza mezzi termini ciࡠcui Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete ᦦliggervi come gli altri che non hanno speranza 豠Ts 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non 蠣he sappiano nei particolari ciࣨe li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro 蠣erto come realt࠰ositiva, diventa vivibile anche il presente. Cos젰ossiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una ⵯna notizia 栵na comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo 鮦ormativo ୡ ॲformativo é೩gnifica: il Vangelo non 蠳oltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma 蠵na comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, 蠳tata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli 蠳tata donata una vita nuova.
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2. Priusquam his nostris quaestionibus, hodie in animo peculiariter insculptis, mentem intendamus, audiamus oportet accuratius quid Sacra Scriptura de spe testetur. 㰥s ⥶era vox principalis est biblicae fidei 寠ut in diversis locis voces 橤es 崠㰥s 䲡nsmutabiles videantur. Ita Epistula ad Hebraeos cum ଥnitudine fidei 豰,22) arte coniungit 㰥i confessionem indeclinabilem 豰,23). Etiam in Epistula Prima Petri, cum christianos hortatur ut promptos sese praebeant ad responsum reddendum de voce logos 䥠sensu scilicet et ratione 㵡e spei (cfr 3,15), 㰥s 餥m est ac 橤es ѵam decretorium fuerit ad conscientiam primorum christianorum spem credibilem veluti donum recepisse, elucet quoque cum exsistentia christiana comparatur cum vita ante fidem vel cum statu aliarum religionum asseclarum. Paulus Ephesiis memorat quomodo illi, priusquam Christum convenirent, fuerint ಯmissionis spem non habentes, et sine Deo in hoc mundo 腰h 2,12). Ille profecto bene novit eos proprios habuisse deos, propriam professos esse religionem; de eorum tamen diis controversias ortas esse et ex eorum contradictoriis fabulis ne ullam quidem spem profluere. Quamvis deos haberent, vitam degebant 㩮e Deo apropter in mundo obscuro morabantur, tenebroso futuro obversabantur. 鮠nihil ab nihilo quam cito recidimus
졠href="#nota01lt" name="nota01l">[1] scriptum legitur quodam in epitaphio illius aetatis 楲ba quibus aperte palamque declaratur id quod Paulus innuit. Qui eodem sensu Thessalonicenses alloquitur: vos ita agite 崠non contristemini sicut et ceteri, qui spem non habent 豠Thess 4,13). In his quoque verbis propria christianorum nota apparet, nempe quod illi habent futurum: quamvis venturi temporis singula ignorent, summatim tamen norunt vitam in vacuum non reduci. Tantummodo cum futurum certum est uti realitas positiva, tunc praesens dignum est ut vivatur. Itaque dicere possumus: christianismum non solum esse ⯮um nuntium 栩d est communicationem rerum quae ad illud usque tempus ignorabantur. Hodierno sermone dicere possumus christianum nuntium non tantum 鮦ormativum 峳e, verum etiam ॲformativum ѵod sibi vult: Evangelium non est tantum communicatio rerum quae sciri valent, sed communicatio quae actus edit vitamque transformat. Obscura porta temporis, venturi temporis, aperta est. Qui spem habet, aliter vivit; quoniam nova vita data est illi.
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3. Ora, per젳i impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, 蠫 redenzione ¥ne: il nucleo della risposta 蠤ato nel brano della Lettera agli Efesini citato poc'anzi: gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perch頥rano 㥮za Dio nel mondo ǩungere a conoscere Dio 鬠vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non 蠰iॲcepibile. L'esempio di una santa del nostro tempo pu੮ qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all'africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa 쥩 stessa non sapeva la data precisa Darfur, in Sudan. All'etࠤi nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrov servizio della madre e della moglie di un generale e l젯gni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciଥ rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, torn੮ Italia. Qui, dopo ࡤroni 㯳젴erribili di cui fino a quel momento era stata proprietଠBakhita venne a conoscere un ࡤrone 䯴almente diverso dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava ࡲon 鬠Dio vivente, il Dio di Ges㲩sto. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, per젳entiva dire che esiste un ࡲon ᬠdi sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore 蠢uono, la bontࠩn persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei ᮺi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal ࡲon 㵰remo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava ᬬa destra di Dio Padre ϲa lei aveva 㰥ranza 栮on pi㯬o la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada 鯠sono attesa da questo Amore. E cos젬a mia vita 蠢uona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era ⥤enta யn si sentiva pi㣨iava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciࣨe Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo 㥮za speranza perch頳enza Dio. Cos쬠quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiut렮on era disposta a farsi di nuovo separare dal suo ࡲon ɬ 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a Verona, pronuncivoti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora ᣣanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro 㥲c੮ vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Ges㲩sto, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva ⥤enta யn poteva tenerla per s黠questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.
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3. Nunc tamen quaestio proponitur: quanam in re consistit haec spes quae, uti spes, est ⥤emptio ҥapse, medulla responsionis continetur verbis Epistulae ad Ephesios quae nuper memoravimus: Ephesii, priusquam Christum convenirent, spe carebant, quoniam 鮠hoc mundo sine Deo �abantur. Deum 楲um Deum 㯧noscere posse idem est ac spem recipere. Nos, viventes semper sub christiano Dei conceptu et ad eundem consueti, possessionem spei, quae provenit ex vero occursu cum hoc Deo, percipere quasi non possumus. Exemplum, sumptum ex quadam sancta muliere nostrae aetatis, quodammodo conferre potest ad intellegendum quid significet prima vice ac reapse hunc Deum convenire. Etenim mens Nostra vertitur ad Iosephinam Bakhita, cui sanctorum honores decrevit Summus Pontifex Ioannes Paulus II. Nata est circa annum MDCCCLXIX ipsa quidem exactum natalem diem suum noverat 鮠loco dicto Darfur, in Sudania. Novem annos nata a servorum negotiatoribus rapta est, cruenter percussa et quinquies apud mercatus Sudanienses venundata. Deinde, veluti serva opus praestare debuit matri et uxori cuiusdam ducis, et illic cotidie ad sanguinem vapulabat; quamobrem totam per vitam portavit centum quadraginta et quattuor cicatrices. Tandem anno MDCCCLXXXII a quodam mercatore Italo empta est pro Italiae consule Callisto Legnami, qui ob incursum Madhistarum in Italiam rediit. Hic autem, post terrificos illos 䯭inos ࡤ quos in proprietate pertinuerat, Bakhita novisse potuit 䯭inum ಯrsus diversum, quem 帠loquela Venetiarum quam tunc didicerat 렰aron ᰰellabat, Deum scilicet viventem, Deum Iesu Christi. Hactenus tantummodo dominos noverat qui spernebant et vexabant eam, aut, in adiunctis minus asperis, tamquam utilem servam aestimabant. Nunc vero audiebat unum esse ࡲon ᵩ omnes dominos excellit, Dominum omnium dominorum; et hunc Dominum bonum esse, ipsam nempe Bonitatem. Paulatim percipiebat se ab hoc Domino cognosci, creatam esse 魭o diligi. Ipsa quoque amabatur ab hoc supremo ࡲon ੮ cuius conspectu omnes ceteri domini nonnisi miseri servi sunt. Ipsa cognoscebatur et amabatur et exspectabatur. Quinimmo, hic Dominus ipse condicionem verberationum passus erat, et nunc eam praestolabatur ᤠdexteram Dei Patris εnc ea 㰥m 衢ebat amplius tantum parvam spem dominos minus crudeles inveniendi, sed summam spem: ego tandem amatam me sentio et, quodcumque eveniat, ab hoc Amore exspector. Et ita vita mea bona est. Huius spei cognitione nutrita, ipsa ⥤emptam 㥠sentiebat, percipiebat se non amplius servam, sed liberam Dei filiam esse. Intellegebat quae Paulus dicere voluit, Ephesios alloquens ipsos primum sine spe et sine Deo in mundo fuisse 㩮e spe quoniam sine Deo. Ita, cum quidam eam transferre vellent in Sudaniam, Bakhita recusavit; nolebat a suo ࡲon 鴥rum separari. Die IX mensis Ianuarii anno MDCCCXC baptismo ac confirmatione est insignita, et insuper recepit primam sanctam Communionem e manibus Patriarchae Venetiarum. Die VIII mensis Decembris anno MDCCCXCVI Veronae vota nuncupavit apud Congregationem Sororum Canossianarum, ex quo tempore ಡeter munera aedituae et ostiariae coenobii 桲iis in suis itineribus intra Italiae fines, contendit praesertim stimulos ad missionem suscitare: liberationem enim illam, quam conveniens Deum Christi Iesu obtinuerat, etiam ad alios, ad quam maximum hominum numerum, extendere cupiebat. Spem, quae pro ea nascebatur eamque redemerat, sibi reservare non poterat; haec enim spes plurimos contingere, omnes contingere debebat.
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Il concetto di speranza basata sulla fede nel Nuovo Testamento e nella
Chiesa primitiva |
Notio spei quae fide nititur apud Novum Testamentum primaevamque Ecclesiam |
4. Prima di affrontare la domanda se l'incontro con quel Dio che in Cristo ci ha
mostrato il suo Volto e aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non solo
鮦ormativo ୡ anche ॲformativo ඡle a dire se possa trasformare la
nostra vita cos젤a farci sentire redenti mediante la speranza che esso esprime,
torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non 蠤ifficile rendersi conto che
l'esperienza della piccola schiava africana Bakhita 蠳tata anche l'esperienza
di molte persone picchiate e condannate alla schiavitl'epoca del
cristianesimo nascente. Il cristianesimo non aveva portato un messaggio
sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva
fallito. Ges era Spartaco, non era un combattente per una liberazione
politica, come Barabba o Bar-Kochba. Ciࣨe Gesŧli stesso morto in croce,
aveva portato era qualcosa di totalmente diverso: l'incontro col Signore di
tutti i signori, l'incontro con il Dio vivente e cos젬'incontro con una
speranza che era pi毲te delle sofferenze della schiavit堣he per questo
trasformava dal di dentro la vita e il mondo. Ciࣨe di nuovo era avvenuto
appare con massima evidenza nella Lettera di san Paolo a Filemone.
Si tratta di una lettera molto personale, che Paolo scrive nel carcere e affida
allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo padrone ᰰunto Filemone. S쬠Paolo
rimanda lo schiavo al suo padrone da cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma
pregando: 䩠supplico per il mio figlio che ho generato in catene [...] Te
l'ho rimandato, lui, il mio cuore [...] Forse per questo 蠳tato separato da te
per un momento, perch頴u lo riavessi per sempre; non piॲ࣯me schiavo, ma
molto pi㨥 schiavo, come un fratello carissimo 輩>Fm 10-16). Gli
uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e
schiavi, in quanto membri dell'unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e
sorelle 㯳젩 cristiani si chiamavano a vicenda. In virt䥬 Battesimo erano
stati rigenerati, si erano abbeverati dello stesso Spirito e ricevevano insieme,
uno accanto all'altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne
rimanevano le stesse, questo cambiava la societࠤal di dentro. Se la Lettera
agli Ebrei dice che i cristiani quaggi hanno una dimora stabile, ma
cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciਠtutt'altro
che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la societ࠰resente viene
riconosciuta dai cristiani come una societࠩmpropria; essi appartengono a una
societuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro
pellegrinaggio, viene anticipata. |
4. Antequam rem aggrediamur utrum occursus cum illo Deo, qui in Christo nobis ostendit Vultum suum et aperuit Cor suum, possit quoque nobis esse non solum 鮦ormativus ඥrum etiam ॲformativus est utrum vitam nostram ita transformare valeat ut nos redemptos sentiamus per spem quae illud secum fert, ad primaevam Ecclesiam iterum redeamus. Haud difficile est percipere parvae servae Africae Bakhitae experientiam eandem fuisse ac tot hominum qui tempore nascentis christianismi vexati sunt et servitute damnati. Christianismus non proclamaverat socialem et turbulentum nuntium, sicut fuerat nuntius quo Spartacus, cruentis certationibus, fefellerat. Iesus non erat Spartacus, nec proeliabatur pro politica liberatione, uti Barabbas vel Bar-Kochba. Quod Iesus, Ipse in cruce mortuus, pertulerat, aliquid erat omnino diversum: occursus nempe cum Domino omnium dominorum, occursus cum Deo viventi, itaque occursus cum spe quae tribulationibus servitutis fortior erat, quapropter vitam et mundum ab intra transformabat. Quod iterum evenerat, in sancti Pauli Epistula ad Philemonem evidentissime patet. Agitur quidem de epistula admodum personali, quam Paulus in carcere scribit et fugitivo servo Onesimo committit ut eam tradat domino suo pe Philemoni. Paulus enim rursus mittit servum ad eius dominum a quo fugerat; et hoc facit non imperans, sed adprecans: ecro te de meo filio, quem genui in vinculis [...] quem remisi tibi: eum, hoc est viscera mea [...] Forsitan enim ideo discessit ad horam, ut aeternum illum reciperes, iam non ut servum sed plus servo, carissimum fratrem 萨ilm 10-16). Homines qui, secundum civilem condicionem, inter se conveniunt veluti domini et servi, quatenus membra unius Ecclesiae facti sunt invicem fratres ac sorores 崠sic mutuo christiani sese appellabant. Per Baptismum regenerati erant et ducti ad bibendum eundem Spiritum, et simul iuncti, alius prope alium, Domini Corpore reficiebantur. Quamvis externae structurae eaedem manerent, hoc ab intra mutabat societatem. Cum vero Epistula ad Hebraeos asserit christianos his in terris mansionem stabilem non habere, sed potius venturam quaerere conversationem (cfr Heb 11,13-16; Philp 3,20), quae res prorsus est alia res quam mera in futuram exspectationem remissio: hodierna societas agnoscitur a christianis uti societas impropria; ipsi enim ad novam pertinent societatem, ad quam iter suscipiunt, quaeque ab ipsis peregrinantibus in antecessum accipitur. |
5. Dobbiamo aggiungere ancora un altro punto di vista. La Prima Lettera ai Corinzi (1,18-31) ci mostra che una grande parte dei primi cristiani apparteneva ai ceti sociali bassi e, proprio per questo, era disponibile all'esperienza della nuova speranza, come l'abbiamo incontrata nell'esempio di Bakhita. Tuttavia fin dall'inizio c'erano anche conversioni nei ceti aristocratici e colti. Poich頰roprio anche loro vivevano 㥮za speranza e senza Dio nel mondo ɬ mito aveva perso la sua credibilitla religione di Stato romana si era sclerotizzata in semplice cerimoniale, che veniva eseguito scrupolosamente, ma ridotto ormai appunto solo ad una ⥬igione politica ɬ razionalismo filosofico aveva confinato gli d詠nel campo dell'irreale. Il Divino veniva visto in vari modi nelle forze cosmiche, ma un Dio che si potesse pregare non esisteva. Paolo illustra la problematica essenziale della religione di allora in modo assolutamente appropriato, quando contrappone alla vita 㥣ondo Cristo 审 vita sotto la signoria degli 嬥menti del cosmo 胯l 2,8). In questa prospettiva un testo di san Gregorio Nazianzeno puॳsere illuminante. Egli dice che nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perch頯rmai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo [2]. Di fatto, in questa scena 蠣apovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, 蠮uovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cio蠬'universo; non le leggi della materia e dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione, volontଠamore 审 Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l'inesorabile potere degli elementi materiali non 蠰i짵ltima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi. Una tale consapevolezza ha determinato nell'antichitࠧli spiriti schietti in ricerca. Il cielo non 蠶uoto. La vita non 蠵n semplice prodotto delle leggi e della casualitࠤella materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'蠵na volont࠰ersonale, c'蠵no Spirito che in Ges㩠蠲ivelato come Amore
[3].
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5. Addendus est alius aspectus. Epistula Prima ad Corinthios (1,18-31) docet nos plerosque ex primis christianis ad humilem condicionem socialem pertinere, quam ob causam promptos se praebere ad novam spem experiendam, prout ex exemplo sanctae Bakhita deteximus. Nihilominus, inde ab exordiis datae sunt quoque conversiones inter homines nobiles et doctos, eo quod hi ipsi 㩮e spe et sine Deo in mundo 橴am gerebant. Mythus non erat iam credendus; religio Romanae civitatis redacta erat ad simplices caerimonias, quae accurate peragebantur, nunc tamen ad ௬iticam religionem 䵣ebantur. Rationalismus philosophicus deos in ambitum non-exsistentiae relegaverat. Divinitas diversimode in cosmicis esse viribus cogitabatur, aberat tamen Deus, ad quem preces effundi possent. Paulus essentialem religionis illius aetatis materiam plena sermonis proprietate explanat, vitam 㥣undum Christum 㯭parans cum vita sub dominio 嬥mentorum mundi 裦r Col 2,8). Hoc sub prospectu textus quidam sancti Gregorii Nazianzeni quoddam lumen afferre potest. Etenim asserit ille astrologiam finem attigisse illo tempore quo magi stella ducti Christum novum regem adoraverunt, quoniam stellae nunc volvuntur iuxta circulum a Christo descriptum.[2] Etenim hac in scaena invertitur de mundo illius aetatis conceptus, qui, diverso tamen modo, aetate quoque nostra iterum floret. Non sunt elementa mundi, leges materiae quae tandem terrarum orbem et hominem regunt, sed personalis Deus qui stellas, universum scilicet, moderatur; nec leges materiae vel evolutionis constituunt extremum impulsum, sed ratio, voluntas, amor ॲsona. Si vero hanc Personam novimus et Ipsa nos novit, tunc reapse inexorabile elementorum materialium dominium esse desinit extremus impulsus; tunc obnoxii non sumus terrarum orbi nec eius legibus; tunc liberi sumus. Haec vero conscientia antiquitus spiritus apertos ad pervestigationem compulit. Caelum vacuum non est. Vita non est simplex effectus legum et fortuiti casus materiae, sed in omnibus simulque super omnia adest voluntas personalis, Spiritus adest qui in Iesu Amor revelatur.[3] |
6. I sarcofaghi degli inizi del cristianesimo illustrano visivamente questa
concezione ᬠcospetto della morte, di fronte alla quale la questione circa il
significato della vita si rende inevitabile. La figura di Cristo viene
interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella
del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si
intendeva una difficile disciplina accademica, come essa si presenta oggi. Il
filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l'arte essenziale: l'arte di
essere uomo in modo retto 짡rte di vivere e di morire. Certamente gli uomini
giࠤa tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che andavano in giro
come filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le
loro parole si procuravano denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da
dire. Tanto pi㩠cercava il vero filosofo che sapesse veramente indicare la
via della vita. Verso la fine del terzo secolo incontriamo per la prima volta a
Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro,
la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e
nell'altra il bastone da viandante, proprio del filosofo. Con questo suo bastone
Egli vince la morte; il Vangelo porta la veritࠣhe i filosofi peregrinanti
avevano cercato invano. In questa immagine, che poi per un lungo periodo
permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende evidente ciࣨe le persone colte
come le semplici trovavano in Cristo: Egli ci dice chi in realtࠨ l'uomo e che
cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la via e questa
via 蠬a veritEgli stesso 蠴anto l'una quanto l'altra, e perciਠanche la
vita della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la
morte; solo chi 蠩n grado di fare questo, 蠵n vero maestro di vita. La stessa
cosa si rende visibile nell'immagine del pastore. Come nella rappresentazione
del filosofo, anche per la figura del pastore la Chiesa primitiva poteva
riallacciarsi a modelli esistenti dell'arte romana. L젩l pastore era in genere
espressione del sogno di una vita serena e semplice, di cui la gente nella
confusione della grande cittࠡveva nostalgia. Ora l'immagine veniva letta
all'interno di uno scenario nuovo che le conferiva un contenuto piಯfondo: ꉬ Signore 蠩l mio pastore: non manco di nulla ... Se dovessi camminare in una
valle oscura, non temerei alcun male, perch頴u sei con me ... 輩>Sal 23
[22], 1.4). Il vero pastore 蠃olui che conosce anche la via che passa per la
valle della morte; Colui che anche sulla strada dell'ultima solitudine, nella
quale nessuno puࡣcompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla:
Egli stesso ha percorso questa strada, 蠤isceso nel regno della morte, l'ha
vinta ed 蠴ornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con
Lui, un passaggio lo si trova. La consapevolezza che esiste Colui che anche
nella morte mi accompagna e con il suo ⡳tone e il suo vincastro mi d͊sicurezza ࣯sicch頫 non devo temere alcun male 裦r Sal 23 [22],4)
岡 questa la nuova 㰥ranza 㨥 sorgeva sopra la vita dei credenti. |
6. Sarcophagi nascentis christianismi hunc conceptum visibiliter collustrant ꩮ conspectu mortis, in cuius praesentia quaestio de vitae sensu vitari nequit.
Figura Christi in his vetustis sarcophagis praesertim per duas intellegitur
imagines: philosophi nempe et pastoris. Tunc vox losophia 鮠genere non
intellegebatur tamquam difficilis disciplina academica, sicut hodie offertur.
Philosophus potius erat ille qui artem essentialem docere sciebat: artem vi
cuius homo recte se gerit, artem vivendi et moriendi. Profecto, homines pridem
perceperunt plerosque eorum, qui tamquam philosophi vagabantur, veluti magistri
vitae, tantummodo vaniloqui erant qui per suas fabulas sibi pecuniam
conficiebant, dum e contra de vera vita nihil habebant dicendum. Ita verus
philosophus desiderabatur ille qui viam vitae vere docere sciebat. Tertio
exeunte saeculo primum Romae super sarcophagum cuiusdam infantis, in contextu
resurrectionis Lazari, Christi figuram reperimus uti veri philosophi qui altera
manu Evangelium, altera vero baculum viatoris proprium philosophi tenet. Hoc
quidem baculo Ille vincit mortem; Evangelium docet veritatem quam peregrinantes
philosophi frustra quaesiverant. Hac in imagine, quae postea diu permansit in
sarcophagorum arte, evidens redditur id quod homines sive docti sive simplices
inveniebant in Christo: Ille docet nos quisnam vere sit homo et quidnam facere
teneatur ut vere sit homo. Ostendit Ille nobis viam et haec via veritas est.
Ipsemet sive via sive veritas est, idcirco etiam vita est quam omnes quaerimus.
Monstrat Ille nobis viam ultra mortem; tantummodo qui hoc facere valet, verus
est magister vitae. Idem conceptus visibilis redditur sub imagine pastoris.
Sicut evenit in imagine philosophi, ita etiam per imaginem pastoris primaeva
Ecclesia niti poterat exemplis arte Romana exsistentibus. Ibi pastor in genere
desiderium significabat serenae et simplicis vitae, quam gentes in magnae urbis
tumultu versantes appetebant. Tunc imago intellegebatur intra novum ordinem
scaenicum, profundiorem ei proferens sensum: 䯭inus pascit me, et nihil mihi
deerit... Si ambulavero in valle umbrae mortis, non timebo mala, quoniam tu
mecum es... 輩>Ps 23 [22], 1. 4). Verus est pastor Qui novit quoque viam
quae per mortis vallem transit; Ille qui etiam per iter extremae solitudinis, in
quo nemo me comitari potest, mecum ambulat et ducit me ad hoc iter transeundum:
Ipsemet hoc iter percurrit, descendit in regnum mortis, vicit eam et rediit ut
nos comitaretur et certiores faceret nos simul secum transitum invenire posse.
Conscientia, qua novi exsistere Eum, qui etiam in morte me comitatur et virga et
baculo suo me consolatur, ita ut mala non timeam (cfr Ps 23 [22], 4):
haec erat nova spes quae super vitam credentium exoriebatur. |
7. Dobbiamo ancora una volta tornare al Nuovo Testamento. Nell'undicesimo
capitolo della Lettera agli Ebrei (v.1) si trova una sorta di definizione
della fede che intreccia strettamente questa virt㯮 la speranza. Intorno alla
parola centrale di questa frase si 蠣reata fin dalla Riforma una disputa tra
gli esegeti, nella quale sembra riaprirsi oggi la via per una interpretazione
comune. Per il momento lascio questa parola centrale non tradotta. La frase
dunque suona cos캠졠fede 輩> hypostasis delle cose che si sperano;
prova delle cose che non si vedono Хr i Padri e per i teologi del Medioevo
era chiaro che la parola greca hypostasis era da tradurre in latino con
il termine substantia. La traduzione latina del testo, nata nella Chiesa
antica, dice quindi: 쩾Est autem fides sperandarum substantia rerum,
argumentum non apparentium 栬a fede 蠬a 㯳tanza 䥬le cose che si
sperano; la prova delle cose che non si vedono. Tommaso d'Aquino[4],
utilizzando la terminologia della tradizione filosofica nella quale si trova,
spiega questo cos캠la fede 蠵n 쩾habitus ࣩo蠵na costante
disposizione dell'animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e la
ragione 蠰ortata a consentire a ciࣨe essa non vede. Il concetto di 곯stanza 蠱uindi modificato nel senso che per la fede, in modo iniziale,
potremmo dire 鮠germe 栱uindi secondo la 㯳tanza 栳ono gi࠰resenti
in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio perch頬a cosa
stessa 蠧i࠰resente, questa presenza di ciࣨe verrࠣrea anche certezza:
questa 㯳a 㨥 deve venire non 蠡ncora visibile nel mondo esterno (non ꡰpare 젭a a causa del fatto che, come realtࠩniziale e dinamica, la
portiamo dentro di noi, nasce gira una qualche percezione di essa. A Lutero,
al quale la Lettera agli Ebrei non era in se stessa molto simpatica, il
concetto di 㯳tanza l contesto della sua visione della fede, non diceva
niente. Per questo intese il termine ipostasi/sostanza non nel senso
oggettivo (di realt࠰resente in noi), ma in quello soggettivo, come espressione
di un atteggiamento interiore e, di conseguenza, dovette naturalmente
comprendere anche il termine argumentum come una disposizione del
soggetto. Questa interpretazione nel XX secolo si 蠡ffermata ᬭeno in
Germania ᮣhe nell'esegesi cattolica, cosicch頬a traduzione ecumenica in
lingua tedesca del Nuovo Testamento, approvata dai Vescovi, dice: 龠Glaube
aber ist: Feststehen in dem, was man erhofft, ܢerzeugtsein von dem, was man
nicht sieht 覥de 躠stare saldi in ciࣨe si spera, essere convinti di
ciࣨe non si vede). Questo in se stesso non 蠥rroneo; non 蠰er੬ senso del
testo, perch頩l termine greco usato (elenchos) non ha il valore
soggettivo di 㯮vinzione ୡ quello oggettivo di ಯva ǩustamente
pertanto la recente esegesi protestante ha raggiunto una convinzione diversa: ꏲa perயn pu峳ere messo in dubbio che questa interpretazione
protestante, divenuta classica, 蠩nsostenibile ᠨref="#nota05it" name="nota05i">[5].
La fede non 蠳oltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire
ma sono ancora totalmente assenti; essa ci d࠱ualcosa. Ci dࠧira qualcosa
della realtࠡttesa, e questa realt࠰resente costituisce per noi una ಯva ꤥlle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro,
cos젣he quest'ultimo non 蠰i鬠puro -ancora ɬ fatto che questo
futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realt͊futura, e cos젬e cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in
quelle future. |
7. Iterum redeamus oportet ad Novum Testamentum. In capite undecimo Epistulae
ad Hebraeos (v. 1) quandam repperimus definitionem fidei quae hanc virtutem
arte cum spe coniungit. Huius propositionis de praecipuo verbo inde a
Reformatione discussio suscipitur inter exegetas, quae hodie viam aperire
videtur ad communem interpretationem. In praesens hoc praecipuum verbum sine
versione relinquimus. Huiusmodi propositio ita sonat: 橤es est hypostasis
rerum sperandarum; probatio rerum quae conspici nequeunt ɵxta sententiam
Patrum et theologorum Medii Aevi perspicuum erat verbum Graecum hypostasim
Latine vertendum esse sub voce substantiae. Idcirco Latina textus versio,
antiqua in Ecclesia exorta, ita profertur: 峴 autem fides sperandarum
substantia rerum, argumentum non apparentium 쯩> Fides enim est 㵢stantia
⥲um quae sperantur; probatio rerum quae videri nequeunt. Thomas Aquinas,[4]
philosophicae traditionis usurpans verba in qua reperitur, ita rem explanat: ꦩdes est habitus mentis, quo inchoatur vita aeterna in nobis, faciens
intellectum assentire non apparentibus ɤeo conceptus 㵢stantiae �atus
est eo sensu quod per fidem, initiali modo, dicere possemus 鮠germine 捊proinde secundum 㵢stantiam 栩nesse iam in nobis res quae sperantur:
omnia, veram vitam. Et sane quoniam eadem iam res adest, haec praesentia rei
quae eveniet edit quoque certitudinem: haec ⥳ 楮tura in mundo externo
nondum visibilis apparet; attamen, eo quod, uti initialem et dynamicam
realitatem, eam intra nos portamus, iam nunc quaedam innuitur eiusdem perceptio.
Secundum Lutherum, cui Epistula ad Hebraeos paulum placebat, conceptus 공bstantiae �o quo ille fidem percipiebat, fundamento omnino carebat. Hac de
causa vocem hypostasim/substantiam non sensu obiectivo (de re in nobis
exsistente), sed sensu subiectivo intellexit, uti manifestationem cuiusdam
interioris habitudinis et ideo congruenter intellegere debuit quoque vocem
argumentum uti habitudinem subiecti. Haec interpretatio XX saeculo solidata
est 㡬tem in Germania 鮠exegesi quoque catholica, ita ut oecumenica versio
ad linguam Germanicam Novi Testamenti, ab Episcopis approbata, sic proferatur: 꼩>Glaube aber ist: Feststehen in dem, was man erhofft, ܢerzeugtsein von dem,
was man nicht sieht 覩des est: fortes esse in rebus sperandis, persuasos
esse in rebus quae videri nequeunt). Hic effatus per se non est erroneus:
attamen a textus significatione est alienus, quandoquidem Graecana vox (elenchos)
subiectiva ॲsuasionis 橠caret, sed obiectivam ಯbationis 橭 retinet.
Itaque recens exegesis protestantica diversam iure obtinuit persuasionem: 鮍
praesens tamen minime dubitandum est hanc iam traditam protestanticam
interpretationem sustineri non posse 졠href="#nota05lt" name="nota05l">[5] Fides non est solum
personalis inclinatio ad ea quae ventura sunt sed adhuc omnino absunt; ipsa
nobis quiddam largitur. Nobis iam nunc tribuit aliquid realitatis exspectatae,
et haec praesens realitas ಯbationem ᵡndam nobis constituit rerum quae
nondum conspiciuntur. Ipsa attrahit futurum intra tempus praesens, eo ut hoc
extremum tempus non sit amplius solum illud dum Ÿsistentia huius futuri
mutat praesens; praesens futura realitate attingitur, et ita res futurae in
praesentes vertuntur et praesentes in futuras. |
8. Questa spiegazione viene ulteriormente rafforzata e rapportata alla vita
concreta, se consideriamo il versetto 34 del decimo capitolo della Lettera
agli Ebrei che, sotto l'aspetto linguistico e contenutistico, 蠣ollegato
con questa definizione di una fede permeata di speranza e la prepara. Qui
l'autore parla ai credenti che hanno subito l'esperienza della persecuzione e
dice loro: ᶥte preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato
con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze (hyparchonton 槺
bonorum), sapendo di possedere beni migliori (hyparxin 槺
substantiam) e pi䵲aturi 쩾 Hyparchonta sono le proprietଠciࣨe
nella vita terrena costituisce il sostentamento, appunto la base, la 㯳tanza
ॲ la vita sulla quale si conta. Questa 㯳tanza ଡ normale sicurezza
per la vita, 蠳tata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L'hanno
sopportato, perch頣omunque ritenevano questa sostanza materiale trascurabile.
Potevano abbandonarla, perch頡vevano trovato una ⡳e �liore per la loro
esistenza 审 base che rimane e che nessuno puയgliere. Non si puயn
vedere il collegamento che intercorre tra queste due specie di 㯳tanza ലa
sostentamento o base materiale e l'affermazione della fede come ⡳e ࣯me 곯stanza 㨥 permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo
fondamento sul quale l'uomo puయggiare e con ci੬ fondamento abituale,
l'affidabilitࠤel reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova
libertࠤi fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente 蠩n
grado di sostentare, anche se il suo significato normale non 蠣on ci튣ertamente negato. Questa nuova libertଠla consapevolezza della nuova 곯stanza 㨥 ci 蠳tata donata, si 蠲ivelata non solo nel martirio, in cui le
persone si sono opposte allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi
politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si 荊mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichit͊fino a Francesco d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni
Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per
portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone
sofferenti nel corpo e nell'anima. L젬a nuova 㯳tanza 㩠蠣omprovata
realmente come 㯳tanza डlla speranza di queste persone toccate da Cristo
蠳caturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. L젳i 荊dimostrato che questa nuova vita possiede veramente 㯳tanza 夠蠵na 곯stanza 㨥 suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure,
questo loro agire e vivere 蠤i fatto una ಯva 㨥 le cose future, la
promessa di Cristo non 蠳oltanto una realtࠡttesa, ma una vera presenza: Egli
蠶eramente il 橬osofo 堩l ࡳtore 㨥 ci indica che cosa 蠥 dove sta
la vita. |
8. Haec dilucidatio ulterius confirmatur et ad vitam realem transfertur, si
rationem habemus de versu 34o capitis decimi Epistulae ad Hebraeos,
qui, quatenus ad linguam et materiam attinet, cum hac definitione fidei spe
plenae nectitur eamque praeparat. Auctor hoc in loco credentes alloquitur qui
persecutionem experti sunt et dicit illis: 橮ctis compassi estis et rapinam
bonorum (hyparchonton 槺 bonorum) vestrorum cum gaudio
suscepistis, cognoscentes vos habere meliorem substantiam (hyparxin 槺
substantiam) et manentem ༩>Hyparchonta illae sunt proprietates, ea
videlicet quae in terrestri exsistentia victum constituunt, nempe fundamentum, 공bstantiam 렶itae qua fulcitur. Christiani, saevientibus persecutionibus, de
hac 㵢stantia turali vitae securitate, sunt detracti. Pertulerunt eam
quoniam omni modo censebant hanc materialem substantiam neglegi posse. Poterant
eam relinquere, quia invenerant aliud 浮damentum ᰴius ad eorum
exsistentiam, fundamentum permanens, quod nemo auferre valet. Nihil fieri potest
quin nexus videatur inter hanc duplicem speciem 㵢stantiae ੮ter victum
seu fundamentum materiale intercedere et affirmationem fidei uti 浬crum 튵ti manentem 㵢stantiam Ʃdes novum fulcrum confert vitae, novum
fundamentum quo homo fulciri potest, quamobrem consuetum fundamentum,
commendatio proventus materialis, relativum redditur. Nova exsurgit libertas
prae hoc vitae fundamento, quod tantum potest eam simulate sustentare, quamvis
hac de causa congruens eius sensus negari nequeat. Haec nova libertas,
conscientia novae 㵢stantiae ᵡe data est nobis, est revelata non tantum
in martyrio, quo homines protervae ideologiae eiusque politicis instrumentis
obstiterunt, et, per eorum mortem, mundum renovarunt. Ipsa monstrata est
praesertim per extremas renuntiationes inde a monachis veteris temporis ad
Franciscum Assisiensem et ad homines nostrae aetatis, qui apud recentia
Instituta et Motus religiosos, Christi amore compulsi, omnia reliquerunt ut
hominibus fidem et amorem Christi traderent, ut corpore et mente dolentibus
auxilium ferrent. Ibi enim nova 㵢stantia 㯭probata est uti vera 공bstantia ॸ spe horum hominum, Christo ducente, exorta est spes pro aliis
qui vitam in tenebris gerebant et sine spe. Ibi declaratum est hanc vitam novam
possidere vere 㵢stantiam ae pro ceteris vitam promovet. Nobis, qui has
figuras conspicimus, haec eorum actio et vita reapse ಯbatio 峴 quod res
futurae, promissio nempe Christi non solum est realitas speranda, sed vera
praesentia: Ipse est vere losophus 崠ࡳtor ᵩ docet nos quidnam
sit vita et ubinam ipsa inveniatur. |
9. Per comprendere pi profondo questa riflessione sulle due specie di
sostanze 쩾hypostasis e hyparchonta 堳ui due modi di vita
espressi con esse, dobbiamo riflettere ancora brevemente su due parole attinenti
l'argomento, che si trovano nel decimo capitolo della Lettera agli Ebrei.
Si tratta delle parole hypomone (10,36) e hypostole (10,39).
Hypomone si traduce normalmente con ࡺienza 栰erseveranza, costanza.
Questo saper aspettare sopportando pazientemente le prove 蠮ecessario al
credente per poter ﴴenere le cose promesse 裦r 10,36). Nella religiosit͊dell'antico giudaismo questa parola veniva usata espressamente per l'attesa di
Dio caratteristica di Israele: per questo perseverare nella fedeltࠡ Dio, sulla
base della certezza dell'Alleanza, in un mondo che contraddice Dio. Cos젬a
parola indica una speranza vissuta, una vita basata sulla certezza della
speranza. Nel Nuovo Testamento questa attesa di Dio, questo stare dalla parte di
Dio assume un nuovo significato: in Cristo Dio si 蠭ostrato. Ci ha ormai
comunicato la 㯳tanza 䥬le cose future, e cos젬'attesa di Dio ottiene una
nuova certezza. Ƞattesa delle cose future a partire da un presente giࠤonato.
Ƞattesa, alla presenza di Cristo, col Cristo presente, del completarsi del suo
Corpo, in vista della sua venuta definitiva. Con hypostole invece 荊espresso il sottrarsi di chi non osa dire apertamente e con franchezza la verit͊forse pericolosa. Questo nascondersi davanti agli uomini per spirito di timore
nei loro confronti conduce alla ॲdizione 輩>Eb 10,39). 䩯 non ci
ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza 栣os썊invece la Seconda Lettera a Timoteo (1,7) caratterizza con una bella
espressione l'atteggiamento di fondo del cristiano. |
9. Ad hanc considerationem penitius perficiendam de duplici genere substantiarum
龠hypostasis et hyparchonta ᣠde duplici genere vitae cum
iisdem expresso, breviter cogitemus de duobus verbis quae ad rem pertinent,
quaeque inveniuntur in capite decimo Epistulae ad Hebraeos. Agitur de
verbis hypomone (10,36) et hypostole (10,39). Hypomone
recte vertitur in vocem ࡴientiam 栰erseverantiam, constantiam. Facultas
exspectandi, dum patienter probationes tolerantur, necessaria est credenti qui
promissionem reportare possit (cfr 10, 36). In religiosa vita veteris Iudaismi
hoc verbum consulto adhibebatur ad ostendendam exspectationem Dei, proprietatem
populi Israelis: quamobrem perseverandum est in fidelitate erga Deum sub
fulcimine certitudinis Foederis, in hac societate quae Deum impugnat. Ita enim
hoc verbo significatur spes vitaliter gesta, vita quae spei certitudine nititur.
Novo in Testamento haec Dei exspectatio, haec confirmatio a Dei parte novum
sensum accipit: in Christo enim Deo hoc est demonstratum. 㵢stantiam 宩m
rerum venturarum iam nobis patefecit, ita etiam Dei exspectatio novam accipit
certitudinem. Ex rebus enim venturis exspectatur, iam inde a rebus in praesentia
donatis. Exspectatur quidem Christo praesente et cum Christo praesente ut in
eius Corpore totum compleatur donec extremus eius veniat adventus. Verbo autem
hypostole absentia eius exprimitur qui aperte non vult neque honeste
veritatem fortasse periculis obnoxiam. Dum autem absconduntur homines coram
hominibus ex timore ne eorum mores ad ॲditionem ॲducant (Heb
10,39). enim dedit nobis Deus spiritum timoris sed virtutis et dilectionis
et sobrietatis 栩ta contra Epistula Secunda ad Timotheum (1,7)
designat pulchra elocutione intimum christiani adfectum. |
La vita eterna 㨥 cos'迼/i> |
Vita aeterna ᵩd est? |
10. Abbiamo finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e
agli inizi del cristianesimo; 蠳tato perche sempre evidente che non
discorriamo solo del passato; l'intera riflessione interessa il vivere e morire
dell'uomo in genere e quindi interessa anche noi qui ed ora. Tuttavia dobbiamo
adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana 蠡nche per noi oggi una
speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? Ƞessa per noi ॲformativa
栵n messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o 蠯rmai soltanto ꩮformazione 㨥, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata
da informazioni pi⥣enti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla
forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l'accoglienza
del neonato nella comunitࠤei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il
sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il
bambino, e continuava poi con la domanda: 㨥 cosa chiedi alla Chiesa? ꒩sposta: 졠fede ૠE che cosa ti dona la fede? 렌a vita eterna 튓tando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l'accesso alla
fede, la comunione con i credenti, perch頶edevano nella fede la chiave per 졍
vita eterna ĩ fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo,
quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la
comunitଠnon semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano
di piॲ il battezzando: si aspettano che la fede, di cui 蠰arte la
corporeitࠤella Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita 졠vita
eterna. Fede 蠳ostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi
davvero questo 橶ere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede
semplicemente perch頬a vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non
vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna
sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno 곥nza fine ᰰare pi审 condanna che un dono. La morte, certamente, si
vorrebbe rimandare il pi௳sibile. Ma vivere sempre, senza un termine 걵esto, tutto sommato, puॳsere solo noioso e alla fine insopportabile. ȍ
precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel
discorso funebre per il fratello defunto Satiro: 蠶ero che la morte non
faceva parte della natura, ma fu resa realtࠤi natura; infatti Dio da principio
non stabil젬a morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della
trasgressione, la vita degli uomini cominciࡤ essere miserevole nella fatica
quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male,
affinch頬a morte restituisse ciࣨe la vita aveva perduto. L'immortalitࠨ un
peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia ᠨref="#nota06it" name="nota06i">[6].
Gi࠰rima Ambrogio aveva detto: dev'essere pianta la morte, perch頨 causa
di salvezza... ᠨref="#nota07it" name="nota07i">[7]. |
10. Hucusque de fide deque spe locuti sumus Novo in Testamento atque christiani
nominis initiis; manifestum tamen semper fuit non de praeterito solum tempore
nos disserere; tota enim meditatio vitam respicit mortemque hominis in universum
ac proinde etiam nos hodie quoque tangit. Debemus nihilominus expressis verbis
nos interrogare: estne etiam nobis christiana fides hodie, quaedam spes nostram
vitam quae transfigurat atque sustentat? Nobis quidem est ॲformativa 捊nuntius videlicet qui novo modo vitam ipsam etiam conformat, vel iam ꩮformatio 䵭taxat quam interea seposuimus quaeque notitiis recentioribus iam
superata videtur? Responsionem quaerentes nos proficisci volumus a comprobata
dialogi forma qua Baptismi ritus receptionem infantis in credentium communitatem
inducebat et eius in Christo nativitatem. Ante omnia petebat sacerdos quod nomen
infanti elegissent parentes, et proxima deinde prosequebatur interrogatione: ꑵid petis ab Ecclesia? Ŵ respondebatur: 橤em ૠEt quid tibi donat
fides? ૠVitam aeternam ȵnc sermonem conferentes, petebant infanti
parentes accessum ad fidem, cum credentibus communitatem, cum in fide clavem
viderent ad 橴am aeternam ҥ quidem vera, cum praesenti tum praeterito
tempore, hoc agitur in Baptismate cum quis christianus fit: non modo de actu
quodam susceptionis agitur in communitatem, non simpliciter de admissione in
Ecclesiam. Plus sibi parentes exspectant pro infante baptizando: confidunt enim
fidem illam, pars cuius Ecclesiae corpus est eiusque sacramenta, ei ipsi vitam
esse daturam pe vitam aeternam. Spei enim substantia fides est. Cooritur
simul tamen quaestio: cupimusne revera hoc 㥭piternum vivere? Plures forsitan
hodie idcirco fidem repudiant tantummodo quia illis vita aeterna non videatur
optabilis res. Aeternam respuunt vitam sed praesentem accipiunt, et fides
propterea de vita aeterna hunc ad finem videtur potius impedimentum. Vivere enim
in aeternum 㩮e fine ॲgere magis damnatio videtur quam donatio. Mortem
certissime cupiunt differre quam longissime. Atqui vivere sine termino 诣,
omnibus perpensis, videtur tantummodo taedio plenum ac tandem intolerabile
quiddam. Hoc ipsum, verbi gratia, omnino dicit Ecclesiae Pater Ambrosius funebri
in sermone pro fratre Satyro vita functo: 崠mors quidem in natura non fuit,
sed conversa est in naturam; non enim a principio Deus mortem instituit, sed pro
remedio dedit [...] Praevaricatione damnata in labore diuturno, gemituque
intolerando vita hominum coepit esse miserabilis: debuitque dari finis malorum,
ut mors restitueret, quod vita amiserat. Immortalitas enim oneri potius quam
usui est, nisi aspiret gratia 졠href="#nota06lt" name="nota06l">[6] Iam antea dixerat Ambrosius:
igitur maerenda mors, quae causa salutis est publicae 졠href="#nota07lt" name="nota07l">[7] |
11. Qualunque cosa sant'Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole
蠶ero che l'eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato
metterebbe la terra e l'umanitࠩn una condizione impossibile e non renderebbe
neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente c'蠵na contraddizione nel
nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietࠩnteriore della
nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci
ama non vuole che moriamo. Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di
continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non 蠳tata creata con
questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del
nostro stesso atteggiamento suscita una domanda piಯfonda: che cosa 謠in
realtଠla 橴a Šche cosa significa veramente 崥rnit࠻? Ci sono dei
momenti in cui percepiamo all'improvviso: s쬠sarebbe propriamente questo 졠궩ta 楲a 㯳젥ssa dovrebbe essere. A confronto, ciࣨe nella quotidianit͊chiamiamo 橴a ੮ veriton lo 讠Agostino, nella sua ampia lettera sulla
preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre
consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa 렬a vita beata 튬a vita che 蠳emplicemente vita, semplicemente 楬icit࠻. Non c'謠in fin
dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient'altro ci siamo
incamminati 䩠questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando
meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo
propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtanche in quei momenti in
cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. sappiamo che cosa
sia conveniente domandare १li confessa con una parola di san Paolo (Rm
8,26). Ciࣨe sappiamo 蠳olo che non 蠱uesto. Tuttavia, nel non sapere
sappiamo che questa realtࠤeve esistere. 㧨 dunque in noi una, per cos썊dire, dotta ignoranza 輩>docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che
cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa 楲a vita ॠtuttavia
sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale
ci sentiamo spinti[8]. |
11.
Quidquid his verbis ipsis sanctus Ambrosius dicere voluit 楲um quidem
est mortis amotionem vel etiam dilationem sine fine reicere terram ipsam
hominumque genus in condicionem intolerabilem neque singulis ipsis ullum
adferre beneficium. Manifesto exsistit hic repugnantia quaedam in
nostris adfectionibus, quae ad interiorem quandam nostrae ipsius
exsistentiae contradictionem reicit. Ex altera enim parte mori nolumus;
at praecipue qui nos diligit mori nos non vult. Ex altera vero neque
exsistere sine termino optamus neque condita est terra hoc cum rerum
prospectu. Quid igitur reapse concupiscimus? Hoc velut paradoxum nostri
ipsius animi altiorem excitat interrogationem: re quidem vera quid est ꉉvita Ŵ quid sibi vere vult vocabulum ᥴernitatis Ʃt
nonnumquam ut inopinato perspiciamus: ita hoc proprie esset 렶ita ꉉvera 㩣que esse deberet. Ex contrario id quod cotidiana in actione ꉉvitam cupamus, reapse non id est. Sua in fusiore epistula de
oratione ad Probam, viduam nempe Romanam, prosperam triumque matrem
consulum, scripsit quondam: Unum dumtaxat ad extremum conquirimus 덊 beatam vitam ඩtam quae simpliciter est vita, est simpliciter ꉉfelicitas ϭnibus quidem ponderatis nihil aliud est quod precantes
petimus. Ad nihil aliud progredimur 䥠hac una re agitur. Sed etiam
postmodum Augustinus addit: melius quidem intuentes, minime novimus quid
tandem exoptemus quid vere velimus. Etenim hanc rem ignoramus nos; tunc
etiam, cum attingere id nos arbitramur, revera non tangimus. quid
oremus, sicut oportet, nescimus ੰse verbis sancti Pauli confitetur (Rom
8,26). Id quod scimus non id solum est quod quaerimus. Nescientes tamen
scimus hoc revera exsistere debere. 峴 ergo in nobis quaedam, ut ita
dicam, docta ignorantia ೣribit ille. Revera nescimus quid vere
velimus; non hanc 楲am vitam 㯧noscimus; et tamen comprehendimus
exsistere aliquid debere quod nos non noverimus et ad quod impelli nos
sentimus.[8] |
12. Penso che Agostino descriva l젩n modo molto preciso e sempre valido la
situazione essenziale dell'uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue
contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa,
quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo
non conosciamo ciඥrso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di
protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciࣨe possiamo
sperimentare o realizzare non 蠣iࣨe bramiamo. Questa 㯳a 駮ota 蠬a
vera 㰥ranza 㨥 ci spinge e il suo essere ignota 謠al contempo, la causa
di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi
verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola 橴a eterna 㥲ca di
dare un nome a questa sconosciuta realtࠣonosciuta. Necessariamente 蠵na
parola insufficiente che crea confusione. 崥rno ੮fatti, suscita in noi
l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; 橴a 㩠fa pensare alla
vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, 荊spesso allo stesso tempo pi桴ica che appagamento, cosicch頭entre per un
verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di
uscire col nostro pensiero dalla temporalitࠤella quale siamo prigionieri e in
qualche modo presagire che l'eterniton sia un continuo susseguirsi di giorni
del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la
totalitࠣi abbraccia e noi abbracciamo la totalitSarebbe il momento
dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo 鬠prima e
il dopo esiste piЯssiamo soltanto cercare di pensare che questo
momento 蠬a vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastit͊dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Cos젬o esprime
Ges Vangelo di Giovanni: 橠vedrऩ nuovo e il vostro cuore si
rallegrerࠥ nessuno vi potr࠴ogliere la vostra gioia 豶,22). Dobbiamo
pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza
cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo[9]. |
12. Augustinum ibi describere exsistimamus ratione valde acuta semperque valida
necessariam hominis condicionem, statum enim unde omnes eius repugnantiae
proveniant eiusque simul spes. Eandem ipsam aliquo modo concupiscimus vitam,
illam veram quae deinceps neque morte afficiatur, sed eodem tempore ignoramus
quo nos impelli sentiamus. Haud valemus non protendere ad id nos, verumtamen id
omne quod experiri possumus vel efficere scimus non id esse quod cupiamus. Haec
⥳ 駮ota est vera 㰥s quae instigat et quod ignota est, eodem
tempore causa est omnium desperationum sicut etiam omnium verarum vel exitialium
impulsionum erga orbem verum et hominem germanum. Ipsum 橴a aeterna 궯cabulum contendit nomen huic rei ignoratae et tamen cognitae addere. Non
quidem sufficit illud verbum quod potius turbationem generat. ᥴerna 鮍
nobis namque notionem gignit alicuius rei interminabilis et hoc ingerit nobis
timorem; 橴a ᵴem cogit nos aliquam a nobis iam cognitam vitam cogitare,
quam profecto diligimus neque amittere volumus et quae tamen saepius eodem
tempore nobis fatigatio est quam recreatio, ita ut dum hinc eam cupiamus illinc
respuamus. Nostra solummodo cogitatione exire possumus ex temporali rerum
cognitione cuius sumus veluti captivi et aliquo modo praesentire aeternum tempus
non esse dierum Kalendarii consecutionem sed summum retributionis tempus, quo
universitas rerum nos amplectitur nosque amplectimur universitatem. Tempus
scilicet id est ut in mare amoris infiniti mergamur, ubi tempus ipsum ᮴erius
et posterius 顭 non exsistit. Studere tantummodo possumus fingere hoc
temporis punctum vitam sensu pleno esse, ubi nempe in ipsius exsistentiae
vastitatem mergitur, dum gaudio simpliciter obruimur. Ita quidem Iesus apud
Ioannem eloquitur: 鴥rum autem videbo vos, et gaudebit cor vestrum, et
gaudium vestrum nemo tollit a vobis 豶,22). In hanc enim partem cogitare
debemus si comprehendere concupiscimus quo tandem christiana tendat spes, ex
fide quid exspectemus atque nostra ex vita cum Christo.[9] |
La speranza cristiana 蠩ndividualistica? |
Num christiana spes ad singulos dumtaxat pertinet? |
13. Nel corso della loro storia, i cristiani hanno cercato di tradurre questo
sapere che non sa in figure rappresentabili, sviluppando immagini del 㩥lo ꣨e restano sempre lontane da ciࣨe, appunto, conosciamo solo negativamente,
mediante una non-conoscenza. Tutti questi tentativi di raffigurazione della
speranza hanno dato a molti, nel corso dei secoli, lo slancio di vivere in base
alla fede e di abbandonare per questo anche i loro 쩾hyparchonta ଥ
sostanze materiali per la loro esistenza. L'autore della Lettera agli Ebrei,
nell'undicesimo capitolo ha tracciato una specie di storia di coloro che vivono
nella speranza e del loro essere in cammino, una storia che da Abele giunge fino
all'epoca sua. Di questo tipo di speranza si 蠡ccesa nel tempo moderno una
critica sempre pi䵲a: si tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe
abbandonato il mondo alla sua miseria e si sarebbe rifugiato in una salvezza
eterna soltanto privata. Henri de Lubac, nell'introduzione alla sua opera
fondamentale 쩾Catholicisme. Aspects sociaux du dogme ਡ raccolto
alcune voci caratteristiche di questo genere di cui una merita di essere citata:
诠trovato la gioia? No ... Ho trovato la mia gioia. E ciਠuna cosa
terribilmente diversa ... La gioia di Ges൲ essere individuale. Pu튡ppartenere ad una sola persona, ed essa 蠳alva. Ƞnella pace..., per ora e per
sempre, ma lei sola. Questa solitudine nella gioia non la turba. Al contrario:
lei 謠appunto, l'eletta! Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una
rosa in mano ᠨref="#nota10it" name="nota10i">[10]. |
13. Saeculorum suorum decursu conati sunt christiani scientiam hanc interpretari
quae figuris reddi non potest idcircoque imagines 㡥li ॲfecerunt quae
semper procul ab iis rebus absunt quas omnino tantummodo negando novimus, id est
per scientiam nullam. Conamina haec omnia effingendae spei multis dant per
saecula impetum ut secundum fidem vivant et propterea eorum 쩾hyparchonta
bstantiae enim materiales eorum vitae augescant. Epistulae ad Hebraeos
auctor capite undecimo genus quoddam eorum historiae definit qui in spe vivunt
atque etiam eorum experientiae in itinere, quae quidem historia a tempore Abelis
eorum tangit aetatem. Huius vero spei generis recentioribus temporis durior
usque censura est excitata: de puro individualismo agitur qui miseriae propriae
relinquit totum orbem et in aeternam quandam salutem refugit solummodo privatam.
Henricus de Lubac primarii in prooemio operis sui Catholicisme. Aspects
sociaux du dogme, quasdam collegit huius generis proprias voces, quarum
digna una est quae proferatur: 顭ne repperi laetitiam? Haudquaquam... meum
solum gaudium inveni. Id quod est aliquid horribiliter aliud... Iesu enim
laetitia potest esse unius hominis solius, et iam salva est. In pace quidem
est... et nunc et in perpetuum, attamen ipsa sola. Haec in gaudio solitudo non
eam perturbat. Ex contrario: 塠scilicet selecta est! Proelia feliciter cum
rosa in manu transit 졠href="#nota10lt" name="nota10l">[10] |
14. Rispetto a ci젤e Lubac, sulla base della teologia dei Padri in tutta la
sua vastitଠha potuto mostrare che la salvezza 蠳tata sempre considerata come
una realtࠣomunitaria. La stessa Lettera agli Ebrei parla di una 㩴t͊裦r 11,10.16; 12,22; 13,14) e quindi di una salvezza comunitaria.
Coerentemente, il peccato viene compreso dai Padri come distruzione dell'unit͊del genere umano, come frazionamento e divisione. Babele, il luogo della
confusione delle lingue e della separazione, si rivela come espressione di ci튣he in radice 蠩l peccato. E cos젬a ⥤enzione ᰰare proprio come il
ristabilimento dell'unitଠin cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un'unione
che si delinea nella comunit࠭ondiale dei credenti. Non 蠮ecessario che ci
occupiamo qui di tutti i testi, in cui appare il carattere comunitario della
speranza. Rimaniamo con la Lettera a Proba in cui Agostino tenta di
illustrare un po' questa sconosciuta conosciuta realtࠤi cui siamo alla
ricerca. Lo spunto da cui parte 蠳emplicemente l'espressione 橴a beata
[felice] Яi cita il Salmo 144 [143],15: ⥡to il popolo il cui Dio
蠩l Signore Šcontinua: ॲ poter appartenere a questo popolo e giungere
[...] alla vita perenne con Dio, 젦ine del precetto 蠬'amore che viene da un
cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera輩>1 Tim 1,5) ᠨref="#nota11it" name="nota11i">[11].
Questa vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, 蠬egata
all'essere nell'unione esistenziale con un ௰olo 堰uಥalizzarsi per ogni
singolo solo all'interno di questo ųsa presuppone, appunto, l'esodo
dalla prigionia del proprio 鯠థrch頳olo nell'apertura di questo soggetto
universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull'amore stesso 공 Dio. |
14. De hac re secundum Patrum theologiam in omni eius plenitudine valuit
demonstrare de Lubac salutem semper esse veluti rem communitatis habitam.
Epistula ad Hebraeos ipsa de quadam urbe loquitur (cfr 11,10.16; 12,22;
13,14) ideoque in commune de salute. Congruenter a Patribus intellegitur
peccatum tamquam generis hominum unitatis eversio, veluti divisio et ruptio.
Turris Babelis locus confusionis linguarum atque partitionis se demonstrat
illius rei quae denique tamen in radice peccatum est. Sic enim comparet 겥demptio ﭮino sicuti unitatis restauratio, ubi iterum simul invenimur in
coniunctione quae inter credentes totius orbis effingitur. Haud necesse est de
singulis his locis disceptemus, ubi indoles spei communitaria elucet. Cum
Epistula ad Probam restamus, ubi aliquantulum illuminare contendit
Augustinus hanc ignotam simul et cognitam veritatem quam ipsi conquirimus.
Punctum unde progreditur ille est simpliciter locutio ⥡ta vita ĥinde
Psalmum 144 [143], 15 adfert: ⥡tus populus cui Dominus est Deus ॴ
prosequitur: 鮠ipso populo ut simus, atque [...] cum eo sine fine vivendum
pervenire possimus, finis praecepti est caritas de corde puro, et conscientia
bona, et fide non ficta 輩>1 Tim 1,5).[11] Haec vera vita ad
quam studemus semper nos intendere semper cum vita iungitur in necessaria
coniunctione alicuius ௰uli 䵭 se singulis pro hominibus complere potest
dumtaxat intra illud ntea quidem poscit exitum de carcere ipsius
personae 姯 oniam solummodo huic rei universali aperta recludit oculos
ad laetitiae fontem, ad amorem ipsum, ᤠDeum. |
15. Questa visione della 橴a beata ﲩentata verso la comunitࠨa di mira,
s쬠qualcosa al di lࠤel mondo presente, ma proprio cos젨a a che fare anche
con la edificazione del mondo 鮠forme molto diverse, secondo il contesto
storico e le possibilitࠤa esso offerte o escluse. Al tempo di Agostino, quando
l'irruzione dei nuovi popoli minacciava la coesione del mondo, nella quale era
data una certa garanzia di diritto e di vita in una comunitࠧiuridica, si
trattava di fortificare i fondamenti veramente portanti di questa comunitࠤi
vita e di pace, per poter sopravvivere nel mutamento del mondo. Cerchiamo di
gettare, piuttosto a caso, uno sguardo su un momento del medioevo sotto certi
aspetti emblematico. Nella coscienza comune, i monasteri apparivano come i
luoghi della fuga dal mondo (龠contemptus mundi ॠdel sottrarsi alla
responsabilit࠰er il mondo nella ricerca della salvezza privata. Bernardo di
Chiaravalle, che con il suo Ordine riformato port൮a moltitudine di giovani
nei monasteri, aveva su questo una visione ben diversa. Secondo lui, i monaci
hanno un compito per tutta la Chiesa e di conseguenza anche per il mondo. Con
molte immagini egli illustra la responsabilitࠤei monaci per l'intero organismo
della Chiesa, anzi, per l'umanita loro egli applica la parola dello
Pseudo-Rufino: 鬠genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli,
il mondo perirebbe... ᠨref="#nota12it" name="nota12i">[12]. I
contemplativi 쩾contemplantes 䥶ono diventare lavoratori agricoli 쩾
laborantes ࣩ dice. La nobiltࠤel lavoro, che il cristianesimo ha
ereditato dal giudaismo, era emersa gielle regole monastiche di Agostino e di
Benedetto. Bernardo riprende nuovamente questo concetto. I giovani nobili che
affluivano ai suoi monasteri dovevano piegarsi al lavoro manuale. Per la verit
Bernardo dice esplicitamente che neppure il monastero pupristinare il
Paradiso; sostiene perࣨe esso deve, quasi luogo di dissodamento pratico e
spirituale, preparare il nuovo Paradiso. Un appezzamento selvatico di bosco vien
reso fertile ಯprio mentre vengono allo stesso tempo abbattuti gli alberi
della superbia, estirpato ciࣨe di selvatico cresce nelle anime e preparato
cos젩l terreno, sul quale puలosperare pane per il corpo e per l'anima[13].
Non ci 蠤ato forse di costatare nuovamente, proprio di fronte alla storia
attuale, che nessuna positiva strutturazione del mondo puuscire lࠤove le
anime inselvatichiscono? |
15. Hic 橴ae beatae ಯspectus, quae ad communitatem dirigitur spectat
profecto ad aliquid ultra orbem praesentem, sed ita omnino agere debet de mundi
aedificatione �is valde diversis, secundum historiae adiuncta atque
facultates inde vel oblatas vel exclusas. Sancti Augustini tempore, cum novorum
populorum invasio minaretur totius mundi cohaerentiae, ubi certum dabatur iuris
pignus atque vitae in communione quadam iuridica, intererat fundamenta roborare
reapse hanc vitae pacisque communitatem sustinentia, ut quis in orbis
commutatione superstes esse posset. Obtutum potius nostrum studeamus casu in
momentum quoddam mediae aetatis conicere certis rationibus proprium. Ad communem
id est conscientiam, videbantur coenobia veluti loca fugae ex mundo (쩾
contemptus mundi 奄) atque effugia officiorum erga mundum in privatae
cuiusdam salutis conquisitione. Bernardus Claravallensis, suo cum ordine
reformato qui iuvenum multitudinem in monasteria adduxit, hac de re
aestimationem omnino aliam habebat. Ex eius mente munus habent monachi pro tota
Ecclesia ac proinde pro mundo ipso. Pluribus enim imaginibus officium monachorum
pro integro Ecclesiae instituto illuminat, quin immo pro omni hominum genere;
eis nempe dicta Pseudo-Rufini adhibet: 赭anum genus vivit paucis, quia nisi
hi essent, mundus periret... 졠href="#nota12lt" name="nota12l">[12] Contemplantes evadere debent
opifices agricolae 龠laborantes யbis dicit. Operis namque nobilitas,
quam christiani a Iudaeis uti hereditatem acceperant, iam monasticis in regulis
Augustini ac Benedicti splendebat. Iterum hunc conceptum Bernardus repetit.
Nobiles iuvenes qui ad coenobia eius concurrebant sese etiam manuum operibus
subdere debebant. Reapse explicitis verbis adseverat Bernardus neque coenobium
ipsum redintegrare posse Paradisum; defendit idcirco monasterium debere veluti
locum spiritalis et cotidianae orationis, novum praeparare Paradisum. Silvestris
agrorum partitio redditur fertilis 䵮c omnino cum eodem tempore superbiae
arbores succiduntur, cum id omne evellitur silvestris generis quod in animabus
crescit et sic terra paratur in qua panis pro corpore animaque prosperari potest.[13]
Nonne nobis confirmare denuo licet, hodiernae coram historiae condicione, nullam
veram orbis aedificationem ibi florere posse ubi animae penitus insilvescant. |
La trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno |
Fidei speique christianae transfiguration recentioribus temporibus |
16. Come ha potuto svilupparsi l'idea che il messaggio di Ges㩡 strettamente
individualistico e miri solo al singolo? Come si 蠡rrivati a interpretare la 곡lvezza dell'anima 㯭e fuga davanti alla responsabilit࠰er l'insieme, e a
considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica
della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri? Per trovare una risposta
all'interrogativo dobbiamo gettare uno sguardo sulle componenti fondamentali del
tempo moderno. Esse appaiono con particolare chiarezza in Francesco Bacone. Che
un'epoca nuova sia sorta 粡zie alla scoperta dell'America e alle nuove
conquiste tecniche che hanno consentito questo sviluppo 蠣osa indiscutibile.
Su che cosa, per젳i basa questa svolta epocale? Ƞla nuova correlazione di
esperimento e metodo che mette l'uomo in grado di arrivare ad un'interpretazione
della natura conforme alle sue leggi e di conseguire cos젦inalmente 졍
vittoria dell'arte sulla natura 輩>victoria cursus artis super naturam)[14].
La novitࠖ secondo la visione di Bacone 㴡 in una nuova correlazione tra
scienza e prassi. Ciඩene poi applicato anche teologicamente: questa nuova
correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla
creazione, dato all'uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe
ristabilito[15]. |
16. Quomodo enucleari potuit cogitatio illa:
Christi nuntium stricto sensu ad singulos pertinere et solum unumquemque
tangere? Quomodo eo perventum est ut 㡬utem animae 鮴erpretarentur
tamquam fugam ab officiis pro universo corpore et ut proinde disciplinam
christiani nominis haberent uti singularem quandam inquisitionem salutis
quae aliorum declinarent adiutorium? Huic interrogationi ut respondeatur,
oculos conicere oportet in elementa recentioris aetatis principalia.
Haec enim maxima perspicuitate in Francisco Bacone emergunt. Disputari
etenim non licet novam enatam esse quasi aetatem, America detecta
novisque repertis technicis rationibus quae hanc progressionem
permiserunt. At quibus fundamentis haec innitur historica conversio?
Nova quidem est necessitudo experimentorum modorumque hominem quae
idoneum reddit ut ad interpretationem naturae adveniat legibus suis
congruam ac propterea tandem consequatur 龠victoriam cursus artis
super naturam 奄.[14] Ad Baconis mentem itas inde venit
quod nova ratione scientia coniunguntur et usus. Hoc dein adhiberi
potest etiam theologica ratione: nova enim haec inter scientiam et
cotidianum usum habitudo significat dominationem in res creatas, homini
a Deo concessam at originali peccato amissam restaurari posse.[15] |
17. Chi legge queste affermazioni e vi riflette con attenzione, vi riconosce un
passaggio sconcertante: fino a quel momento il ricupero di ciࣨe l'uomo nella
cacciata dal paradiso terrestre aveva perso si attendeva dalla fede in Gesꃲisto, e in questo si vedeva la ⥤enzione ϲa questa ⥤enzione ଡ
restaurazione del ࡲadiso ॲduto, non si attende pi䡬la fede, ma dal
collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non 蠣he la fede, con ci썊venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello 걵ello delle cose solamente private ed ultraterrene 堡llo stesso tempo
diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. Questa visione programmatica
ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l'attuale crisi
della fede che, nel concreto, 蠳oprattutto una crisi della speranza cristiana.
Cos젡nche la speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede
nel progresso. Per Bacone, infatti, 蠣hiaro che le scoperte e le invenzioni
appena avviate sono solo un inizio; che grazie alla sinergia di scienza e prassi
seguiranno scoperte totalmente nuove, emerger࠵n mondo totalmente nuovo, il
regno dell'uomo[16]. Cos젥gli ha
presentato anche una visione delle invenzioni prevedibili 橮o all'aereo e al
sommergibile. Durante l'ulteriore sviluppo dell'ideologia del progresso, la
gioia per gli avanzamenti visibili delle potenzialit࠵mane rimane una costante
conferma della fede nel progresso come tale. |
17. Qui has legit affirmationes easque attento animo perpendit, transitum omnino
turbantem ibi agnoscit: ad id usque tempus revocatio eorum omnium, quae homo
paradisum terrenum conquirens perdiderat, ex fide in Iesum Christum
exspectabatur ibidemque ⥤emptio ॲspiciebatur. Nunc vero eadem illa 겥demptio ૠparadisi ᭩ssi redintegratio non iam a fide petitur verum ex
coniunctione nuper reperta inter scientiam et usum. Hoc accidit non quod fides
inde simpliciter negetur; potius vero transfertur alium in ordinem ⥲um
scilicet tantummodo privatarum atque ultra terrestrium 崠simul quadamtenus
iam mundo nihil significat. Hic prospectus ordinatus iam iter designavit
temporum recentiorum afficitque etiam praesens fidei discrimen quod in re ipsa
est ante omnia spei christianae discrimen. Ita etiam spes apud Baconem novam
induit formam. Vocatur enim nunc: fides in progressionem. Namque Bacon manifesto
opinatur inventa ac reperta nuperius exorientia solummodo esse initium, propter
consonantiam autem inter scientiam et usum novis ex repertis orbem funditus
novum nasciturum, hominis regnum.[16] Ita etiam ille prospectum exhibet
inventionum praevisarum 峱ue ad aeronavigium nec non navem subaquaneam.
Progrediente autem notione ipsa augmentorum, laetitia super aspectabilibus
humanae potentiae progressibus constans remanet affirmatio fidei de progressu
uti tali. |
18. Al contempo, due categorie entrano sempre piᬠcentro dell'idea di
progresso: ragione e libertIl progresso 蠳oprattutto un progresso nel
crescente dominio della ragione e questa ragione viene considerata ovviamente un
potere del bene e per il bene. Il progresso 蠩l superamento di tutte le
dipendenze 蠰rogresso verso la libert࠰erfetta. Anche la libert࠶iene vista
solo come promessa, nella quale l'uomo si realizza verso la sua pienezza. In
ambedue i concetti 쩢ertࠥ ragione 蠰resente un aspetto politico. Il
regno della ragione, infatti, 蠡tteso come la nuova condizione dell'umanit͊diventata totalmente libera. Le condizioni politiche di un tale regno della
ragione e della libertଠtuttavia, in un primo momento appaiono poco definite.
Ragione e libert࠳embrano garantire da s鬠in virt䥬la loro intrinseca
bontଠuna nuova comunit࠵mana perfetta. In ambedue i concetti-chiave di 겡gione 堫 libert࠻, per젩l pensiero tacitamente va sempre anche al
contrasto con i vincoli della fede e della Chiesa, come pure con i vincoli degli
ordinamenti statali di allora. Ambedue i concetti portano quindi in s頵n
potenziale rivoluzionario di un'enorme forza esplosiva. |
18. Eodem vero tempore duo rerum ordines magis magisque ingrediuntur progressus
notionem: ratio atque libertas. Etenim ante omnia progressio est auctus
crescentis dominationis ipsius rationis quae quidem ratio manifesto iudicatur
veluti potestas boni pro bono. Victoria quidem progressio est omnium vinculorum
崥nim perfectam procedit ad libertatem. Ipsa quoque libertas accipitur
tantummodo ut res promissa, ubi homo se ad sui plenitudinem perficit. Utraque in
conceptione 쩢ertatis et rationis ᤥst similiter politicus aspectus.
Exspectatur namque rationis regnum sicuti status novus hominum generis
usquequaque liberati. Talis autem rationis libertatisque regni condiciones
politicae primo tamen tempore haud bene definitae videntur. Ex se quidem ratio
et libertas praestare videntur, suam propter intrinsecam bonitatem, novam
hominum communitatem perfectam. Utroque in praecipuo illo conceptu ⡴ionis ꥴ 쩢ertatis 㯧itatio tamen tacito modo semper etiam tendit in
repugnantiam vinculorum fidei et Ecclesiae, quemadmodum etiam vinculorum tunc
temporis legum status. Bini itaque illi conceptus in se potestatem eversivam
continent alicuius ingentis explosivae potentiae. |
19. Dobbiamo brevemente gettare uno sguardo sulle due tappe essenziali della
concretizzazione politica di questa speranza, perch頳ono di grande importanza
per il cammino della speranza cristiana, per la sua comprensione e per la sua
persistenza. C'蠩nnanzitutto la Rivoluzione francese come tentativo di
instaurare il dominio della ragione e della libertra anche in modo
politicamente reale. L'Europa dell'Illuminismo, in un primo momento, ha guardato
affascinata a questi avvenimenti, ma di fronte ai loro sviluppi ha poi dovuto
riflettere in modo nuovo su ragione e libertSignificativi per le due fasi
della ricezione di ciࣨe era avvenuto in Francia sono due scritti di Immanuel
Kant, in cui egli riflette sugli eventi. Nel 1792 scrive l'opera: 쩾Der Sieg
des guten Prinzips 岠das b㥠und die Gr䵮g eines Reichs Gottes auf Erden
茡 vittoria del principio buono su quello cattivo e la costituzione di un
regno di Dio sulla terra). In essa egli dice: 鬠passaggio graduale dalla fede
ecclesiastica al dominio esclusivo della pura fede religiosa costituisce
l'avvicinamento del regno di Dio ᠨref="#nota17it" name="nota17i">[17].
Ci dice anche che le rivoluzioni possono accelerare i tempi di questo passaggio
dalla fede ecclesiastica alla fede razionale. Il ⥧no di Dio ऩ cui Ges꡶eva parlato ha qui ricevuto una nuova definizione e assunto anche una nuova
presenza; esiste, per cos젤ire, una nuova ᴴesa immediata ੬ ⥧no di
Dio Ჲiva lࠤove la 楤e ecclesiastica 橥ne superata e rimpiazzata
dalla 楤e religiosa ඡle a dire dalla semplice fede razionale. Nel 1794,
nello scritto 쩾Das Ende aller Dinge 茡 fine di tutte le cose) appare
un'immagine mutata. Ora Kant prende in considerazione la possibilitࠣhe,
accanto alla fine naturale di tutte le cose, se ne verifichi anche una contro
natura, perversa. Scrive al riguardo: 㥠il cristianesimo un giorno dovesse
arrivare a non essere pi䥧no di amore [...] allora il pensiero dominante
degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un'opposizione contro
di esso; e l'anticristo [...] inaugurerebbe il suo, pur breve, regime (fondato
presumibilmente sulla paura e sull'egoismo). In seguito, per젰oich頩l
cristianesimo, pur essendo stato destinato ad essere la religione universale, di
fatto non sarebbe stato aiutato dal destino a diventarlo, potrebbe verificarsi,
sotto l'aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose ᠨref="#nota18it" name="nota18i">[18]. |
19. Breviter mentem conicere debemus duo in stadia essentialia politicae
effectionis huius ipsius spei, quoniam magni sunt momenti christianae in spei
itinere, ut bene comprehendatur atque etiam permaneat. Imprimis exstat Gallica
eversio tamquam conatus restituendi dominatus rationis libertatisque tunc vero
etiam modo politica via solido. Illuminismi Europa primis temporibus stupescens
hos eventus respexit, attamen propter eorum progressionem debuit aliter iam
ponderare rationem ac libertatem. His in duobus gradibus quibus omne id quod in
Gallia evenerat recipiebatur, plurimum significant scriptiones binae Emmanuelis
Kant ubi eosdem perpendit eventus. Anno MDCCXCII opus scripsit: Der Sieg des
guten Prinzips 岠das B㥠und die Gr䵮g eines Reiches Gottes auf Erden
(Victoria principii boni de malo et cuiusdam Regni Dei in terris constitutio).
Ibi ipse asseverat: 쥮tior transitus ab ecclesiastica fide ad dominationem
totam purae fidei religiosae efficit Regni Dei adventum 졠href="#nota17lt" name="nota17l">[17] Dicit
enim rerum eversiones accellerare posse hunc transitum ab ecclesiastica fide ad
fidem rationalem. ⥧num Dei per quo erat Iesus locutus novam hic induit
definitionem novamque sumit praesentiam; ut ita dicamus exsistit nova ꥸspectatio subita ૠRegnum Dei 寠pervenit ubi 壣lesiastica fides 궩ncitur ac substituitur ⥬igiosa fide ਯc est simplici fide rationali.
Anno autem MDCCXCV in scriptione illius Das Ende aller Dinge (Omnium
rerum finis) mutata quaedam emergit imago. Fieri enim posse arbitratur Kant ut
iuxta naturalem omnium rerum terminum, alius etiam deprehendatur contra naturam,
id est perversus. Hac de re scribit: 㩠res christiana olim aliquando iam non
digna fuerit amore [...] tunc dominans hominum cogitatio fieri debebit de aliqua
repudiatione et repugnantia contra eam; inaugurabit anti-christus [...] suum
quantumvis breve regimen (conditum 崠praesumitur 鮠timore et egoismo).
Postmodum tamen, quoniam christianum nomen, quod etiam destinatum est uti
religio universalis, revera non adiutum esset ut id fieret, aspectu morali
evadere poterit finis omnium rerum (perversus) 졠href="#nota18lt" name="nota18l">[18] |
20. L'Ottocento non venne meno alla sua fede nel progresso come nuova forma
della speranza umana e continuࡠconsiderare ragione e libertࠣome le
stelle-guida da seguire sul cammino della speranza. L'avanzare sempre pi楬oce
dello sviluppo tecnico e l'industrializzazione con esso collegata crearono,
tuttavia, ben presto una situazione sociale del tutto nuova: si formଡ classe
dei lavoratori dell'industria e il cosiddetto ಯletariato industriale ଥ
cui terribili condizioni di vita Friedrich Engels nel 1845 illustr੮ modo
sconvolgente. Per il lettore doveva essere chiaro: questo non pu࣯ntinuare; 荊necessario un cambiamento. Ma il cambiamento avrebbe scosso e rovesciato
l'intera struttura della societࠢorghese. Dopo la rivoluzione borghese del 1789
era arrivata l'ora per una nuova rivoluzione, quella proletaria: il progresso
non poteva semplicemente avanzare in modo lineare a piccoli passi. Ci voleva il
salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo richiamo del momento e, con
vigore di linguaggio e di pensiero, cercऩ avviare questo nuovo passo grande
e, come riteneva, definitivo della storia verso la salvezza 楲so quello che
Kant aveva qualificato come il ⥧no di Dio ųsendosi dileguata la verit͊dell'aldilଠsi sarebbe ormai trattato di stabilire la veritࠤell'aldiquLa
critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della
teologia nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il
mondo definitivamente buono, non viene pi㥭plicemente dalla scienza, ma dalla
politica 䡠una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la
struttura della storia e della societࠥd indica cos젬a strada verso la
rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose. Con puntuale precisione,
anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del
suo tempo ed illustrato con grande capacitࠡnalitica le vie verso la
rivoluzione solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal
manifesto comunista del 1848, l'ha anche concretamente avviata. La sua promessa,
grazie all'acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per
il cambiamento radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo. La
rivoluzione poi si 蠡nche verificata nel modo pi⡤icale in Russia. |
20. Saeculum XIX suam non fefellit fidem de progressione veluti nova humanae
spei figura et rationem libertatemque reputare perrexit quemadmodum astra
ductoria quae in spei itinere erant sequenda. Velocior usque auctus technicae
progressionis atque industriarum transformationis cum ea coniunctae generaverunt
tamen satis celeriter condicionem omnino novam status socialis: ordo enim natus
est opificum industriae et sic dictus 鮤ustrialis proletariatus ഥrrificas
cuius vitae condiciones Fridericus Engels anno MDCCCXLV turbanti modo descripsit.
Legentibus hoc clarum esse debebat: istud prosequi non potest; commutatio
pernecessaria est. Verumtamen haec mutatio concussura erat immo et totam
structuram eversura societatis altioris. Post illius medii ordinis motum anno
MDCCLXXXIX iam tempus advenerat novae seditionis, videlicet proletarianae.
Haudquaquam poterat simpliciter technicus progressus parvis passibus lineari
modo procedere. Saltus poscebatur alicuius revolutionis. Hanc temporis illius
appellationem suscepit Carolus Marx atque linguae cogitationisque vibratione
novum hunc magnum passum provehere studuit et, uti opinabatur, decretorium in
annalibus versus salutem 㣩licet ad id quod 䥩 regnum 䥳ignaverat Kant.
Cum veritas temporis post mortem esset diluta, iam causa futura esset veritatem
statuendi citra et ante illum limitem. Censura caeli in terrae transit censuram,
theologiae reprehensio in politicae rationis vituperationem. Progressus enim ad
meliora, ad mundum perpetuo bonum, non iam simpliciter ex scientia nascitur,
verum ex politica ratione ௬itica via scientifico modo ordinata, quae
historiae ac societatis structuram agnoscere valet sicque semitam indicat ad
rerum conversionem, id est ad omnium rerum immutationem. Perdiligenter omnino,
etiamsi solummodo una ex parte, Marx condicionem sui temporis descripsit atque
acumine analytico vias ad rerum eversionem illustravit modo scientia: per
communistarum factionem, ex communistarum praeconio anni MDCCCXLVIII natam, eam
definite incohavit. Eius promissio, propter accuratas investigationes
perspicuamque instrumentorum significationem ad radicitus effectam mutationem,
allexit et usque semper denuo allicit. Rerum deinde conversio extremo maxime
modo in Russia etiam evenit. |
21. Ma con la sua vittoria si 蠲eso evidente anche l'errore fondamentale di
Marx. Egli ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci
ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo. Egli supponeva
semplicemente che con l'espropriazione della classe dominante, con la caduta del
potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione si sarebbe
realizzata la Nuova Gerusalemme. Allora, infatti, sarebbero state annullate
tutte le contraddizioni, l'uomo e il mondo avrebbero visto finalmente chiaro in
se stessi. Allora tutto avrebbe potuto procedere da s頳ulla retta via, perch鍊tutto sarebbe appartenuto a tutti e tutti avrebbero voluto il meglio l'uno per
l'altro. Cos쬠dopo la rivoluzione riuscita, Lenin dovette accorgersi che negli
scritti del maestro non si trovava nessun'indicazione sul come procedere. S쬍
egli aveva parlato della fase intermedia della dittatura del proletariato come
di una necessitࠣhe, per젩n un secondo tempo da s頳i sarebbe dimostrata
caduca. Questa 桳e intermedia 졠conosciamo benissimo e sappiamo anche come
si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro
di s頵na distruzione desolante. Marx non ha solo mancato di ideare gli
ordinamenti necessari per il nuovo mondo 䩠questi, infatti, non doveva piꥳserci bisogno. Che egli di ciயn dica nulla, 蠬ogica conseguenza della sua
impostazione. Il suo errore sta pi鮠profonditEgli ha dimenticato che
l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua
libertHa dimenticato che la libert࠲imane sempre libertଠanche per il male.
Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il
suo vero errore 蠩l materialismo: l'uomo, infatti, non 蠳olo il prodotto di
condizioni economiche e non 蠰ossibile risanarlo solamente dall'esterno creando
condizioni economiche favorevoli. |
21. Sed cum eius victoria clare etiam animadversus est praecipuus Marx error.
Ipse perdiligenter significavit quomodo conversio efficienda sit. Nobis autem
non dixit quomodo res postea procedere debuerint. Pro certo plane habebat,
ordine civium dominante suis rebus spoliatis, auctoritateque politica eversa et
instrumentis productionis socialem ad rationem eversis Novam Ierusalem effectum
iri. Tunc enim omnes contradictiones abiissent; homo eiusque mundus denique in
se clarum vidissent. Tum cuncta procedere recta via suis viribus potuissent,
quoniam omnia ad omnes pertinerent et omnes res optimas alter alteri cupivissent.
Sic, post eversionem feliciter factam, debuit intellegere Lenin in magistri
scriptis nullum repertum esse indicium quomodo esset procedendum. Ipse enim de
intervallo quodam erat locutus dictaturae proletariatus veluti necessitate quae
tamen deinceps ex se demonstratura se erat inutilem. Hanc 鮴ermediam aetatem
ﰴime novimus et scimus quomodo deinde etiam ea augesceret, sanum ad lucem
mundum non adferens, sed a tergo devastantem relinquens deletionem. Marx non
solum necessaria novi mundi excogitare elementa et instituta omisit 詳 enim
ipsis iam opus esse non debebat. Quod de hoc ipse nihil docet, clare ex sua
rerum dispositione oritur. Altius inhaeret error eius. Ipse oblitus est hominem
manere semper hominem. Hominem oblitus est atque eius oblitus est libertatem.
Oblitus est libertatem manere semper libertatem, etiam pro malo. Censebat, semel
ordinata oeconomia, omnia ordinata esse futura. Eius verus error est
materialismus: homo, revera, non est tantummodo condicionum oeconomicarum
fructus eumque resanare non possumus solummodo ex externo prolixas creantes
condiciones oeconomicas. |
22. Cos젣i troviamo nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare?
Ƞnecessaria un'autocritica dell'et࠭oderna in dialogo col cristianesimo e con
la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel
contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare
nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da
offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che
nell'autocritica dell'et࠭oderna confluisca anche un'autocritica del
cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso
a partire dalle proprie radici. Su questo si possono qui tentare solo alcuni
accenni. Innanzitutto c'蠤a chiedersi: che cosa significa veramente ಯgresso
ࣨe cosa promette e che cosa non promette? Giel XIX secolo esisteva una
critica alla fede nel progresso. Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha formulato
la problematicitࠤella fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto
da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo 謠di
fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si
rende evidente l'ambiguitࠤel progresso. Senza dubbio, esso offre nuove
possibilit࠰er il bene, ma apre anche possibilitࠡbissali di male 갯ssibilitࠣhe prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di
come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto,
un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un
progresso nella formazione etica dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore
(cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non 蠵n progresso, ma una
minaccia per l'uomo e per il mondo. |
22. Ita iterum aliud quiddam interrogatur: quid sperare possumus? Necesse quidem
est ut moderna aetas se ipsa iudicet, dialogum instituens cum christianismo
eiusque spei notione. In eiusmodi dialogo etiam christiani, in circumstantiis
suarum cognitionum suarumque peritiarum, discernere iterum debent in quo vere
propria constet spes, quid habeant ut mundo offerant et quid autem offerre non
possint. Oportet ad sui ipsius iudicium modernae aetatis etiam sui ipsius
iudicium confluat christianismi moderni, cui semper iterum discernendum est ad
se ipsum intellegendum, initium a propriis capiens fundamentis. Hac de re hic
tantummodo quaedam summatim praebere possumus. Ante omnia quaerendum est: quid
vere sibi vult ಯgressio id promittit et quid non promittit? Iam XIX
saeculo vigebat reprehensio fiduciae progressui datae. XX saeculo Theodorus W.
Adorno quaestionem fiduciae progressioni traditae efficaci significavit modo:
progressio, si diligentius inspiceretur, ea esset quae a funda ad ingens
pyrobolum pervenit. Nunc sane haec est progressionis pars quae non est celanda.
Aliis verbis: evidens redditur duplex progressionis ratio. Sine dubio, ea novas
praebet boni possibilitates, sed etiam ingentes patefacit possibilitates mali 갯ssibilitates quae antea non exsistebant. Nos omnes testes facti sumus quo
pacto in manibus erroneis progressio fieri possit et facta sit reapse terribilis
in malo progressio. Si technicae progressioni non respondet in ethica formatione
hominis progressio, in corroborando homine interiore (cfr Eph 3,16; 2
Cor 4,16), tunc ea non est progressio, sed quaedam in hominem atque in
mundum minatio. |
23. Per quanto riguarda i due grandi temi ⡧ione 堫 libert࠻, qui possono
essere solo accennate quelle domande che sono con essi collegate. S쬠la ragione
蠩l grande dono di Dio all'uomo, e la vittoria della ragione sull'irrazionalit͊蠡nche uno scopo della fede cristiana. Ma quand'蠣he la ragione domina
veramente? Quando si 蠳taccata da Dio? Quando 蠤iventata cieca per Dio? La
ragione del potere e del fare 蠧iࠬa ragione intera? Se il progresso per
essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanitଠallora la
ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata
mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al
discernimento tra bene e male. Solo cos젤iventa una ragione veramente umana.
Diventa umana solo se 蠩n grado di indicare la strada alla volontଠe di questo
蠣apace solo se guarda oltre se stessa. In caso contrario la situazione
dell'uomo, nello squilibrio tra capacit࠭ateriale e mancanza di giudizio del
cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato. Cos젩n tema di libert
bisogna ricordare che la libert࠵mana richiede sempre un concorso di varie
libertQuesto concorso, tuttavia, non puuscire, se non 蠤eterminato da un
comune intrinseco criterio di misura, che 蠦ondamento e meta della nostra
libertDiciamolo ora in modo molto semplice: l'uomo ha bisogno di Dio,
altrimenti resta privo di speranza. Visti gli sviluppi dell'et࠭oderna,
l'affermazione di san Paolo citata all'inizio (cfr Ef 2,12) si rivela
molto realistica e semplicemente vera. Non vi 蠤ubbio, pertanto, che un ⥧no
di Dio ⥡lizzato senza Dio 宠regno quindi dell'uomo solo 㩠risolve
inevitabilmente nella 橮e perversa 䩠tutte le cose descritta da Kant:
l'abbiamo visto e lo vediamo sempre di nuovo. Ma non vi 蠮eppure dubbio che Dio
entra veramente nelle cose umane solo se non 蠳oltanto da noi pensato, ma se
Egli stesso ci viene incontro e ci parla. Per questo la ragione ha bisogno della
fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno
l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione. |
23. Quod ad duo pertinet magna argumenta ⡴ionis 崠쩢ertatis c
possunt solummodo hae commemorari quaestiones quae cum illis nectuntur. Revera
ratio magnum est homini donum Dei, atque victoria rationis super
irrationalitatem propositum est etiam fidei christianae. Sed quando ratio vere
imperat? Quando a Deo seiungitur? Quando pro Deo caeca est facta? Ratio
dominandi et operandi iam estne tota ratio? Si progressio ut vere sit progressio
morali indiget humanitatis proventu, ratio igitur dominandi et operandi
instanter per apertionem rationis ad salutiferas vires fidei similiter est
integranda, ad discrimen inter bonum et malum. Hoc modo tantum ratio fit vere
humana. Fit humana solummodo si apta est quae viam voluntati significet, et ad
hoc idonea est solummodo si ultra se ipsam inspicit. Alioquin condicio hominis,
cum inter materialem facultatem et iudicii cordis absentiam sit disparitas, illi
et creato comparat periculum. Hoc modo in argumento libertatis, oportet
memoretur humanam libertatem concursum semper poscere variarum libertatum. Hic
concursus tamen suum non potest assequi propositum, si communi non decernitur
intrinseca norma mensurae, quae fundamentum est nostrae libertatis et finis. Id
nunc simplici dicamus modo: homo indiget Deo, aliter sine spe manet.
Progressionibus inspectis aetatis modernae, sententia sancti Pauli principio
memorata (Eph 2,12) perquam realis apparet et vera. Nullum igitur est
dubium quin ⥧num Dei ᵯd sine Deo institutum est ⥧num igitur solius
hominis essario ad finem 帩tus perversi ﭮium rerum a Kant descripti
perveniat: id vidimus et semper iterum videmus. Hoc idem dici potest: Deus vere
in humanas ingreditur res solummodo si non est a nobis solummodo cogitatus, sed
si Ipse nobis occurrit nobiscumque loquitur. Hanc ob rem ratio indiget fide ut
ipsa in se tota esse possit: ratio ac fides inter se poscuntur ut veram suam
compleant naturam suumque munus. |
La vera fisionomia della speranza cristiana |
Vera christianae spei effigies |
24. Chiediamoci ora di nuovo: che cosa possiamo sperare? E che cosa non possiamo
sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile 荊possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle
strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre piᶡnzate,
si dࠣhiaramente una continuitࠤel progresso verso una padronanza sempre pi꧲ande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della
decisione morale non c'蠵na simile possibilitࠤi addizione per il semplice
motivo che la libertࠤell'uomo 蠳empre nuova e deve sempre nuovamente prendere
le sue decisioni. Non sono mai semplicemente gi࠰rese per noi da altri 鮠tal
caso, infatti, non saremmo pi쩢eri. La libert࠰resuppone che nelle decisioni
fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le
nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di
coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale
dell'intera umanitMa possono anche rifiutarlo, perch頥sso non puࡶere la
stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell'umaniton 荊presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito
alla libertࠥ come possibilit࠰er essa. Ma ci೩gnifica che:
a) il retto stato delle cose umane, il benessere morale del mondo non puୡi
essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano.
Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non
possono e non devono mettere fuori gioco la libertࠤell'uomo. Anche le
strutture migliori funzionano soltanto se in una comunit࠳ono vive delle
convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione
all'ordinamento comunitario. La libertecessita di una convinzione; una
convinzione non esiste da s鬠ma deve essere sempre di nuovo riconquistata
comunitariamente.
b) Poich頬'uomo rimane sempre libero e poich頬a sua libertࠨ sempre anche
fragile, non esister࠭ai in questo mondo il regno del bene definitivamente
consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per
sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libert࠵mana. La libertࠤeve
sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non
esiste mai semplicemente da s鮠Se ci fossero strutture che fissassero in modo
irrevocabile una determinata ⵯna 㯮dizione del mondo, sarebbe negata la
libertࠤell'uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla
strutture buone.
|
24. Iterum nos ipsos interrogemus: quid sperare possumus? Et quid sperare non
possumus? Ante omnia adfirmare debemus additionalem progressionem tantummodo in
materiali sensu fieri posse. Hic, augescente cognitione structurarum materiae
atque in congruentia cum inventionibus in dies progredientibus, clare quaedam
consecutio datur progressionis ad maiorem usque naturae dominationem. In
conscientiae ethicae ambitu decisionisque moralis deest similis additionis
possibilitas eo quod humana libertas semper nova est atque iterum iterumque sua
debet ferre iudicia. Numquam ab aliis omnino pro nobis iam pronuntiata sunt 㩍
ita esset, nos revera liberi haud essemus. Libertas postulat ut in praecipuis
deliberationibus singuli homines, singulae generationes novum constituant
initium. Utique novae generationes super cognitiones et peritias aedificare
possunt illorum qui eas praecesserunt, sicut etiam accipere possunt de morali
thesauro totius humanitatis. Sed etiam eum respuere possunt, quia is eandem non
potest habere materialium inventionum perspicuitatem. Moralis thesaurus
humanitatis non adest sicut instrumenta adsunt quae adhibentur; is veluti
invitatio exstat ad libertatem atque possibilitas pro ea. Sed hoc quae sequuntur
significat:
a) Rectus humanarum rerum status, moralis mundi salus numquam simpliciter per
structuras collocari in tuto potest, quamvis validae eae sint. Eiusmodi
structurae non solum magni sunt ponderis, sed necessariae; eae tamen non possunt
neque debent hominis libertatem delere. Etiam optimae structurae tantummodo
operantur si quadam in communitate validae sunt persuasiones quae aptae sint ad
rationem praebendam hominibus ut libere communitatis ordini haereant. Libertas
quadam persuasione indiget; persuasio quaedam ex se non exsistit, sed semper
rursus communiter est acquirenda.
b) Cum homo semper liber maneat atque cum eius libertas semper fragilis sit,
numquam hoc in mundo regnum boni vigebit definitive consolidatum. Qui meliorem
promittit mundum, certo usque mansurum, falsum pollicetur; hic enim humanam
ignorat libertatem. Libertas semper denuo est pro bono acquirenda. Libera bono
adhaesio numquam simpliciter per se exsistit. Si structurae adessent quae
irrevocabili modo quandam determinatam ⯮am �di condicionem inducerent,
praecideretur hominis libertas, et hanc ob rem denique nullo modo bonae essent
structurae. |
25. Conseguenza di quanto detto 蠣he la sempre nuova faticosa ricerca di retti
ordinamenti per le cose umane 蠣ompito di ogni generazione; non 蠭ai compito
semplicemente concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare il proprio
contributo per stabilire convincenti ordinamenti di libertࠥ di bene, che
aiutino la generazione successiva come orientamento per l'uso retto della
libert࠵mana e diano cos쬠sempre nei limiti umani, una certa garanzia anche
per il futuro. In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non
bastano. L'uomo non puୡi essere redento semplicemente dall'esterno. Francesco
Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell'et࠭oderna a lui ispirata,
nel ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano.
Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza 荊fallace. La scienza pu࣯ntribuire molto all'umanizzazione del mondo e
dell'umanitEssa perవche distruggere l'uomo e il mondo, se non viene
orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D'altra parte, dobbiamo
anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della
scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte
concentrato soltanto sull'individuo e sulla sua salvezza. Con ciਡ ristretto
l'orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la
grandezza del suo compito ᮣhe se resta grande ciࣨe ha continuato a fare
nella formazione dell'uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti. |
25. Ex dictis sententiis eruitur usque novum onerosum opus explorandi rectum
humanarum rerum ordinem ad singulas generationes pertinere; numquam est opus
omnino conclusum. Attamen quaeque generatio propriam etiam ferre debet opem ad
persuasibiles libertatis bonique ordines statuendos, qui sequentem iuvent
generationem veluti indices ad rectum humanae libertatis usum atque hoc modo
praestent, semper humanos intra limites, firmam etiam futurum in tempus fidem.
Aliis verbis: bonae structurae iuvant, sed solae non sufficiunt. Homo numquam
simpliciter extrinsecus redimi potest. Franciscus Bacone et asseclae cogitationi
recentioris aetatis adhaerentes ab eo inspiratae, cum censerent per scientiam
redimi hominem, errabant omnino. Eiusmodi exspectatione nimis postulatur a
scientia: haec spei species fallax est. Scientia multum conferre potest ad
humaniores mundum et hominem reddendos. Ea tamen mundum et hominem etiam delere
potest, si viribus non temperatur quae extra eam inveniuntur. Ceterum
animadvertendum etiam est christianismum recentis aetatis, prae rebus faustis
scientiae in progrediente mundi constitutione, se potissimum ad singulam
tantummodo personam convertisse eiusque salutem. Hoc modo confinia spei suae
coartavit ac ne magnitudinem quidem suae missionis recognovit 쩣et magnum sit
id quod facere in homine instituendo perrexit atque in curandis infirmis et
patientibus. |
26. Non 蠬a scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore.
Ciඡle giell'ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa
l'esperienza di un grande amore, quello 蠵n momento di ⥤enzione 㨥 d࠵n
senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderࠡnche conto che l'amore
a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. Ƞun amore che
resta fragile. Puॳsere distrutto dalla morte. L'essere umano ha bisogno
dell'amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire:
morte n頶ita, n頡ngeli n頰rincipati, n頰resente n頡vvenire, n頰otenze, n鍊altezze n頰rofonditଠn頡lcun'altra creatura potr࠭ai separarci dall'amore di
Dio, che 蠩n Cristo Gesயstro Signore 輩>Rm 8,38-39). Se esiste
questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora 㯬tanto allora uomo 蠫 redento alunque cosa gli accada nel caso particolare. Ƞquesto
che si intende, quando diciamo: Ges㲩sto ci ha ⥤enti Хr mezzo di Lui
siamo diventati certi di Dio 䩠un Dio che non costituisce una lontana 㡵sa
prima 䥬 mondo, perch頩l suo Figlio unigenito si 蠦atto uomo e di Lui
ciascuno puऩre: 橶o nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha
dato se stesso per me 輩>Gal 2,20). |
26. Non est scientia quae hominem redimit. Homo per caritatem redimitur. Id
valet iam in ambitu mere mundiali. Cum quis sua in vita magnum amorem experitur,
illud est ⥤emptionis 䥭pus, quod novam eius vitae offert significationem.
Sed cito ille intelleget quoque amorem sibi donatum, per se ipsum, suae vitae
quaestionem non absolvere. Est amor qui fragilis manet. Potest morte deleri.
Homo absoluto indiget amore. Indiget hac certitudine vi cuius ille dicere potest:
ue mors neque vita neque angeli neque principatus neque instantia neque
futura neque virtutes neque altitudo neque profundum neque alia quaelibet
creatura poterit nos separare a caritate Dei, quae est in Christo Iesu Domino
nostro 輩>Rom 8,38-39). Si hic exsistit absolutus amor sua cum absoluta
certitudine, tunc 㯬ummodo tunc 语o ⥤emptus 峴, quodcumque ei
peculiari in casu obveniat. Id intellegitur cum dicimus: Iesus Christus nos 겥demit Хr Ipsum facti sumus certi de Deo 䥠Deo qui remotam quandam non
constituit mundi mam causam oniam eius Filius unigenitus homo factus
est, de quo unusquisque dicere potest: 鮠fide vivo Filii Dei, qui dilexit me
et tradidit seipsum pro me 輩>Gal 2,20). |
27. In questo senso 蠶ero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici
speranze, in fondo 蠳enza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta
la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell'uomo, che resiste
nonostante tutte le delusioni, puॳsere solo Dio 鬠Dio che ci ha amati e ci
ama tuttora 㩮o alla fine ૠfino al pieno compimento 裦r Gv 13,1
e 19, 30). Chi viene toccato dall'amore comincia a intuire che cosa propriamente
sarebbe 橴a ïmincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza
che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la 橴a
eterna 栬a vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua
pienezza 蠳emplicemente vita. Ges㨥 di s頨a detto di essere venuto perch鍊noi abbiamo la vita e l'abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr Gv
10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi 橴a ૠQuesta 蠬a vita
eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Ges㲩sto
輩>Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in s頤a soli e neppure
solo da s麠essa 蠵na relazione. E la vita nella sua totalitࠨ relazione con
Colui che 蠬a sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non
muore, che 蠬a Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora 궩viamo 쯴d>
|
27. Hoc sensu verum est illum qui Deum ignorat, quamvis multiplicem spem habeat,
in intimo sine spe esse, sine illa magna spe quae totam sustinet vitam (cfr
Eph 2,12). Vera, magna hominis spes, quae omnes praeter deceptiones perstat,
potest esse solummodo Deus 䥵s qui nos dilexit et nos usque diligit 鮍
finem ૠusque ad plenam consummationem 裦r Io 13,1 et 19,30). Qui
amore tangitur, percipere incipit quid proprie 橴a 㩴. Percipere incipit
quid sit vox spei quam in ritu Baptismatis reperimus: ex fide ᥴernam vitam ꥸspecto 楲am vitam quae, totaliter et sine minationibus, tota in sua
plenitudine omnino est vita. Iesus qui de se ipso dixit se venisse ut vitam nos
haberemus et abundantius haberemus (cfr Io 10,10), explanavit etiam nobis
quid sibi vult 橴a ૠHaec est autem vita aeterna, ut cognoscant te solum
verum Deum et, quem misisti, Iesum Christum 輩>Io 17,3). Vero verbi sensu
vita non invenitur in se tantum neque solummodo ex se: quaedam ipsa est
necessitudo. Et vita sua in universitate necessitudo est cum Illo qui fons est
vitae. Si necessitudine fruimur cum Illo qui non moritur, qui ipsa est Vita
ipseque Amor, tunc sumus in vita. Tunc 橶imus 쯴d> |
28. Ma ora sorge la domanda: in questo modo non siamo forse ricascati nuovamente
nell'individualismo della salvezza? Nella speranza solo per me, che poi,
appunto, non 蠵na speranza vera, perch頤imentica e trascura gli altri? No. Il
rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Ges栤a soli e con
le sole nostre possibiliton ci arriviamo. La relazione con Gesథr젨 una
relazione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi (cfr 1 Tm
2,6). L'essere in comunione con Ges㲩sto ci coinvolge nel suo essere ॲ
tutti fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo
nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per
l'insieme. Vorrei, in questo contesto, citare il grande dottore greco della
Chiesa, san Massimo il Confessore (液), il quale dapprima esorta a non
anteporre nulla alla conoscenza ed all'amore di Dio, ma poi arriva subito ad
applicazioni molto pratiche: 㨩 ama Dio non puservare il denaro per s鮍
Lo distribuisce in modo 鶩no' [...] nello stesso modo secondo la misura della
giustizia ᠨref="#nota19it" name="nota19i">[19]. Dall'amore verso
Dio consegue la partecipazione alla giustizia e alla bontࠤi Dio verso gli
altri; amare Dio richiede la libertࠩnteriore di fronte ad ogni possesso e a
tutte le cose materiali: l'amore di Dio si rivela nella responsabilit࠰er
l'altro[20]. La stessa connessione
tra amore di Dio e responsabilit࠰er gli uomini possiamo osservare in modo
toccante nella vita di sant'Agostino. Dopo la sua conversione alla fede
cristiana egli, insieme con alcuni amici di idee affini, voleva condurre una
vita che fosse dedicata totalmente alla parola di Dio e alle cose eterne.
Intendeva realizzare con valori cristiani l'ideale della vita contemplativa
espressa dalla grande filosofia greca, scegliendo in questo modo 졠parte
migliore 裦r Lc 10,42). Ma le cose andarono diversamente. Mentre
partecipava alla Messa domenicale nella citt࠰ortuale di Ippona, fu dal Vescovo
chiamato fuori dalla folla e costretto a lasciarsi ordinare per l'esercizio del
ministero sacerdotale in quella cittGuardando retrospettivamente a quell'ora
egli scrive nelle sue Confessioni: ᴴerrito dai miei peccati e dalla
mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato la fuga nella
solitudine. Ma tu me l'hai impedito e mi hai confortato con la tua parola: ꃲisto 蠭orto per tutti, perch頱uelli che vivono non vivano piॲ se stessi,
ma per colui che 蠭orto per tutti 裦r 2 Cor 5,15) ᠨref="#nota21it" name="nota21i">[21].
Cristo 蠭orto per tutti. Vivere per Lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo
峳ere per 쯴d>
|
28. Nunc interrogatio oritur: nonne hoc modo fortasse incidimus iterum in
salutis individualismum, ut dicunt? In spe scilicet tantummodo pro me quae
deinde, reapse, non est spes vera, quia alios obliviscitur et neglegit? Non.
Necessitudo cum Deo per communionem cum Iesu instituitur soli atque tantum
cum nostris facultatibus illuc non pervenimus. Necessitudo tamen cum Iesu
necessitudo est cum Illo, qui dedit in redemptionem semetipsum pro omnibus nobis
(cfr 1 Tim 2,6). In communione esse cum Iesu Christo nos esse ಯ
omnibus 魰licat, hoc nostrum facit essendi modum. Ille nos pro aliis obligat,
sed solummodo in communione cum Illo nos pro aliis vere esse possumus, pro
omnibus simul sumptis. Velimus hac de re praeclarum memorare Graecum Ecclesiae
doctorem, sanctum Maximum Confessorem (䃌XII), qui primum adhortatur ne ullam
rem cognitioni amorique Dei anteponamus, sed deinde statim ad consecutiones
pervenit et usus: ᵩ Deum diligit [...], pecunias servare non potest, sed
divine eas dispensat [...] aequaliter pro iustae necessitatis modo distribuit 졠href="#nota19lt" name="nota19l">[19]
Ex amore in Deum participatio oritur iustitiae bonitatisque Dei erga alios; Deum
amare interiorem postulat libertatem prae omni possessione omnibusque rebus
materialibus: amor Dei in responsalitate patefit de alio.[20] Eundem
inter amorem Dei et responsalitatem de hominibus nexum videre possumus
permoventi modo in vita sancti Augustini. Suam post conversionem in christianam
fidem ille, una cum nonnullis amicis similis mentis, ducere voluit vitam quae
tota verbo Dei dicaretur aeternisque rebus. In animo habuit ad finem adducere
christianis cum bonis contemplativae specimen vitae significatae a magna Graeca
philosophia, eligens hoc modo ﰴimam partem 裦r Lc 10,42). Sed res
aliter evenit. Cum die Dominico Missae interesset in Hipponensi urbe portu
instructa, ab Episcopo ex multitudine est vocatus atque ordinari ad ministerium
sacerdotale illa in urbe gerendum coactus. Postea illam respiciens horam suis in
Confessionibus scribit: 㯮territus peccatis meis et mole miseriae meae
agitaveram corde meditatusque fueram fugam in solitudinem, sed prohibuisti me et
confirmasti me dicens: 䥯 Christus pro omnibus mortuus est, ut qui vivunt iam
non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est련cfr 2 Cor 5,15).[21]
Christus pro omnibus mortuus est. Vivere Ei significat se sinere implicari suo ꡣtu essendi pro alio 쯴d> |
29. Per Agostino ci೩gnific൮a vita totalmente nuova. Egli una volta
descrisse cos젬a sua quotidianitຠ㯲reggere gli indisciplinati, confortare
i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori, guardarsi dai
maligni, istruire gli ignoranti, stimolare i negligenti, frenare i litigiosi,
moderare gli ambiziosi, incoraggiare gli sfiduciati, pacificare i contendenti,
aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni,
tollerare i cattivi e [ahim衝 amare tutti ᠨref="#nota22it" name="nota22i">[22].
蠩l Vangelo che mi spaventa ᠨref="#nota23it" name="nota23i">[23]
ᵥllo spavento salutare che ci impedisce di vivere per noi stessi e che ci
spinge a trasmettere la nostra comune speranza. Di fatto, proprio questa era
l'intenzione di Agostino: nella situazione difficile dell'impero romano, che
minacciava anche l'Africa romana e, alla fine della vita di Agostino,
addirittura la distrusse, trasmettere speranza 졠speranza che gli veniva
dalla fede e che, in totale contrasto col suo temperamento introverso, lo rese
capace di partecipare decisamente e con tutte le forze all'edificazione della
cittNello stesso capitolo delle Confessioni, in cui abbiamo or ora
visto il motivo decisivo del suo impegno ॲ tutti १li dice: Cristo ꩮtercede per noi, altrimenti dispererei. Sono molte e pesanti le debolezze,
molte e pesanti, ma piᢢondante 蠬a tua medicina. Avremmo potuto credere che
la tua Parola fosse lontana dal contatto dell'uomo e disperare di noi, se questa
Parola non si fosse fatta carne e non avesse abitato in mezzo a noi ᠨref="#nota24it" name="nota24i">[24].
In virt䥬la sua speranza, Agostino si 蠰rodigato per la gente semplice e per
la sua cittࠖ ha rinunciato alla sua nobilt࠳pirituale e ha predicato ed agito
in modo semplice per la gente semplice. |
29. Id nempe in Augustinum vitam prorsus novam intulit. Ille aliquando ita
propriam descripsit cotidianam vitam: 㯲ripiendi sunt inquieti, pusillanimes
consolandi, infirmi suscipiendi, contradicentes redarguendi, insidiantes cavendi,
imperiti docendi, desidiosi excitandi, contentiosi cohibendi, superbientes
reprimendi, desperantes erigendi, litigantes pacandi, inopes adiuvandi, oppressi
liberandi, boni approbandi, mali tolerandi, [heu!] omnes amandi 졠href="#nota22lt" name="nota22l">[22]
嶡ngelium me terret 졠href="#nota23lt" name="nota23l">[23] 鬬a salutaris terrificatio quae nobis
impedit ne pro nobis ipsis vivamus quaeque nos ad transmittendam nostram
communem spem incitat. Revera hoc fuit Augustini consilium: difficili in
condicione imperii Romani quae etiam Africae Romanae minabatur et, in fine
Augustini vita, immo eam delevit, spem transmittendi 㰥m scilicet quae ei a
fide manabat quaeque, indoli ipsius introversae omnino obsistens, eum idoneum
reddidit qui firmiter omnibusque viribus aedificandae urbi operam daret. Eodem
in Confessionum capite, in quo paulo ante praecipuam rationem sui studii
vidimus ಯ omnibus ੬le ait: Christus 鮴erpellat pro nobis; alioquin
desperarem. Multi enim et magni sunt idem languores, multi sunt et magni; sed
amplior est medicina tua. Potuimus putare Verbum tuum remotum a coniunctione
hominis et desperare de nobis, nisi caro fieret et habitaret in nobis 졠href="#nota24lt" name="nota24l">[24]
Vi suae spei, Augustinus in simplicem plebem suamque urbem multum contulit 갲opriam posthabuit spiritalem nobilitatem atque simplici modo pro simplici
populo praedicavit et est operatus. |
30. Riassumiamo ciࣨe finora 蠥merso nello sviluppo delle nostre riflessioni.
L'uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze piccole o pi粡ndi
䩶erse nei diversi periodi della sua vita. A volte pumbrare che una di
queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre
speranze. Nella giovent൲ essere la speranza del grande e appagante amore; la
speranza di una certa posizione nella professione, dell'uno o dell'altro
successo determinante per il resto della vita. Quando, per젱ueste speranze si
realizzano, appare con chiarezza che ciயn era, in realtଠil tutto. Si rende
evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente
che puࢡstargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sar࠳empre pi䩠ci튣he egli possa mai raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato
la speranza dell'instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze
della scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembrava esser
diventata realizzabile. Cos젬a speranza biblica del regno di Dio 蠳tata
rimpiazzata dalla speranza del regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo
migliore che sarebbe il vero ⥧no di Dio ѵesta sembrava finalmente la
speranza grande e realistica, di cui l'uomo ha bisogno. Essa era in grado di
mobilitare ॲ un certo tempo 䵴te le energie dell'uomo; il grande
obiettivo sembrava meritevole di ogni impegno. Ma nel corso del tempo apparve
chiaro che questa speranza fugge sempre pi쯮tano. Innanzitutto ci si rese
conto che questa era forse una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una
speranza per me. E bench頩l ॲ tutti 档cia parte della grande speranza ꮯn posso, infatti, diventare felice contro e senza gli altri ⥳ta vero che
una speranza che non riguardi me in persona non 蠮eppure una vera speranza. E
diventॶidente che questa era una speranza contro la libertଠperch頬a
situazione delle cose umane dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera
decisione degli uomini che ad essa appartengono. Se questa libertଠa causa
delle condizioni e delle strutture, fosse loro tolta, il mondo, in fin dei
conti, non sarebbe buono, perch頵n mondo senza liberton 蠰er nulla un mondo
buono. Cos쬠pur essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento del
mondo, il mondo migliore di domani non puॳsere il contenuto proprio e
sufficiente della nostra speranza. E sempre a questo proposito si pone la
domanda: Quando 蠫 migliore 鬠mondo? Che cosa lo rende buono? Secondo quale
criterio si puඡlutare il suo essere buono? E per quali vie si puಡggiungere
questa ⯮t࠻? |
30. Summatim tractemus ea quae ex nostris cogitationibus emersa sunt. Homini,
succedentibus diebus, multae sunt spes �ores maioresque 桲iae variis in
aetatibus propriae vitae. Nonnumquam videri potest unum ex his spei generibus
plene ei satisfacere eumque aliis spei generibus non egere. In iuventute spes
magni et satiantis amoris esse potest; spes cuiusdam in professione altioris
ordinis, alius aliusve exitus pro reliquo vitae tempore decretorius. Cum tamen
haec spei specimina ad effectum adducuntur, clare liquet id non fuisse revera
totum. Palam etiam animadvertitur hominem spe indigere, quae ultra progrediatur.
Hic manifeste patet ei quiddam solum infinitum sufficere posse, aliquid nempe
quod semper plus erit quam id quod ille consequi aliquando valet. Hoc sensu
recenti aetate spes aucta est instaurationis cuiusdam mundi perfecti qui, ob
progressionem scientiae et ob politicam scientifice solidatam, digna videbatur
ut ad rem deduceretur. Hoc modo spes biblica regni Dei spe regni hominis est
substituta, spe cuiusdam mundi melioris, qui credebatur verum esse ⥧num Dei
ȡec videbatur tandem magna spes et cum realitate congruens, qua homo indiget.
Ea apta erat ut moveret ॲ aliquod tempus ﭮes hominis vires; magnum
propositum dignum videbatur omnis studii. Sed temporis decursu clare patuit hanc
spem semper longius usque fugere. Ante omnia intellectum est hanc fortasse spem
fuisse hominibus qui post proximum tempus erunt, sed non spem mihi. Et quamvis
illud ಯ omnibus ࡲtem habeat magnae spei possum, revera, adversus
alios et sine iisdem felix fieri 楲um manet spem, quae ad me directe non
pertinet, ne veram quidem esse spem. Et perspicuum factum est hanc spem fuisse
contra libertatem, quia condicio rerum humanarum in singulis generationibus
rursus pendet a libera hominum deliberatione qui ad eam pertinent. Si haec
libertas, ob condiciones et structuras, esset eis adempta, mundus, definitive,
bonus non esset, quia mundus sine libertate nullo modo est mundus bonus. Ita
quamvis necessarium sit continuum ad mundum meliorem reddendum studium, melior
futuri temporis mundus argumentum esse non potest proprium et nostrae spei
sufficiens. Semper hac de re quaestio ponitur: Quando mundus �ior 峴?
Quid eum bonum reddit? Qua norma iudicari potest illud 峳e bonum ѵibus
viis ad hanc pervenitur ⯮itatem 쯴d> |
31. Ancora: noi abbiamo bisogno delle speranze piccole o pi粡ndi 㨥,
giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che
deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza pu튥ssere solo Dio, che abbraccia l'universo e che puలoporci e donarci ciࣨe,
da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono fa
parte della speranza. Dio 蠩l fondamento della speranza un qualsiasi dio,
ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni
singolo e l'umanitel suo insieme. Il suo regno non 蠵n aldilࠩmmaginario,
posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno 蠰resente lࠤove Egli 荊amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dࠬa possibilit͊di perseverare con ogni sobrietࠧiorno per giorno, senza perdere lo slancio
della speranza, in un mondo che, per sua natura, 蠩mperfetto. E il suo amore,
allo stesso tempo, 蠰er noi la garanzia che esiste ciࣨe solo vagamente
intuiamo e, tuttavia, nell'intimo aspettiamo: la vita che 蠫 veramente 橴a.
Cerchiamo di concretizzare ulteriormente questa idea in un'ultima parte,
rivolgendo la nostra attenzione ad alcuni 쵯ghi 䩠pratico apprendimento ed
esercizio della speranza. |
31. Iterum: opus sunt nobis spes �ores maioresque ᵡe in itinere nos in
dies sustineant. Quae tamen non sufficiunt sine illa magna spe, quae cetera
omnia superare debet. Haec magna spes Deus tantum esse potest, qui universum
amplectitur et nobis offerre et largiri potest quod nos soli assequi non valemus.
Utique dono gratificari ad spem pertinet. Deus spei est fundamentum
quilibet deus, sed ille Deus qui humanum possidet vultum quique nos in 橮em
dilexit 輩>Io 13,1): singulos scilicet omnes ac totum humanum genus. Eius
regnum non est aliquid ultra realitatem fictum, in futuro tempore positum quod
numquam adveniet; regnum eius adest ubi Ipse amatur et ubi amor eius nos
attingit. Tantummodo amor eius nobis tribuit facultatem cotidie in omni
sobrietate perseverandi, quin ammittamus spei impulsum hoc in mundo qui suapte
natura est imperfectus. Eodem quidem tempore eius amor nobis offert certitudinem
exsistentiae huius quod solum obscuro animi intuitu cernimus et tamen in
interioribus praestolamur: illius scilicet vitae quae 楲e 橴a est. In
extrema parte hoc amplius explanandum curabimus, dum mentem Nostram ad quaedam ca 㯮vertimus ubi spes reapse discitur et exercetur. |
쵯ghi 䩠apprendimento e di esercizio della speranza
I. La preghiera come scuola della speranza
|
쯣a ᤠspem discendam et exercendam
I. Oratio tamquam spei schola
|
32. Un primo essenziale luogo di apprendimento della speranza 蠬a preghiera. Se
non mi ascolta pisuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso piࡲlare con
nessuno, pisuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c'蠰iꮥssuno che possa aiutarmi 䯶e si tratta di una necessit di un'attesa che
supera l'umana capacitࠤi sperare 姬i puࡩutarmi[25].
Se sono relegato in estrema solitudine...; ma l'orante non 蠭ai totalmente
solo. Da tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento, l'indimenticabile
Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di
speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione
apparentemente totale, l'ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una
crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consent젤i diventare
per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza 䩠quella grande
speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta. |
32. Primus essentialis locus ad spem discendam est oratio. Si nemo amplius me
audit, adhuc Deus me audit. Si cum nullo amplius possum colloqui ac neminem
invocare, cum Deo semper loqui possum. Si nemo adest qui me adiuvare potest 굢i de necessitate vel exspectatione agitur, quae humanam sperandi facultatem
supergreditur 鰳e me adiuvare potest.[25] Si extremam in solitudinem
relegor...; at qui orat numquam est omnino solus. Ex tredecim annis in carcere
detentus, ex quibus novem segregatus, Cardinalis NguyꮠVan Thu⮬ recolendae
memoriae, reliquit nobis praestantem libellum: Orationes spei. Per
tredecim annos carceris, cum animo esset fere omnino confractus, facultas Deum
audiendi, cum Ipso loquendi, fecit ut in eo spei virtus cresceret, quae post
eius liberationem tribuit illi ut pro hominibus toto in orbe testis fieret spei
鬬ius magnae spei, quae etiam in noctibus solitudinis non occidit. |
33. In modo molto bello Agostino ha illustrato l'intima relazione tra preghiera
e speranza in una omelia sulla Prima Lettera di Giovanni. Egli definisce
la preghiera come un esercizio del desiderio. L'uomo 蠳tato creato per una
realtࠧrande ॲ Dio stesso, per essere riempito da Lui. Ma il suo cuore 荊troppo stretto per la grande realtࠣhe gli 蠡ssegnata. Deve essere allargato.
⩮viando [il suo dono], Dio allarga il nostro desiderio; mediante il
desiderio allarga l'animo e dilatandolo lo rende pi㡰ace [di accogliere Lui
stesso] gostino rimanda a san Paolo che dice di s頤i vivere proteso verso
le cose che devono venire (cfr Fil 3,13). Poi usa un'immagine molto bella
per descrivere questo processo di allargamento e di preparazione del cuore
umano. 㵰poni che Dio ti voglia riempire di miele [simbolo della tenerezza di
Dio e della sua bontݮ Se tu, per젳ei pieno di aceto, dove metterai il miele?
鬠vaso, cio蠩l cuore, deve prima essere allargato e poi pulito: liberato
dall'aceto e dal suo sapore. Cichiede lavoro, costa dolore, ma solo cos젳i
realizza l'adattamento a ciࡠcui siamo destinati[26].
Anche se Agostino parla direttamente solo della ricettivit࠰er Dio, appare
tuttavia chiaro che l'uomo, in questo lavoro col quale si libera dall'aceto e
dal sapore dell'aceto, non diventa solo libero per Dio, ma appunto si apre anche
agli altri. Solo diventando figli di Dio, infatti, possiamo stare con il nostro
Padre comune. Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell'angolo
privato della propria felicitIl giusto modo di pregare 蠵n processo di
purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio cos쬠anche capaci
per gli uomini. Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa
veramente chiedere a Dio 㨥 cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non pu튰regare contro l'altro. Deve imparare che non puࣨiedere le cose superficiali
e comode che desidera al momento 졠piccola speranza sbagliata che lo conduce
lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze. Deve
liberarsi dalle menzogne segrete con cui inganna se stesso: Dio le scruta, e il
confronto con Dio costringe l'uomo a riconoscerle pure lui. 쥠inavvertenze
chi le discerne? Assolvimi dalla colpe che non vedo లega il Salmista
(19[18],13). Il non riconoscimento della colpa, l'illusione di innocenza non mi
giustifica e non mi salva, perch頬'intorpidimento della coscienza, l'incapacit͊di riconoscere il male come tale in me, 蠣olpa mia. Se non c'蠄io, devo forse
rifugiarmi in tali menzogne, perch頮on c'蠮essuno che possa perdonarmi,
nessuno che sia la misura vera. L'incontro invece con Dio risveglia la mia
coscienza, perch頥ssa non mi fornisca pi宧autogiustificazione, non sia pi굮 riflesso di me stesso e dei contemporanei che mi condizionano, ma diventi
capacitࠤi ascolto del Bene stesso. |
33. Sanctus Augustinus intimam conexionem inter orationem et spem in quodam
sermone de Epistula Prima Ioannis ornatissime illustravit. Ipse orationem
definit tamquam desiderii exercitium. Homo est ad magnam realitatem creatus ᤍ
ipsum Deum, ut ab Eo impleretur. Sed cor eius nimis angustum est prae hac magna
realitate, cui destinatum est. Extendendum sit oportet. 㩣 Deus [donum sui]
differendo extendit desiderium [nostrum]; desiderando extendit animum,
extendendo facit capacem [suscipiendi Ipsum] ugustinus remittit ad sanctum
Paulum, qui de se dicit extentum vivere in ea quae ventura sunt (cfr Philp
3,13). Splendidam deinde adhibet imaginem ad processum extensionis et
praeparationis humani cordis describendum. ൴a quia melle [quod imago est
teneritudinis Dei eiusque bonitatis] te vult implere Deus: si aceto plenus es,
ubi mel pones? ֡s, id est cor, prius extendendum est ac deinde mundandum: ab
aceto eiusque sapore liberandum. Hoc laborem postulat, dolorem requirit, sed
solummodo sic accommodatio peragitur ad quam destinati sumus.[26]
Etiamsi Augustinus immediate tantum de capacitate Deum suscipiendi loquitur,
omnino tamen liquet hominem in hoc labore, in quo ipse ab aceto eiusque aceti
sapore se liberat, non solum pro Deo liberum fieri, sed profecto etiam aliis se
aperire. Nam solum filii Dei facti, apud communem Patrem nostrum esse possumus.
Orare non significat ex historia exire et in angulum privatum propriae
felicitatis recedere. Rectus orationis modus est processus interioris
purificationis, qui nos capaces efficit pro Deo et ita prorsus etiam capaces pro
hominibus. In oratione homo discere debet quid vere ipsi a Deo poscere liceat 걵id Dei dignum sit. Discere debet se contra alium precari non posse. Discere
debet se futtilia et commoda, quae illo temporis vestigio ipse cupit, sibi
poscere non licere 补c falsa parva spes est, quae eum segregat a Deo. Sua
desideria suasque spes mundare debet. Se eripere debet a secretis mendaciis,
quibus se ipsum decipit: Deus perspicit ea, atque comparatio cum Deo hominem
urget ut ipse quoque ea agnoscat. 岲ores quis intellegit? Ab occultis munda
me 豹 [18], 13), orat Psalmista. Culpae ignoratio, innocentiae falsa imago
non me excusat nec salvat, quoniam ego ipse noxius sum torporis conscientiae,
incapacitatis malum in me uti malum agnoscendi. Si Deus non est, forsitan
confugere cogor in huiusmodi mendacia, quia nemo est qui mihi ignoscere possit,
nemo qui vera sit rerum mensura. Sed occursus cum Deo excutit meam conscientiam,
ut ipsa mihi non sit amplius iustificatione, nec repercussione mei ipsius et
coaequalium qui condicionibus me astringunt, sed capacitas fiat ipsum Bonum
audiendi. |
34. Affinch頬a preghiera sviluppi questa forza purificatrice, essa deve, da una
parte, essere molto personale, un confronto del mio io con Dio, con il Dio
vivente. Dall'altra, tuttavia, essa deve essere sempre di nuovo guidata ed
illuminata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi, dalla preghiera
liturgica, nella quale il Signore ci insegna continuamente a pregare nel modo
giusto. Il Cardinale Nguyen Van Thuan, nel suo libro di Esercizi spirituali, ha
raccontato come nella sua vita c'erano stati lunghi periodi di incapacitࠤi
pregare e come egli si era aggrappato alle parole di preghiera della Chiesa: al
Padre nostro, all'Ave Maria e alle preghiere della Liturgia[27].
Nel pregare deve sempre esserci questo intreccio tra preghiera pubblica e
preghiera personale. Cos젰ossiamo parlare a Dio, cos전io parla a noi. In
questo modo si realizzano in noi le purificazioni, mediante le quali diventiamo
capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini. Cos젤iventiamo
capaci della grande speranza e cos젤iventiamo ministri della speranza per gli
altri: la speranza in senso cristiano 蠳empre anche speranza per gli altri. Ed
蠳peranza attiva, nella quale lottiamo perch頬e cose non vadano verso 졍
fine perversa Ƞsperanza attiva proprio anche nel senso che teniamo il mondo
aperto a Dio. Solo cos젥ssa rimane anche speranza veramente umana. |
34. Ut oratio hanc purificatoriam vim explicet, una ex parte ea sit oportet
omnino personalis, collationem mei ipsius constituat cum Deo, cum Deo viventi.
Altera ex parte tamen ea debet iterum iterumque conduci et illustrari
praestantioribus Ecclesiae sanctorumque precibus, oratione liturgica, in qua
Dominus iugiter docet nos congruenter orare. Cardinalis NguyꮠVan Thu⮠suo in
libro Exercitiorum spiritalium narravit quomodo eius in vita longa temporis
spatia exstiterint incapacitatis orandi et quomodo ipse verbis orationum
Ecclesiae adhaeserit: orationibus Pater noster, Ave Maria necnon precibus
Liturgiae.[27] Cum oratur, necesse est ut semper hic nexus detur inter
communem et personalem orationem. Sic loqui possumus Deo, sic Deus nos
alloquitur. Sic purificationes in nobis peraguntur, per quas habiles erimus ad
Deum atque idonei efficiemur ad hominibus serviendum. Sic habiles erimus ad
magnam spem et spei ministri erimus pro aliis: spes christiano sensu semper est
etiam spes pro aliis. Agitur enim de spe actuosa, in qua certamus, ne res ad 갥rversum exitum 䩲igantur. Agitur de spe actuosa hoc quoque sensu ut nos
mundum Deo apertum teneamus. Solum ita ea quoque uti spes vere humana permanet. |
II. Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza |
II. Agere et pati tamquam loca ad spem discendam |
35. Ogni agire serio e retto dell'uomo 蠳peranza in atto. Lo 蠩nnanzitutto nel
senso che cerchiamo cos젤i portare avanti le nostre speranze, picole o pi꧲andi: risolvere questo o quell'altro compito che per l'ulteriore cammino della
nostra vita 蠩mportante; col nostro impegno dare un contributo affinch頩l
mondo diventi un po' pi쵭inoso e umano e cos젳i aprano anche le porte verso
il futuro. Ma l'impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per
il futuro dell'insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la
luce di quella grande speranza che non puॳsere distrutta neppure da
insuccessi nel piccolo e dal fallimento in vicende di portata storica. Se non
possiamo sperare pi䩠quanto 蠥ffettivamente raggiungibile di volta in volta
e di quanto di sperabile le autorit࠰olitiche ed economiche ci offrono, la
nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza. Ƞimportante
sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il
momento storico che sto vivendo apparentemente non ho pinte da sperare.
Solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita
personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile
dell'Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un'importanza, solo una
tale speranza pu੮ quel caso dare ancora il coraggio di operare e di
proseguire. Certo, non possiamo 㯳truire 鬠regno di Dio con le nostre
forze 㩲 che costruiamo rimane sempre regno dell'uomo con tutti i limiti che
sono propri della natura umana. Il regno di Dio 蠵n dono, e proprio per questo
蠧rande e bello e costituisce la risposta alla speranza. E non possiamo ॲ
usare la terminologia classica 렭eritare 鬠cielo con le nostre opere. Esso
蠳empre pi䩠quello che meritiamo, cos젣ome l'essere amati non 蠭ai una
cosa �itata ୡ sempre un dono. Tuttavia, con tutta la nostra
consapevolezza del ଵsvalore 䥬 cielo, rimane anche sempre vero che il
nostro agire non 蠩ndifferente davanti a Dio e quindi non 蠮eppure
indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il
mondo all'ingresso di Dio: della veritଠdell'amore, del bene. Ƞquanto hanno
fatto i santi che, come 㯬laboratori di Dio ਡnno contribuito alla
salvezza del mondo (cfr 1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2). Possiamo liberare la
nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero
distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti
della creazione e cos쬠insieme con la creazione che ci precede come dono, fare
ciࣨe 蠧iusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalitCi튣onserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o
sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili. Cos쬠per un
verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo
stesso tempo, per젨 la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che,
nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dࠣoraggio e orienta il nostro
agire. |
35. Omnis sincera rectaque hominis actio spes est in actu. Ita est in primis eo
sensu quod nostras spes �ores maioresque ಯvehere intendimus: hoc vel
illud munus solvere quod pro ulteriore vitae nostrae itinere magni est momenti;
nostro studio conferre ad mundum paulo clariorem humanioremque reddendum, et ad
ianuas quoque ad futura tempora aperiendas. Studium tamen cotidianum ad propriam
vitam prosequendam adque universorum futurum nos lassat vel vertitur in
fanatismum, nisi illustremur lumine maioris spei quae nec iacturis in parvis
adversitatibus nec historiae rerum turbatione deleri possit. Si nobis sperare
non licet ultra ea quae singulis momentis re obtineri possunt atque politicae et
oeconomicae potestates sperandum nobis offerunt, vita nostra eo reducitur ut mox
spe careat. Scire interest: adhuc sperare possum, licet pro vita mea aut in hoc
historico momento appareat me nihil habere exspectandum. Tantum magna spei
certitudo nempe quod, praeter improsperos exitus, mea vita personalis et integra
historia custodiuntur sub indelebili Amoris potestate et huius gratia, pro ipso
sensum habent ac pondus; talis tantum spes animum adhuc addere potest ad
operandum et prosequendum. Certe, regnum Dei propriis viribus 㯮struere 곯li non valemus ᵯd construimus, semper regnum hominis omnibus
circumscriptum remanet limitibus naturae humanae propriis. Regnum Dei donum est,
idcirco magnum ac pulchrum est et responsum ad spem constituit. Nec valemus 崍
tradita utamur loquela 㡥lum nostris operibus �eri ɬlud superat ea
quae nos meremur, sicut amari numquam �itum d semper donum est. Attamen,
cum omni nostra conscientia �oris valoris 㡥li, patet quoque actiones
nostras coram Deo inertes non esse ideoque nec inertes pro historiae progressu.
Aperire possumus nosmet ipsos et mundum ingressui Dei: veritatis, amoris, boni.
Quod sancti fecerunt, qui veluti ᤩutores Dei 鮠mundum salvandum suam
operam contulerunt (cfr 1 Cor 3,9; 1 Thess 3,2). Possumus vitam
nostram et mundum a venenis eripere et a sordibus quae praesens et futurum
tempus destruere possent. Detegere possumus ac puras servare creationis fontes
et sic, una cum creatione quae uti donum nos praecedit, secundum eius
intrinsecas exigentias et finem quod iustum est facere. Hoc sensum retinet
etiamsi, ex iis quae apparent, exitum non assequamur vel, prae adversis insidiis,
viribus orbati videamur. Ita una ex parte, nostra ex actione oritur spes pro
nobis et pro aliis; eodem tamen tempore haec est magna spes quae Dei
promissionibus nititur qui tam in secundis quam in adversis animum nobis
infundit nostraque ducit opera. |
36. Come l'agire, anche la sofferenza fa parte dell'esistenza umana. Essa
deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall'altra, dalla massa di colpa
che, nel corso della storia, si 蠡ccumulata e anche nel presente cresce in modo
inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la
sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti;
calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri
sia della giustizia che dell'amore che rientrano nelle esigenze fondamentali
dell'esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Nella lotta contro il
dolore fisico si 蠲iusciti a fare grandi progressi; la sofferenza degli
innocenti e anche le sofferenze psichiche sono piuttosto aumentate nel corso
degli ultimi decenni. S쬠dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma
eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilitࠖ
semplicemente perch頮on possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e
perch頮essuno di noi 蠩n grado di eliminare il potere del male, della colpa
che 쯠vediamo 蠣ontinuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe
realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi
uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c'蠥 che perciesto
potere che 䯧lie il peccato del mondo 輩>Gv 1,29) 蠰resente nel
mondo. Con la fede nell'esistenza di questo potere, 蠥mersa nella storia la
speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non
ancora di compimento; speranza che ci dࠩl coraggio di metterci dalla parte del
bene anche lࠤove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che,
stando allo svolgimento della storia cos젣ome appare all'esterno, il potere
della colpa rimane anche nel futuro una presenza terribile. |
36. Sicut opera, dolores quoque ad humanam exsistentiam pertinent. Ipsi
proveniunt sive ex naturae coartatione sive ex cumulo culparum, quae in
historiae decursu sunt coacervatae, et in praesens quoque irrevocabiliter
crescunt. Omnibus certe viribus contendatur oportet ad dolorem extenuandum:
innocentium dolor, quantum fieri potest, est arcendus; dolores sedandi; ita est
agendum ut morbi mentales superentur. Omnia haec sive iustitiae sive caritatis
officia sunt, quae ad praecipuas condiciones tam christianae exsistentiae quam
cuiusque vitae vere humanae pertinent. In certamine contra physicum dolorem
magni peracti sunt progressus; passio innocentium et etiam morbi mentales
superioribus decenniis potius aucti sunt. Etenim, omni ope adlaborandum est ad
passionem superandam, eam tamen e mundo prorsus tollere non possumus 崠hoc
quidem, quoniam nostram limitationem prorsus excutere non est in nobis ac nemo
nostrum auferre valet potestatem mali, culpae, quae iugiter 崩 patet 毮s
est doloris. Hoc agere posset solum Deus: tantum Deus, qui Ipsemet in historiam
ingreditur, homo fit et in ea patitur. Nos novimus hunc Deum exsistere, et ideo
hanc potestatem quae 䯬lit peccatum mundi 輩>Io 1,29) in mundo adesse.
Per fidem in exsistentiam huius potestatis ingressa est spes in historiam
sanationis mundi. At illa certo spes est et non expletio; spes quae nobis animum
facit ut nos ex parte boni ponamus, etiam ubi res inanis videtur, in conscientia
quod secundum historiae exteriorem processum, culpae potestas etiam futuro in
tempore quaedam terribilis manet praesentia. |
37. Ritorniamo al nostro tema. Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di
lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio lࠤove gli uomini,
nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciࣨe
potrebbe significare patimento, lࠤove vogliono risparmiarsi la fatica e il
dolore della veritଠdell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella
quale forse non esiste quasi pi鬠dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura
sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non 蠬o scansare la
sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacitࠤi
accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante
l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore. Vorrei in questo
contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo
Le-Bao-Thin (ḵ7), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della
sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. 鯬
Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni
nelle quali quotidianamente sono immerso, perch頩nfiammati dal divino amore
innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna 蠬a sua misericordia (cfr Sal
136 [135]). Questo carcere 蠤avvero un'immagine dell'inferno eterno: ai crudeli
supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si
aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie,
giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza. Dio, che liber੍
tre giovani dalla fornace ardente, mi 蠳empre vicino; e ha liberato anche me da
queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna 蠬a sua misericordia.
In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la
grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perch頮on sono solo, ma Cristo 荊con me [...] Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno
imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome,
Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Sal 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco,
la tua croce 蠣alpestata dai piedi dei pagani! Dov'蠬a tua gloria? Vedendo
tutto questo preferisco, nell'ardore della tua caritଠaver tagliate le membra e
morire in testimonianza del tuo amore. Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni
in mio aiuto e salvami, perch頮ella mia debolezza sia manifestata e glorificata
la tua forza davanti alle genti [...]. Fratelli carissimi, nell'udire queste
cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene,
e beneditelo con me: eterna 蠬a sua misericordia. [...] Vi scrivo tutto questo,
perch頬a vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la
tempesta, getto l'ancora fino al trono di Dio: speranza viva, che 蠮el mio
cuore... ᠨref="#nota28it" name="nota28i">[28]. Questa 蠵na
lettera dall'鮦erno ө palesa tutto l'orrore di un campo di
concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s'aggiunge lo
scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure
esse ulteriori strumenti della crudeltࠤegli aguzzini. Ƞuna lettera
dall'inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: 㥠salgo in
cielo, l࠴u sei, se scendo negli inferi, eccoti [...]. Se dico: 쭥no
l'oscurit࠭i copra뮮.] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte 荊chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce 輩>Sal 139 [138]
8-12; cfr anche Sal 23 [22],4). Cristo 蠤isceso nell'鮦erno 堣os썊蠶icino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La
sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. Ƞsorta,
tuttavia, la stella della speranza 짡ncora del cuore giunge fino al trono di
Dio. Non viene scatenato il male nell'uomo, ma vince la luce: la sofferenza 곥nza cessare di essere sofferenza 䩶enta nonostante tutto canto di lode. |
37. Ad nostrum argumentum redeamus. Studium est in nobis dolores arcendi eisque
adversandi, non vero de mundo eos auferendi. Etenim ubi homines, dolores vitare
cupientes, ab omnibus quae dolores resipere possent se subtrahere contendunt,
ubi labori ac dolori veritatis, amoris et boni parcere cupiunt, in vitam vacuam
prolabuntur, in qua forsitan nihil est doloris, sed tantum privatio sensus et
solitudo obscurius percipiuntur. Nec remotio tribulationis, nec fuga doloris
hominem sanant, sed potestas tribulationem admittendi et in ea maturandi, in ea
sensum inveniendi cum Christo per coniunctionem, qui immenso amore passus est.
Hoc in contextu nonnullas sententias ex quadam epistula martyris Vietnamiensis
Pauli Le-Bao-Thin (턃CCLVII) memorare velimus, in quibus patet haec
transformatio doloris vi spei quae ex fide oritur. 姯, Paulus, pro nomine
Christi vinctus, tribulationes meas vobis referre volo quibus cotidie immersus
sum, ita ut, amore erga Deum accensi, laudes mecum Deo praebeatis, quoniam in
aeternum misericordia eius (cfr Ps 136 [135]). Hic carcer vere imago est
inferni aeterni: ad supplicia crudelia omnis generis, ut sunt compedes, catenae
ferreae et vincula, adduntur odium, vindictae, calumniae, verba indecentia,
querelae, actus mali, iuramenta iniusta, maledictiones et tandem angustiae et
tristitia. Deus autem qui olim liberavit tres pueros de camino ignis, mihi
semper adest meque ab istis tribulationibus liberavit et eas in dulcedinem
convertit, quoniam in aeternum misericordia eius. In medio autem horum
tormentorum, quae alios conterrere solent, gratia Dei, gaudio repletus sum et
laetitia, quia non solus sed cum Christo sum. [...] Quomodo autem sustineam
spectaculum istud, videns cotidie imperatores, mandarinos eorumque satellites
blasphemantes nomen sanctum tuum, Domine, qui sedes super Cherubim et Seraphim
(cfr Ps 80 [79], 2)? Ecce, crux tua a pedibus paganorum conculcata est!
Ubi est gloria tua? Videns haec omnia, malo, amore tui succensus, abscissis
membris, mori in testimonium amoris tui. Ostende, Domine, potentiam tuam, salva
me et sustine me, ut virtus tua in infirmitate mea ostendatur et glorificetur
coram gentibus. [...] Fratres carissimi, audientes haec omnia, gratias agatis
immortales in laetitia Deo, a quo bona cuncta procedunt, benedicite Domino mecum,
quoniam in aeternum misericordia eius! [...] Scribo vobis haec omnia, ut
coniungatur fides vestra et mea. Hac saeviente tempestate, ancoram iacio usque
ad thronum Dei: spem vivam, quae est in corde meo 졠href="#nota28lt" name="nota28l">[28] Haec epistula
est ex 鮦erno Сlam totus ostenditur horror campi captivorum
constipationis, in quo tormentis ex parte tyrannorum adiungitur pravitatis
impetus in eosdem patientes, qui sic iterum instrumenta fiunt atrocitatis
carnificum. Epistula est ex inferno, sed in ea dictio Psalmi confirmatur:
㩠ascendero in caelum, tu illic es; si descendero in infernum, ades. [...] Si
dixero: ﲳitan tenebrae compriment me뮮.], nox sicut dies illuminabitur 곩cut tenebrae eius ita et lumen eius 輩>Ps 139 [138], 8-12; cfr etiam
Ps 23 [22], 4). Christus descendit ad 鮦eros 崠sic prope est eum qui
illuc proicitur, eique tenebras in lumen mutat. Dolores et tormenta terribilia
pergunt esse ac fere intoleranda. Orta est tamen stella spei ᮣora cordis
quae ad Dei thronum pervenit. Pravitas in hominem non invehitur, immo vincit
lux: dolores 崳i dolores esse non desinunt 橵nt tamen canticum laudis. |
38. La misura dell'umanit࠳i determina essenzialmente nel rapporto con la
sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la societUna
societࠣhe non riesce ad accettare i sofferenti e non 蠣apace di contribuire
mediante la com-passione a far s젣he la sofferenza venga condivisa e portata
anche interiormente 蠵na societࠣrudele e disumana. La societଠper젮on pu튡ccettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono
essi stessi capaci di ci६ d'altra parte, il singolo non puࡣcettare la
sofferenza dell'altro se egli personalmente non riesce a trovare nella
sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di
speranza. Accettare l'altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche
modo la sua sofferenza, cosicch頥ssa diventa anche mia. Ma proprio perch頯ra 荊divenuta sofferenza condivisa, nella quale c'蠬a presenza di un altro, questa
sofferenza 蠰enetrata dalla luce dell'amore. La parola latina con-solatio,
consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella
solitudine, che allora non 蠰i㯬itudine. Ma anche la capacitࠤi accettare
la sofferenza per amore del bene, della veritࠥ della giustizia 蠣ostitutiva
per la misura dell'umanitଠperch頳e, in definitiva, il mio benessere, la mia
incolumitࠨ pi魰ortante della veritࠥ della giustizia, allora vige il
dominio del pi毲te; allora regnano la violenza e la menzogna. La veritࠥ la
giustizia devono stare al di sopra della mia comoditࠥd incolumitࠦisica,
altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna. E infine, anche il 㬠ꡬl'amore 蠦onte di sofferenza, perch頬'amore esige sempre espropriazioni del
mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L'amore non puࡦfatto esistere
senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro
egoismo e, con ci젡nnulla se stesso come tale. |
38. Humanitatis mensura determinatur essentialiter per habitudinem inter dolorem
et dolentem. Hoc valet tam pro singulis quam pro societate. Societas quae
dolentes accipere non potest neque adiuvare per participatum affectum, ut dolor
dividatur et etiam interius feratur, est societas crudelis et inhumana.
Nihilominus societas non valet patientes excipere nec eos in doloribus sustinere,
si ipsi singuli ad hoc faciendum inhabiles sunt, et, alioquin, alter alterius
dolores suscipere nequit, si ipsemet in dolore sensum, viam purificationis et
maturitatis, iter spei detegere non potest. Excipere proximum dolentem
significat illius dolores sibi assumere, ita ut mei quoque fiant. At eo quod
dolor nunc condivisus redditur, in quo alterius praesentia inest, dolor hic
amoris lumine penetratur. Verbum Latinum consolatio eleganter hoc
exprimit, cum adumbret esse cum aliquo in solitudine, quapropter tunc non est
amplius solitudo. Sed etiam facultas assumendi dolorem propter bonitatis,
veritatis et iustitiae amorem, humanitatis mensuram constituit, quia si
definitive prosperitas et incolumitas mea maioris est momenti quam veritas et
iustitia, tunc fortioris dominium praevalet; tunc violentia et mendacium
dominantur. Veritas et iustitia commoditati meae et physicae integritati
excellere debent, alioquin ipsa mea vita in mendacium mutatur. Ac denique, etiam
illud 橡t 岧a amorem fons efficitur doloris, quoniam amor usque exigit mei
ipsius expropriationes, in quibus me excidi ac vulnerari permitto. Amor profecto
exsistere non potest sine hac etiam onerosa renuntiatione mei ipsius; alioquin
fiet purus egoismus et hac de re se ipsum qua talem dissolvit. |
39. Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della veritࠥ della
giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama
veramente ᵥsti sono elementi fondamentali di umanitଠl'abbandono dei quali
distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo
capaci? Ƞl'altro sufficientemente importante, perch頰er lui io diventi una
persona che soffre? Ƞper me la verit࠴anto importante da ripagare la
sofferenza? Ƞcos젧rande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me
stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell'umanitଠspetta proprio questo
merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a una profondituova la
capacitࠤi tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanitLa fede
cristiana ci ha mostrato che veritଠgiustizia, amore non sono semplicemente
ideali, ma realtࠤi grandissima densitCi ha mostrato, infatti, che Dio 졍
Veritࠥ l'Amore in persona 衠voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di
Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus,
sed non incompassibilis[29] ꄩo non puడtire, ma pu࣯mpatire. L'uomo ha per Dio un valore cos젧rande da
essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto
reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione
di Gesġ l젩n ogni sofferenza umana 蠥ntrato uno che condivide la
sofferenza e la sopportazione; da l젳i diffonde in ogni sofferenza la
con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e cos젳orge la
stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo
sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze 䩠una visita
benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione
positiva di una crisi, e cos젶ia. Nelle prove minori questi tipi di speranza
possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali
devo far mia la decisione definitiva di anteporre la veritࠡl benessere, alla
carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo
parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di
martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare 穯rno
dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative
della quotidianitଠil bene alla comoditࠖ sapendo che proprio cos젶iviamo
veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacitࠤi soffrire per amore
della veritࠨ misura di umanitQuesta capacitࠤi soffrire, tuttavia, dipende
dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla
quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell'essere-uomo
nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perch頥rano ricolmi della
grande speranza. |
39. Pati cum alio, pro aliis; pati propter veritatis et iustitiae amorem; pati
ex amore et ut quisque persona efficiatur quae vere amet 补c sunt
fundamentalia humanitatis elementa, quorum derelictio hominem ipsum deleret. Sed
iterum surgit quaestio: hoc peragere possumus? Estne alter satis gravis, ut ego
pro eo patiens fiam? Estne veritas mihi tam magni ponderis ut pretium solvam
doloris? Estne tanta amoris promissio ut donum mei ipsius iustificet? Ad
christianam fidem in historia humanitatis hoc meritum pertinet in homine nova
ratione novaque subtilitate suscitandi capacitatem talium modorum patiendi qui
decretorii sunt pro eius humanitate. Christiana fides ostendit nobis veritatem,
iustitiam, amorem non solum specimina, sed realitates maximae esse densitatis.
Nam ipsa ostendit nobis Deum 楲itatem videlicet et ipsum Amorem ಯ nobis
et nobiscum pati voluisse. Bernardus Claravallensis effinxit hunc mirum dicendi
modum: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis [29] ꄥus pati non potest sed compati potest. Deus hominem tam magno aestimat ita ut
Ipse homo factus sit, ad com-patiendum cum homine, modo plane reali in carne et
sanguine, sicut nobis in narratione Passionis Iesu demonstratur. Illinc in omnem
humanam passionem ingressus est ille qui doloris et tolerantiae particeps fit;
illinc in omnem passionem difunditur con-solatio compatientis Dei amoris
et ita stella spei oritur. Procul dubio inter varios nostros dolores et
tribulationes iugiter indigemus etiam parvis mediisque spei formis ⥮evola
visitatione, interiorum ac exteriorum vulnerum sanatione, prospera cuiusdam
discriminis solutione, et ita porro. In minoribus tribulationibus hae spei
formae possunt etiam sufficere. Sed vere magnis in tribulationibus, in quibus
mihi est definitive decernendum, utrum veritas valetudini, honorum cursibus,
possessioni sit anteponenda, certitudo verae, magnae spei, cuius mentionem
fecimus, necessaria redditur. Quamobrem indigemus quoque testibus, martyribus,
qui plane in dies sese obtulerunt, ut ipsi nobis hoc ostenderent. Iisdem
indigemus ut inter parvas vicissitudines vitae cotidianae, bonum commoditati
anteponamus 㣩entes hac ratione nos ipsos veram vitam vivere. Hoc Nobis
iterum dicere liceat: capacitas patiendi propter amorem veritatis mensura est
humanitatis. Haec tamen capacitas patiendi pendet ex genere et ex mensura spei
quam intra nos perferimus ac super quam aedificamus. Magna spe repleti, sancti
magnum humanae exsistentiae iter conficere potuerunt eadem ratione qua antea id
fecit Christus. |
40. Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione non del tutto irrilevante
per le vicende di ogni giorno. Faceva parte di una forma di devozione, oggi
forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di
poter 簾rire 쥠piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di
nuovo come punzecchiature pieno fastidiose, conferendo cos젡d esse un
senso. In questa devozione c'erano senz'altro cose esagerate e forse anche
malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa
di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire 簾rire 튑ueste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo
le loro piccole fatiche, che entravano cos젡 far parte in qualche modo del
tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche
le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire
all'economia del bene, dell'amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero
chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata
anche per noi. |
40. Adhuc parvam addere volumus animadversionem non sine quadam significatione
quoad cotidiana negotia. Ad quandam hodie fortasse minus adhibitam, sed nuper
adhuc valde diffusam formam pietatis, pertinebat cogitatio parvos labores
cotidianos 簾erendi i nos iterum iterumque veluti acuti ictus percutiunt,
ita eis sensum conferentes. In hac pietate haud dubie exaggeratae vel forsitan
etiam insanae res inerant, sed interrogare oportet an etiam in iis non
contineretur aliquid essentiale quod nos iuvare posset. Quid sibi vult 簾erre
ȩ homines pro comperto habebant se exiguos suos labores in magnam Christi
com-passionem includere posse, qui ita quodammodo participes fierent thesauri
compassionis, qua humanum genus indiget. Hoc modo parvae angustiae vitae
cotidianae possent sensum acquirere et ad bonitatis et amoris oeconomiam apud
homines conferre. Forsitan nobis quaerendum est an talis agendi modus etiam pro
nobis prospectus sapiens rursus fieri possit. |
III. Il Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza |
III. Iudicium tamquam locus ad spem discendam et exercendam |
41. Nel grande Credo della Chiesa la parte centrale, che tratta del
mistero di Cristo a partire dalla nascita eterna dal Padre e dalla nascita
temporale dalla Vergine Maria per giungere attraverso la croce e la risurrezione
fino al suo ritorno, si conclude con le parole: di nuovo verrella gloria
per giudicare i vivi e i morti ̡ prospettiva del Giudizio, giࠤai
primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come
criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro
coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. La fede in
Cristo non ha mai guardato solo indietro n頭ai solo verso l'alto, ma sempre
anche in avanti verso l'ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente
preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua
importanza per il presente. Nella conformazione degli edifici sacri cristiani,
che volevano rendere visibile la vastit࠳torica e cosmica della fede in Cristo,
diventࡢituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re
짩mmagine della speranza l lato occidentale, invece, il Giudizio finale
come immagine della responsabilit࠰er la nostra vita, una raffigurazione che
guardava ed accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la
quotidianitNello sviluppo dell'iconografia, per젨 poi stato dato sempre pi격salto all'aspetto minaccioso e lugubre del Giudizio, che ovviamente
affascinava gli artisti pi䥬lo splendore della speranza, che spesso veniva
eccessivamente nascosto sotto la minaccia. |
41. In magno Credo Ecclesiae media pars, quae tractat de mysterio Christi
initium sumens ab aeterno ortu ex Patre atque a temporali nativitate ex Maria
Virgine ut, per crucem et resurrectionem, ad eius alterum adventum redeatur,
hisce concluditur verbis: iterum venturus est cum gloria, iudicare vivos
et mortuos вospectus Iudicii iam a primordiis animos christianorum in eorum
vita cotidiana permovit tamquam regula ad vitam praesentem temperandam, tamquam
monitum ad eorum conscientiam simulque tamquam spes de divina iustitia. Fides in
Christum numquam solum retro respexit nec solum in altum, sed semper etiam in
futurum, in horam iustitiae quam Dominus saepe praenuntiaverat. Hic contuitus in
futurum tempus christianismum in praesentia dignitate ditavit. In christianis
sacris aedibus exstruendis, quae visibilem reddere volebant historicam et
cosmicam amplitudinem fidei in Christum, consuetudo vigebat in latere orientali
Dominum veluti regem redeuntem 㰥i imaginem 妦ingendi, in latere vero
occidentali Iudicium finale tamquam responsalitatis pro nostra vita imaginem,
speciem quae fideles ita in eorum cotidiano itinere aspiciebat et comitabatur.
Attamen in evolutione iconographica fortiter praevaluit minax et horribilis
Iudicii aspectus, qui evidenter artifices alliciebat, potius quam splendor spei
quae saepe minacibus signis obscurabatur. |
42. Nell'epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede
cristiana viene individualizzata ed 蠯rientata soprattutto verso la salvezza
personale dell'anima; la riflessione sulla storia universale, invece, 蠩n gran
parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto fondamentale dell'attesa
del Giudizio, tuttavia, non 蠳emplicemente scomparso. Ora perࡳsume una forma
totalmente diversa. L'ateismo del XIX e del XX secolo 謠secondo le sue radici e
la sua finalitଠun moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e
della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di
ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non pu튥ssere l'opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilitࠤi un simile
mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. Ƞin nome della
morale che bisogna contestare questo Dio. Poich頮on c'蠵n Dio che crea
giustizia, sembra che l'uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia.
Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio 荊comprensibile, la pretesa che l'umanit࠰ossa e debba fare ciࣨe nessun Dio fa
n頨 in grado di fare, 蠰resuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale
premessa siano conseguite le pi粡ndi crudeltࠥ violazioni della giustizia
non 蠵n caso, ma 蠦ondato nella falsitࠩntrinseca di questa pretesa. Un mondo
che si deve creare da s頬a sua giustizia 蠵n mondo senza speranza. Nessuno e
niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il
cinismo del potere 㯴to qualunque accattivante rivestimento ideologico si
presenti continui a spadroneggiare nel mondo. Cos젩 grandi pensatori
della scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, hanno criticato
in ugual modo l'ateismo come il teismo. Horkheimer ha radicalmente escluso che
possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo
stesso tempo perche l'immagine del Dio buono e giusto. In una
radicalizzazione estrema del divieto veterotestamentario delle immagini, egli
parla della talgia del totalmente Altro 㨥 rimane inaccessibile 宍
grido del desiderio rivolto alla storia universale. Anche Adorno si 蠡ttenuto
decisamente a questa rinuncia ad ogni immagine che, appunto, esclude anche l'ꩭmagine 䥬 Dio che ama. Ma egli ha anche sempre di nuovo sottolineato questa
dialettica ativa 堨a affermato che giustizia, una vera giustizia,
richiederebbe un mondo 鮠cui non solo la sofferenza presente fosse annullata,
ma anche revocato ciࣨe 蠩rrevocabilmente passato ᠨref="#nota30it" name="nota30i">[30].
Questo, per젳ignificherebbe 峰resso in simboli positivi e quindi per lui
inadeguati 㨥 giustizia non puॳservi senza risurrezione dei morti. Una
tale prospettiva, tuttavia, comporterebbe 졠risurrezione della carne, una
cosa che all'idealismo, al regno dello spirito assoluto, 蠴otalmente estranea
ᠨref="#nota31it" name="nota31i">[31]. |
42. Nova aetate mens de Iudicio finali obsolescit: fides christiana ad
individuum reducitur et praesertim ad personalem animae salutem vertitur;
consideratio de historia universali autem magna ex parte progressionis
cogitatione comprehenditur. Attamen materia fundamentalis circa exspectationem
Iudicii prorsus non evanescit. Nunc autem illud formam plane diversam induit.
Atheismus XIX et XX saeculi secundum suas radices suumque finem, est quidam
moralismus: reclamatio contra mundi et universalis historiae iniustitias. Mundus,
in quo talis datur moles iniustitiae, doloris innocentium atque immanitatis
potestatum, boni Dei opus nequit esse. Ille Deus qui de tali mundo curam
adhiberet, iustus Deus non esset, ac minore quidem ratione bonus. Moralis rei
nomine hic Deus oppugnetur oportet. Quandoquidem non exsistit ille Deus qui
iustitiam constituat, homo ipsemet nunc vocari videtur ad iustitiam statuendam.
Si coram dolore huius mundi reclamatio contra Deum comprehensibilis videtur,
ambitiosum desiderium ut hominum societas ea facere possit et debeat quae nullus
Deus facit nec facere potest, superbum exstat atque intrinsecus non verum. Quod
demum ex huiusmodi propositione graves immanitates iustitiaeque violationes sunt
secutae, id haud casu evenit, sed in intrinseca huius praesumptionis falsitate
innititur. Mundus qui per se suam iustitiam creare ipse debet, is sine spe est
mundus. Nemo nihilque de saeculorum mundi doloribus respondet. Nemo nihilque
praestat ne regiminis protervitas 㵢 quocumque allicienti ideologiae
involucro se ostendens 鮠mundo dominari pergat. Sic eximii Francofurtensis
scholae philosophi, scilicet Maximilianus Horkheimer et Theodorus W. Adorno
simul atheismum theismumque aequabiliter notarunt. Horkheimer funditus negavit
succedaneum quiddam immanens pro Deo reperiri posse, cum tamen eadem opera Dei
boni iustique speciem etiam respueret. Quando apud Vetus Testamentum imagines
radicitus vetantur, is de ﭮino Alterius rei desiderio 쯱uitur, quae
attingi non potest 㬡matio est desiderii, quae ad universalem historiam
convertitur. Adorno etiam hac omnium imaginum recusatione prorsus tenetur, quae
amantis Dei etiam 魡ginem ᭯vet. At semper is hanc dialecticam ativam
帴ulit atque autumavit iustitiam, veram videlicet iustitiam, orbem secum
ferre, in quo non modo praesentes dolores delerentur, verum etiam quae omnino
abierunt revocarentur.[30] Id autem significat ᵯd positivis
symbolis ideoque ad eius mentem non sufficientibus exprimitur 鵳titiam absque
mortuorum resurrectione dari non posse. Talis tamen rerum prospectus secum fert
㡲nis resurrectionem, quod idealismo, videlicet spiritus absoluti provinciae,
prorsus alienum est 졠href="#nota31lt" name="nota31l">[31] |
43. Dalla rigorosa rinuncia ad ogni immagine, che fa parte del primo
Comandamento di Dio (cfr Es 20,4), puॠdeve imparare sempre di nuovo
anche il cristiano. La veritࠤella teologia negativa 蠳tata posta in risalto
dal IV Concilio Lateranense il quale ha dichiarato esplicitamente che, per
quanto grande possa essere la somiglianza costatata tra il Creatore e la
creatura, sempre pi粡nde 蠴ra di loro la dissomiglianza[32].
Per il credente, tuttavia, la rinuncia ad ogni immagine non puingersi fino
al punto da doversi fermare, come vorrebbero Horkheimer e Adorno, nel ᤍ
ambedue le tesi, al teismo e all'ateismo. Dio stesso si 蠤ato un' 魭agine 튮el Cristo che si 蠦atto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini
sbagliate di Dio 蠰ortata all'estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio
nella figura del sofferente che condivide la condizione dell'uomo abbandonato da
Dio, prendendola su di s鮠Questo sofferente innocente 蠤iventato
speranza-certezza: Dio c'謠e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non
siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. S쬍
esiste la risurrezione della carne[33].
Esiste una giustizia[34]. Esiste la
⥶oca 䥬la sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto.
Per questo la fede nel Giudizio finale 蠩nnanzitutto e soprattutto speranza 걵ella speranza, la cui necessit࠳i 蠲esa evidente proprio negli
sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della
giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento piꦯrte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale
di un appagamento che in questa vita ci 蠮egato, dell'immortalitࠤell'amore
che attendiamo, 蠣ertamente un motivo importante per credere che l'uomo sia
fatto per l'eternitma solo in collegamento con l'impossibilitࠣhe
l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente
la necessitࠤel ritorno di Cristo e della nuova vita. |
43. Absoluta ex omnium imaginum repudiatione, quam primum Dei Mandatum
complectitur (cfr Ex 20,4), usque discere denuo potest debetque quoque
christianus. Theologiae negativae veritatem extulit IV Concilium Lateranense,
quod palam edixit, quantalibet sit similitudo, quae inter Creatorem et creaturam
viget, maiorem usque adesse inter Illum illamque dissimilitudinem.[32]
Credens tamen, eo quod omnis imago repudiatur, pervenire non potest illuc, ubi
sistere debet, sicut arbitrantur Horkheimer atque Adorno, utramque negans thesim,
videlicet theismum et atheismum. Deus 魡ginem 㩢i ipse dedit: in Christo
qui homo factus est. In Eo, Crucifixo, Dei imaginum falsarum detrectatio ad
summum est perducta. Nunc Deus nimirum suum Vultum in ipsa patientis effigie
ostendit, qui hominis a Deo deserti condicionem communicat, in se eandem
recipiens. Patiens hic innocens factus est spei certitudo: Deus est, atque Deus
iustitiam ratione quadam creare valet, quam nos intellegere non valemus, quamque
tamen per fidem percipere possumus. Utique, carnis est resurrectio.[33]
Iustitia est.[34] Praeteriti maeroris est ᢲogatio ಥparatio quam
ius restituit. Hanc ob rem in novissimum Iudicium fides in primis ac potissimum
est spes, spes scilicet illa, cuius necessitas in ipsis postremorum saeculorum
submotionibus liquide apparuit. Persuasum quidem habemus iustitiae causam
praecipuum esse argumentum, quidquid est, pro fide de vita aeterna argumentum
esse validissimum. Eo quod quisque necessitatem habet satisfactionis, quae hac
in vita non datur, immortalitatis amoris, quem exspectamus, id magni ponderis
procul dubio est argumentum ut illud credatur hominem ad aeternitatem factum
esse; sed dum id cum illa impossibilitate nectitur historiae iniustitiam
novissimum esse verbum, Christi reditus novaeque vitae necessitas multum quidem
suadent. |
44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio
蠵n mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio puࣲeare giustizia. E
la fede ci dࠬa certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale 蠩n primo
luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse
addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non 蠦orse anche un'immagine
di spavento? Io direi: 蠵n'immagine che chiama in causa la responsabilit
Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra
paura ha la sua collocazione nell'amore[35].
Dio 蠧iustizia e crea giustizia. Ƞquesta la nostra consolazione e la nostra
speranza. Ma nella sua giustizia 蠩nsieme anche grazia. Questo lo sappiamo
volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue 穵stizia e
grazia 䥶ono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia
non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non 蠵na spugna che
cancella tutto cos젣he quanto s'蠦atto sulla terra finisca per avere sempre lo
stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione,
per esempio, Dosto붳kij nel suo romanzo 쩾I fratelli Karamazov ɍ
malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola
accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. Vorrei a questo punto citare un
testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran
parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con immagini
mitologiche, che perಥndono con evidenza inequivocabile la veritଠegli dice
che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice. Ora non conta pi㩲
che esse erano una volta nella storia, ma solo ciࣨe sono in veritﲡ [il
giudice] ha davanti a s頦orse l'anima di un [...] re o dominatore e non vede
niente di sano in essa. La trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da
spergiuro ed ingiustizia [...] e tutto 蠳torto, pieno di menzogna e superbia, e
niente 蠤ritto, perch頥ssa 蠣resciuta senza veritEd egli vede come
l'anima, a causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza
nell'agire, 蠣aricata di smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale
spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirࠬe punizioni meritate
[...] A volte, per젥gli vede davanti a s頵n'anima diversa, una che ha fatto
una vita pia e sincera [...], se ne compiace e la manda senz'altro alle isole
dei beati ᠨref="#nota36it" name="nota36i">[36]. Geslla
parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha
presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla
spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile
tra s頥 il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa
della dimenticanza dell'altro, dell'incapacitࠤi amare, che si trasforma ora in
una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Ges鮠questa
parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma
riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella
cio蠤i una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la
sentenza ultima manca ancora. |
44. Quod adversus Deum iustitiae nomine arguitur id non iuvat. Sine Deo mundus
est sine spe mundus (cfr Eph 2,12). Deus unus iustitiam efficere potest.
Atque fides nos certos reddit: Is id agit. Novissimi Iudicii imago in primis
terrifica non est imago, sed spei imago; nobis fortasse ipsa spei decretoria
imago. An terroris quoque est imago? Dixerimus: imago est quae officii
conscientiam complectitur. Imago igitur est illius terroris de quo sanctus
Hilarius loquitur, omnem scilicet nostrum metum in amore locari.[35]
Deus iustitia est et iustitiam creat. Haec nostra solatio atque nostra spes. At
sua in iustitia simul est gratia. Hoc scimus, Christum cruci affixum et
resuscitatum contuentes. Ambae 鵳titia et gratia 㵯 in interiore iustoque
vinculo perspici debent. Gratia iustitiam non repellit. Iniustitiam in ius non
mutat. Non veluti spongia est quaedam quae omnia delet ita ut quod factum sit in
terra eandem tandem habeat vim. Adversus id genus caelum gratiamque merito
clamat, exempli gratia, Dostoievskij sua in commenticia fabula, quae est
Fratres Karamazov. Improbi tandem, in aeterno convivio, permixte ad mensam
prope victimas non sedebunt, proinde quasi nihil acciderit. Hoc in loco Platonis
scriptum afferre volumus, quod aliquam iusti iudicii praesensionem ostendit,
quod partim christiano verum est ac salutare. Licet fabulares imagines
adhibuerit, quae alioquin perquam clare veritatem manifestant, ipse asseverat
nudas tandem ante iudicem astare animas. Nunc nihil id valet quod in historia
quondam fuerunt, sed quod in veritate sunt. 䵮c ipse [iudex] ante se fortasse
[...] alicuius regis vel dominatoris habet animam et nihil in ea videt sani. Eam
reperit percussam et cicatricum refertam, quae ex peieratione et iniustitia
oriuntur [...] atque omnia sunt detorta et mendaciis insolentiaque plena, et
nihil est rectum, quandoquidem illa sine veritate adolevit. Atque ipse videt
quemadmodum anima, propter arbitrium, vehementiam, elationem et in agendo
impudentiam, immanitate infamiaque oneretur. Coram hoc spectaculo, eam ipse in
carcerem conicit, ubi merito punietur [...] Nonnumquam autem dissimilem animam
videt, quae piam sinceramque vitam exegit [...], in qua complacuit eamque ad
beatorum insulas mox amandat 졠href="#nota36lt" name="nota36l">[36] In divitis epulonis pauperisque
Lazari parabola (cfr Lc 16,19-31) Iesus ad nostram monitionem quandam
animae imaginem ostendit, quae adrogantia opibusque vastatur, quaeque inter se
et pauperem foveam insuperabilem ipsa fodit, quae fovea inclusionis est intra
corporis delicias; fovea quidem alterius oblivionis, imperitiae amandi, quae
nunc in igneam sitim et iam insanabilem commutatur. Effari hic debemus Iesum hac
in parabola de postrema sorte post Iudicium universale haud loqui, qui vero
opinationem quandam refert, quae etiam apud veterem Iudaicam doctrinam reperitur,
quae quandam condicionem mediam inter mortem ac resurrectionem memorat, in qua
ultimum iudicium adhuc deest. |
45. Questa idea vetero-giudaica della condizione intermedia include l'opinione
che le anime non si trovano semplicemente in una sorta di custodia provvisoria,
ma subiscono gi࠵na punizione, come dimostra la parabola del ricco epulone, o
invece godono giࠤi forme provvisorie di beatitudine. E infine non manca il
pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni,
che rendono l'anima matura per la comunione con Dio. La Chiesa primitiva ha
ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si 荊sviluppata man mano la dottrina del purgatorio. Non abbiamo bisogno di prendere
qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto
di che cosa realmente si tratti. Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo
diventa definitiva ᵥsta sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che
nel corso dell'intera vita ha preso forma, puࡶere caratteri diversi. Possono
esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della
veritࠥ la disponibilitࠡll'amore. Persone in cui tutto 蠤iventato menzogna;
persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. ȍ
questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia
lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili
individui non ci sarebbe pinte di rimediabile e la distruzione del bene
sarebbe irrevocabile: 蠱uesto che si indica con la parola inferno[37].
Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate
interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo
ॲsone, delle quali la comunione con Dio orienta giࠦin d'ora l'intero
essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciࣨe ormai sono[38]. |
45. Haec mediae condicionis vetus-Iudaica opinio illud secum fert: non
detinentur dumtaxat animae in quadam temporaria custodia, sed poenam iam luunt,
sicut divitis epulonis parabola ostendit, aut contra temporariae cuiusdam
beatitudinis formis iam fruuntur. Atque tandem non desunt qui opinentur hoc in
statu purgationes et sanationes etiam dari, quae ad Deum communicandum animam
paratam efficiunt. Primigenia Ecclesia has cogitationes sumpsit, ex quibus
exinde in occidentali Ecclesia paulatim purgatorii doctrina est orta. Haud hic
necesse habemus ut historicas huius progressionis semitas, implicatas quidem,
perpendamus; interrogemus solummodo quid sit revera istud. Mortuo homine, eius
vitae electio consummatur 橴a haec ante Iudicem sistit. Eius electio, quae
per vitae cursum fingitur, varias species habere potest. Sunt quidam qui
veritatis desiderium amorisque alacritatem deleverint. In iis omnia facta sunt
mendacia; ii odio vixerunt iique in se amorem ipsi proculcarunt. Terrificus est
hic prospectus, sed quaedam nostrae historiae personae huius generis species
horrendum in modum agnoscere sinunt. Talibus in hominibus nihil sanabile
invenias et boni dissipatio irreparabilis: id ipsum inferni [37]
verbo significatur. At contra integerrimae personae esse possunt, quae se a Deo
penitus pervadi sunt passae, quapropter omnino proximo praesto sunt. De
hominibus nempe agitur, qui a Deo communicato toti prorsus diriguntur, quorum ad
Deum accessio illud solummodo complet quod ii iam sunt.[38] |
46. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, n頬'uno n頬'altro 蠩l caso
normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini 㯳젰ossiamo
supporre ⩭ane presente nel piಯfondo della loro essenza un'ultima
apertura interiore per la veritଠper l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di
vita, per젥ssa 蠲icoperta da sempre nuovi compromessi col male �ta
sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, 蠲imasta la sete e che,
ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente
nell'anima. Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al
Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno
forse di colpo irrilevanti? O che cosa d'altro accadrSan Paolo, nella
Prima Lettera ai Corinzi, ci d࠵n'idea del differente impatto del giudizio
di Dio sull'uomo a seconda delle sue condizioni. Lo fa con immagini che vogliono
in qualche modo esprimere l'invisibile, senza che noi possiamo trasformare
queste immagini in concetti 㥭plicemente perch頮on possiamo gettare lo
sguardo nel mondo al di lࠤella morte n頡bbiamo alcuna esperienza di esso.
Paolo dice dell'esistenza cristiana innanzitutto che essa 蠣ostruita su un
fondamento comune: Ges㲩sto. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti
saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita,
sappiamo che questo fondamento non ci pu峳ere sottratto neppure nella
morte. Poi Paolo continua: 㥬 sopra questo fondamento, si costruisce con oro,
argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarࠢen
visibile: la farࠣonoscere quel giorno che si manifesterࠣol fuoco, e il fuoco
proverࠬa qualitࠤell'opera di ciascuno. Se l'opera che uno costru젳ul
fondamento resisterଠcostui ne ricever࠵na ricompensa; ma se l'opera finir͊bruciata, sar࠰unito: tuttavia egli si salverଠper࣯me attraverso il fuoco ꨳ,12-15). In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento
degli uomini puࡶere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare
fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il 浯co
ॲ diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola
dell'eterno banchetto nuziale. |
46. Attamen prout experti sumus, neuter consuetus est casus humanae exsistentiae.
Plerisque in hominibus 㩣 opinari possumus 鮠ima eorum essentia ad
veritatem, ad amorem, ad Deum postremus et interior aditus manet. In iis tamen,
quae in vita cotidie eliguntur, novis usque cum malo implicationibus ipsa
operitur �tae sordes puritatem tegunt, cuius tamen sitis manet atque nihilo
secius semper denuo ex omni ignobilitate emergit et in anima inest. Quid talibus
hominibus, cum ante Iudicem sunt, accidit? Numne omnes sordes quae per vitae
cursum sunt coacervatae extemplo nullius momenti erunt? Aut quid aliud eveniet?
Sanctus Paulus in Epistula Prima ad Corinthios aliquid affert quod ad
dispar Dei iudicium de hominibus pro cuiusque condicionibus attinet. Per figuras
hoc efficit, quae illud invisibile quodammodo significare nituntur, quasque nos
in notiones convertere non possumus ᵯd orbem ultra mortem inspicere utique
nequimus, neque de eo ullam rem sumus experti. Illo in loco asseverat Paulus in
primis christianam exsistentiam in communi fundamento inniti: in Iesu Christo.
Fundamentum hoc perstat. Si hoc in fundamento firmiter constitimus atque in eo
vitam nostram aedificavimus, ne in morte quidem hoc fundamentum nobis tolli
posse scimus. Paulus exinde pergit: 㩠quis autem superaedificat supra
fundamentum aurum, argentum, lapides pretiosos, ligna, faenum, stipulam,
uniuscuiusque opus manifestum erit; dies enim declarabit: quia in igne revelatur,
et uniuscuiusque opus quale sit ignis probabit. Si cuius opus manserit, quod
superaedificavit, mercedem accipiet; si cuius opus arserit, detrimentum patietur,
ipse autem salvus erit, sic tamen quasi per ignem 賬12-15). Ceterum hoc in
scripto prorsus liquet hominum salutem dissimiles formas obtinere; quasdam
aedificatas res penitus ardere posse; ut quis salvetur, per 駮em 䲡nseat
ipse oportere, ut capax tandem fiat Dei et ad aeternum nuptiarum convivium
accedat. |
47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme
salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui 蠬'atto
decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsitȍ
l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci
diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora
rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo
incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi
evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana
mediante una trasformazione certamente dolorosa 㯭e attraverso il fuoco Ȭ
tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come
fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ci튴otalmente di Dio. Cos젳i rende evidente anche la compenetrazione di giustizia
e grazia: il nostro modo di vivere non 蠩rrilevante, ma la nostra sporcizia non
ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la
veritࠥ verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia 蠧i࠳tata bruciata
nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo
questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore
dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. Ƞchiaro che la ꤵrata 䩠questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le
misure cronometriche di questo mondo. Il �ento 䲡sformatore di
questo incontro sfugge al cronometraggio terreno 蠴empo del cuore, tempo del
ࡳsaggio ᬬa comunione con Dio nel Corpo di Cristo[39].
Il Giudizio di Dio 蠳peranza sia perch頨 giustizia, sia perch頨 grazia. Se
fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciࣨe 蠴erreno, Dio
resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia ꤯manda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura
giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura.
L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra ꧩudizio e grazia 㨥 la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi
attendiamo alla nostra salvezza 㯮 timore e tremore 輩>Fil 2,12).
Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di
fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro ᶶocato 쩾
parakletos (cfr 1 Gv 2,1). |
47. Nonnulli theologi recentiores urentem ignem eundemque salvantem ipsum esse
Christum, Iudicem et Salvatorem, putant. Occursus cum Eo actus est decretorius
Iudicii. Eius coram intuitu omnia mendacia dissipantur. Quem cum convenimus,
urens nos Is commutat atque liberat, ut nos ipsi revera fiamus. Res, per vitae
cursum fabricatae, aridae stipulae, vana gloriatio, evadere atque corruere
possunt. At in huius occursus maerore, in quo illud nostrae personae sordidum et
insanum nobis patet, est salus. Eius intuitus, Eius cordis tactus per
commutationem procul dubio dolentem 䡭quam per ignem sanat. Dolor tamen
est beatus, in quo sancta eius amoris vis ita nos pervadit veluti flamma, ut nos
ad nos prorsus tandem pertineamus ideoque ad Deum. Sic iustitiae pacisque
commixtio manifestatur: nostra vivendi ratio haud est nullius momenti, sed
nostrae sordes non in sempiternum nos maculant, si saltem ad Christum, ad
veritatem amoremque usque tendimus. Ceterum sordes hae in Christi passione sunt
iam perustae. Exstante Iudicio eius amoris magnum pondus pro omni malo, quod in
mundo est et in nobis, experimur accipimusque. Amoris dolor nostra salus
nostrumque gaudium fit. Perspicuum est comburendi 䥭pus od commutat, per
nostri temporis mundani mensuras metiri nos non posse.
Huius commutans �entum ursus terrestrem temporis mensuram
praetergreditur 㯲dis tempus est, 䲡nsitus 䥭pus ad Deum in Christi
Corpore communicandum.[39] Dei Iudicium, tum quia est iustitia tum quia gratia,
spes est. Si gratia dumtaxat esset, quae omnia terrena exigua redderet,
responsionis ad interrogationem de iustitia debitor esset Deus ᵡe
interrogatio coram historia Deoque ipso nobis est decretoria. Si mera esset
iustitia, nobis omnibus causa esset tandem timoris. Dei in Christo incarnatio
ita utrumque inter se 橤elicet iudicium et gratiam 鵮xit, ut iustitia
firmiter constitueretur: nos omnes nostram salutem 㵭 metu et tremore 萨ilp
2,12) exspectamus. Gratia nihilominus nobis cunctis dat copiam sperandi et
fidenter Iudicem conveniendi, quem nostrum ᤶocatum డrakleton, novimus
(cfr 1 Io 2,1).
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48. Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perch頨 importante per la
prassi della speranza cristiana. Nell'antico giudaismo esiste pure il pensiero
che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per
mezzo della preghiera (cfr per esempio 2 Mac 12,38-45: I secolo a.C.). La
prassi corrispondente 蠳tata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed 荊comune alla Chiesa orientale ed occidentale. L'Oriente non conosce una
sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell'ᬤil࠻, ma conosce,
s쬠diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione
intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, puॳsere dato ⩳toro e
refrigerio �iante l'Eucaristia, la preghiera e l'elemosina. Che l'amore
possa giungere fin nell'aldilଠche sia possibile un vicendevole dare e
ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto
oltre il confine della morte ᵥsta 蠳tata una convinzione fondamentale della
cristianitࠡttraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante
esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari gi͊partiti per l'aldil࠵n segno di bontଠdi gratitudine o anche di richiesta di
perdono? Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il ൲gatorio 荊semplicemente l'essere purificati mediante il fuoco nell'incontro con il
Signore, Giudice e Salvatore, come pulora intervenire una terza persona,
anche se particolarmente vicina all'altra? Quando poniamo una simile domanda,
dovremmo renderci conto che nessun uomo 蠵na monade chiusa in se stessa. Le
nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici
interazioni sono concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo. Nessuno
pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita
quella degli altri: in ciࣨe penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia
vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Cos젬a mia
intercessione per l'altro non 蠡ffatto una cosa a lui estranea, una cosa
esterna, neppure dopo la morte. Nell'intreccio dell'essere, il mio
ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui pu೩gnificare una piccola tappa
della sua purificazione. E con ciயn c'蠢isogno di convertire il tempo
terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice
tempo terreno. Non 蠭ai troppo tardi per toccare il cuore dell'altro n頨 mai
inutile. Cos젳i chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto
cristiano di speranza. La nostra speranza 蠳empre essenzialmente anche speranza
per gli altri; solo cos젥ssa 蠶eramente speranza anche per me[40].
Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me
stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perch頡ltri vengano
salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrডtto il
massimo anche per la mia salvezza personale. |
48. Ratio etiam quaedam est memoranda, quandoquidem ad christianam spem
exercendam magnum habet pondus. Apud veterem Iudaismum illa reperitur etiam
opinatio defunctos, in medio statu versantes, per precationem iuvari posse (cfr
ex. gr. 2 Mac 12,38-45: I saeculo a. Chr.). Hanc congruentem
consuetudinem in se receperunt christiani, quae tam ad orientalem quam ad
occidentalem Ecclesiam spectat. In Orientali parte purificatorius expiatoriusque
animarum dolor 鮠vita post hanc futura 衵d cognoscitur, sed diversi
beatitatis aut etiam perpessionum gradus medio in statu noscuntur. Attamen
defunctorum animabus ⥦ectio refrigeriumque ॲ Eucharistiam, orationes
atque eleemosynas ministrari possunt. Quod ultramundanam partem attingere potest
caritas, quodque mutuo accipiendi dandique praebetur facultas, qua re affectuum
vinculis inter nos ultra mortis fines coniungimur, haec summi ponderis fuit
christianitatis omnium saeculorum decursu persuasio, quae hodiernis quoque
temporibus solans manet experientia. Quis necesse esse non sentiat, ut suis
necessariis, qui ultramundanam vitam iam attigerunt, quoddam boni gratique animi
documentum aut veniae postulatio perveniant? Nunc quispiam interroget: si 갵rgatorium ଡne est per ignem in Domino, Iudice ac Salvatore, convento
purificatio, quomodo tertius quidam agere potest, licet alicui prorsus sit
proximus? Cum illud interrogamus, persuadere nobis debemus nullum hominem esse
clausam monadem. Nostrae quidem exsistentiae arte inter se communicantur, per
multiplices reciprocasque actiones inter se devinciuntur. Nemo solus vivit. Nemo
solus peccat. Nemo solus salvatur. In meam vitam continenter ingreditur aliorum
vita. Videlicet in iis quae ego cogito, dico, facio, ago. Atque mea vita
vicissim in aliorum vitam ingreditur: scilicet cum in malum tum in bonum. Sic
mea pro altero precatio quiddam minime est alienum, externum, ne post mortem
quidem. Quod exsistentiae inter se implicantur, mea gratiarum actio ad eum
conversa, mea pro eo precatio quandam eius purificationis portionem praebere
possunt. Atque in hoc non oportet terrestre tempus Dei tempore computetur: in
animarum communione terrestre tempus plane superatur. Numquam est nimis sero ad
alterius cor movendum neque umquam res est inutilis. Sic christianae spei
notionis elementum magni ponderis ultra explicatur. Nostra nempe spes
essentialiter ceteris quoque semper est spes; hoc modo tantum ipsa etiam mihi
revera est spes.[40] Sicut christiani numquam nos solummodo interrogare
debemus: quomodo me ipse salvare possum? Interrogare quoque nos debemus: quid
facere possum ut ceteri salventur atque ceteris spei sidus etiam oriatur? Tunc
quoque meae ipsi saluti summopere consuluero. |
Maria, stella della speranza |
Maria spei stella |
49. Con un inno dell'VIII/IX secolo, quindi da pi䩠mille anni, la Chiesa
saluta Maria, la Madre di Dio, come 㴥lla del mare ༩>Ave maris stella.
La vita umana 蠵n cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La
vita 蠣ome un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un
viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle
della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono
luci di speranza. Certo, Ges㲩sto 蠬a luce per antonomasia, il sole sorto
sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno
anche di luci vicine 䩠persone che donano luce traendola dalla sua luce ed
offrono cos젯rientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe piꤩ Maria essere per noi stella di speranza 쥩 che con il suo 㬠ᰲ젡
Dio stesso la porta del nostro mondo; lei che diventଡ vivente Arca
dell'Alleanza, in cui Dio si fece carne, divenne uno di noi, piantଡ sua tenda
in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)? |
49. Quodam saeculi VIII/IX hymno, scilicet mille annorum plus emenso spatio,
Mariam, Domini Matrem, veluti �is stellam 㡬utat Ecclesia: Ave maris
stella. Hominum vita iter est. Ad quam metam? Quomodo vitae semitam invenire
possumus? Vita veluti in historiae pelago apparet iter, quod saepenumero
obscuratur procellaque agitatur, in quo cursum demonstrantia sidera suspicimus.
Germanae quidem nostrae vitae sidera homines sunt qui rectam vitam exigere
noverunt. Spei lumina sunt ipsi. Certe Iesus Christus ipse est lux, sol qui
supra omnes historiae tenebras ascendit. Sed Eum ut attingamus proximis
luminibus nobis opus est, personis videlicet quae ex eiusdem luce lucem
ministrant quaeque sic nostri itineris cursum dirigunt. Atque quis hominum magis
quam Maria spei stella esse nobis potest ᵡe per suum illud 橡t 鰳i Deo
nostri orbis reclusit ianuam; quae vivens Foederis Arca facta est, in qua Deus
caro factus est, unus ex nobis est factus, tabernaculum inter nos tetendit (cfr
Io 1,14)? |
50. A lei perciࣩ rivolgiamo: Santa Maria, tu appartenevi a quelle anime umili
e grandi in Israele che, come Simeone, aspettavano 鬠conforto d'Israele 輩>Lc
2,25) e attendevano, come Anna, 졠redenzione di Gerusalemme 輩>Lc
2,38). Tu vivevi in intimo contatto con le Sacre Scritture di Israele, che
parlavano della speranza 䥬la promessa fatta ad Abramo ed alla sua
discendenza (cfr Lc 1,55). Cos젣omprendiamo il santo timore che ti
assal쬠quando l'angelo del Signore entrlla tua camera e ti disse che tu
avresti dato alla luce Colui che era la speranza di Israele e l'attesa del
mondo. Per mezzo tuo, attraverso il tuo 㬠ଡ speranza dei millenni doveva
diventare realtଠentrare in questo mondo e nella sua storia. Tu ti sei
inchinata davanti alla grandezza di questo compito e hai detto 㬠ૠEccomi,
sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto 輩>Lc
1,38). Quando piena di santa gioia attraversasti in fretta i monti della Giudea
per raggiungere la tua parente Elisabetta, diventasti l'immagine della futura
Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della
storia. Ma accanto alla gioia che, nel tuo Magnificat, con le parole e
col canto hai diffuso nei secoli, conoscevi pure le affermazioni oscure dei
profeti sulla sofferenza del servo di Dio in questo mondo. Sulla nascita nella
stalla di Betlemme brillଯ splendore degli angeli che portavano la buona
novella ai pastori, ma al tempo stesso la povertࠤi Dio in questo mondo fu fin
troppo sperimentabile. Il vecchio Simeone ti parlथlla spada che avrebbe
trafitto il tuo cuore (cfr Lc 2,35), del segno di contraddizione che il
tuo Figlio sarebbe stato in questo mondo. Quando poi cominciଧattivit͊pubblica di Gesयvesti farti da parte, affinch頰otesse crescere la nuova
famiglia, per la cui costituzione Egli era venuto e che avrebbe dovuto
svilupparsi con l'apporto di coloro che avrebbero ascoltato e osservato la sua
parola (cfr Lc 11,27s). Nonostante tutta la grandezza e la gioia del
primo avvio dell'attivitࠤi Ges䵬 giella sinagoga di Nazaret, dovesti
sperimentare la veritࠤella parola sul 㥧no di contraddizione 裦r Lc
4,28ss). Cos젨ai visto il crescente potere dell'ostilitࠥ del rifiuto che
progressivamente andava affermandosi intorno a Ges橮o all'ora della croce, in
cui dovesti vedere il Salvatore del mondo, l'erede di Davide, il Figlio di Dio
morire come un fallito, esposto allo scherno, tra i delinquenti. Accogliesti
allora la parola: 䯮na, ecco il tuo figlio! 輩>Gv 19,26). Dalla croce
ricevesti una nuova missione. A partire dalla croce diventasti madre in una
maniera nuova: madre di tutti coloro che vogliono credere nel tuo Figlio Ges半seguirlo. La spada del dolore trafisse il tuo cuore. Era morta la speranza? Il
mondo era rimasto definitivamente senza luce, la vita senza meta? In quell'ora,
probabilmente, nel tuo intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell'angelo,
con cui aveva risposto al tuo timore nel momento dell'annunciazione:
temere, Maria! 輩>Lc 1,30). Quante volte il Signore, il tuo Figlio, aveva
detto la stessa cosa ai suoi discepoli: Non temete! Nella notte del Golgota, tu
sentisti nuovamente questa parola. Ai suoi discepoli, prima dell'ora del
tradimento, Egli aveva detto: ᢢiate coraggio! Io ho vinto il mondo 輩>Gv
16,33). sia turbato il vostro cuore e non abbia timore 輩>Gv
14,27). temere, Maria! l'ora di Nazaret l'angelo ti aveva detto
anche: 鬠suo regno non avrࠦine 輩>Lc 1,33). Era forse finito prima
di cominciare? No, presso la croce, in base alla parola stessa di Gesവ eri
diventata madre dei credenti. In questa fede, che anche nel buio del Sabato
Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua. La
gioia della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo nuovo ai
discepoli, destinati a diventare famiglia di Ges�iante la fede. Cos젴u
fosti in mezzo alla comunitࠤei credenti, che nei giorni dopo l'Ascensione
pregavano unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cfr At 1,14) e lo
ricevettero nel giorno di Pentecoste. Il ⥧no 䩠Ges岡 diverso da come
gli uomini avevano potuto immaginarlo. Questo ⥧no 鮩ziava in quell'ora e
non avrebbe avuto mai fine. Cos젴u rimani in mezzo ai discepoli come la loro
Madre, come Madre della speranza. Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra,
insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo
regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino! |
50. Sic ad eam convertimur: Sancta Maria, ad illas tu humiles magnasque Israel
animas pertinebas, quae veluti Simeon 㯮solationem Israel 輩>Lc 2,25)
exspectabant atque sicut Anna ⥤emptionem Ierusalem 輩>Lc 2,38)
opperiebantur. Vitam in Israel Sacris Litteris agere solebas, quae de spe
loquebantur 䥠promissione Abraham et semini eius facta (cfr Lc 1,55).
Intellegimus sic sacrum timorem, qui te invasit, cum Dei angelus tuum cubiculum
ingrederetur tibique nuntiaretur te Eum esse genituram quem Israel speraret
mundusque exspectaret. Per te tuumque illud 㩣 �lenniorum spes effecta
est, in mundum eiusque historiam intravit. Tu nempe huius muneris magnitudini te
subiecisti et es assensa: 壣e ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum
輩>Lc 1,38). Cum sancto gaudio repleta, tuam necessariam Elisabeth
conventura, Iudaeae montes festinanter transires, futurae Ecclesiae imago facta
es, quae suo in gremio per historiae montes mundi spem fert. Sed praeter gaudium
quod per tuum �nificat 楲bis et cantico in saecula effudisti, arcana
quoque oracula prophetarum de servi Dei in hoc mundo doloribus noveras. Intra
Bethlemiticum stabulum in nativitate splendor angelorum fulsit, bonum nuntium
pastoribus deferentium, at simul Dei paupertas hoc in mundo plane percipiebatur.
Simeon Senex de gladio tibi est locutus animam tuam pertransituro (Lc
2,35), de contradictionis signo in mundo quod signum erit Filius tuus. Cum
publicis muneribus operam dare coepit Iesus, recedere tu debuisti, ut nova
familia adolescere posset, ad quam constituendam ipse venerat, quaeque
increscere debebat iis operantibus, qui audituri erant tuaque verba observaturi
(Lc 11,27). Licet magnitudo gaudiumque inceptae Iesu operae exstarent, in
Nazarethana iam synagoga illorum verborum 㩧num cui contradicetur 輩>Lc
4,28s) veritatem experiri debuisti. Animadvertisti sic inimicitiae
repudiationisque augeri vim, quae circa Iesum gradatim adolescebat usque ad
crucis horam, in qua mundi Salvatorem, Davidis heredem, Dei Filium, veluti omni
re destitutum, ludibrio habitum inter latrones morientem videre debuisti. Verbum
suscepisti: �ier, ecce filius tuus 輩>Io 19,26). Ex cruce novam
missionem excepisti. Ex cruce nova quidem ratione mater es facta: mater scilicet
illorum qui in tuum Filium credere Eumque sequi volunt. Doloris gladius cor tuum
pertransivit. Eratne spes mortua? Eratne orbis tandem sine luce, vita sine meta?
Hora illa tuo in animo iterum angeli verbum procul dubio auscultasti, quo ipse
annuntiationis momento metuenti tibi responderat: timeas, Maria! 輩>Lc
1,30). Quam saepe Dominus, tuus Filius idem suis discipulis dixerat: Nolite
timere! In Golgothae nocte hoc verbum rursus audivisti. Suis discipulis antequam
traditus est Ipse dixerat: 㯮fidite, ego vici mundum 輩>Io 16,33). ꎯn turbetur cor vestrum neque formidet 輩>Io 14,27). timeas, Maria!
ɮ Nazarethana illa hora tibi dixit quoque angelus: ⥧ni eius non erit
finis 輩>Lc 1,33). Num finem habuit antequam inciperet? Nullo pacto,
iuxta crucem, per ipsum Iesu verbum, tu credentium facta es mater. Hac in fide,
quae Sabbati sancti etiam in tenebris spei erat certitudo, ad matutinum Paschae
tempus occurristi. Resurrectionis gaudium tuum cor tetigit teque novum in modum
cum discipulis coniunxit, ad Iesu familiam efficiendam per fidem destinatis. Sic
intra credentium communitatem fuisti, qui diebus post Ascensionem Domini
unanimiter pro Spiritus Sancti dono orabant (cfr Act 1,14), quod
Pentecostes die receperunt. Iesu ⥧num ᬩud erat atque homines finxerant.
⥧num 诣 illa hora initium cepit, numquam finem habiturum. Ita inter
discipulos eorum veluti Mater manes, sicut spei Mater. Sancta Maria, Mater Dei,
Mater nostra, credere, sperare diligereque nos tecum doce. Eius ad regnum nobis
demonstra viam! Maris stella, illumina nos nosque itinerantes dirige. |
Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 novembre, festa di Sant'Andrea
Apostolo, dell'anno 2007, terzo di Pontificato. |
Datum Romae, apud S. Petrum, die XXX mensis Novembris, festo die S. Andreae
Apostoli, anno MMVII, Pontificatus Nostri tertio. |
BENEDICTUS PP. XVI
|
[1] Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, n. 26003.
[2] Cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429.
[3] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1817-1821.
[4] Summa Theologiae, II-IIae, q. 4, a. 1.
[5] H. K㴥r: ThWNT, VIII (1969) 585.
[6] De excessu fratris sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274.
[7] Ibid, II, 46: CSEL 73, 273.
[8] Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL 44, 68-73.
[9] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1025.
[10] Jean Giono, Les vraies richesses, Paris 1936, Pr馡ce in: Henri de Lubac, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, VII.
[11] Ep. 130 Ad Probam 13, 24: CSEL 44, 67.
[12] Sententiae III, 118: CCL 6/2, 215.
[13] Cfr ibid. III, 71: CCL 6/2, 107-108.
[14] Novum Organum I, 117.
[15] Cfr. ibid. I, 129.
[16] Cfr New Atlantis.
[17] In: Werke IV, a cura di W. Weischedel (1956), 777. Le pagine sulla Vittoria del principio buono costituiscono, come 蠮oto, il terzo capitolo dello scritto Die Religion innerhalb der Grenzen der bloߥn Vernunft (La religione entro i limiti della sola ragione), pubblicato da Kant nel 1793.
[18] I. Kant, Das Ende aller Dinge, in: Werke VI, a cura di W. Weischedel (1964), 190.
[19] Capitoli sulla caritଠCenturia 1, cap. 1: PG 90, 965.
[20] Cfr ibid.: PG 90, 962-966.
[21] Conf. X 43, 70: CSEL 33, 279.
[22] Sermo 340, 3: PL 38, 1484; cfr F. Van der Meer, Augustinus der Seelsorger, (1951), 318.
[23] Sermo 339, 4: PL 38, 1481.
[24] Conf. X, 43, 69: CSEL 33, 279.
[25] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2657.
[26] Cfr In 1 Joannis 4, 6: PL 35, 2008s.
[27] Testimoni della speranza, Cittࠎuova 2000, 156s.
[28] Breviario Romano, Ufficio delle Letture, 24 novembre.
[29] Sermones in Cant., Serm. 26,5: PL 183, 906.
[30] Negative Dialektik (1966) Terza parte, III, 11, in: Gesammelte Schriften Bd. VI, Frankfurt/Main 1973, 395.
[31] Ibid., Seconda parte, 207.
[32] DS 806.
[33] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.
988-1004.
[34] Cfr ibid., n. 1040.
[35] Cfr Tractatus super Psalmos, Ps. 127, 1-3: CSEL 22, 628- 630.
[36] Gorgia 525a-526c.
[37] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1033-1037.
[38] Cfr ibid., nn. 1023-1029.
[39] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1030-1032.
[40] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1032.
|
[1] Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, n. 26003.
[2] Cfr Poemata dogmatica, V, 53-64: PG 37, 428-429.
[3] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, nn. 1817-1821.
[4] Summa Theologiae II-IIae, q. 4, a. 1.
[5] H. K㴥r: ThWNT, VIII (1969) 585.
[6] De excessu fratris sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274.
[7] Ibid, II, 46: CSEL 73, 273.
[8] Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL 44, 68-73.
[9] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesie, n. 1025.
[10] Jean Giono, Les vraies richesses, Paris 1936, Pr馡ce in: Henri de Lubac, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, VII.
[11] Ep. 130 Ad Probam 13, 24: CSEL 44, 67.
[12] Sententiae III, 118: CCL 6/2, 215.
[13] Cfr ibid. III, 71: CCL 6/2, 107-108.
[14] Novum Organum I, 117.
[15] Cfr. ibid. I, 129.
[16] Cfr New Atlantis.
[17] In: Werke, IV, curante W. Weischedel (1956), 777.
[18] I. Kant, Das Ende aller Dinge, in: Werke VI, curante W. Weischedel (1964), 190.
[19] Capita de charitate, Centuria 1, cap. 1: PG 90, 965.
[20] Cfr ibid.: PG 90, 962-966.
[21] Conf. X, 43, 70: CSEL 33, 279.
[22] Sermo 340, 3: PL 38, 1484; cfr F. Van der Meer, Augustinus der Seelsorger, (1951), 318.
[23] Sermo 339, 4: PL 38, 1481.
[24] Conf. X, 43, 69: CSEL 33, 279.
[25] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 2657.
[26] Cfr In 1 Ioannis 4,6: PL 35, 2008s.
[27] Cfr Testimoni della speranza, Cittࠎuova 2000, 156s.
[28] Breviarium Romanum, Ad Officium lectionis, 24 Novembris.
[29] Sermones in Cant., Serm. 26,5: PL 183,906.
[30] Negative
Dialektik (1966), pars tertia, III, 11, in: Gesammelte Schriften, Bd. VI, Frankfurt/Main 1973, 395.
[31] Ibid., pars altera, 207.
[32] DS 806.
[33] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, nn. 988-1004.
[34] Cfr ibid., n. 1040.
[35] Cfr Tractatus
super Psalmos, Ps. 127, 1-3: CSEL 22, 628-630.
[36] Gorgias
525a-526c.
[37] Cfr Catechismus
Catholicae Ecclesiae, nn. 1033-1037.
[38]
Cfr ibid., nn. 1023-1029.
[39] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, nn. 1030-1032.
[40] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 1032.
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(*) Testi prelevati dal sito www.vatican.va
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