SPE SALVI


LETTERA ENCICLICA
SPE SALVI
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULLA SPERANZA CRISTIANA

LITTERAE ENCYCLICAE
SPE SALVI
SUMMI PONTIFICIS
BENEDICTI PP. XVI
EPISCOPIS
PRESBYTERIS AC DIACONIS
VIRIS ET MULIERIBUS CONSECRATIS
OMNIBUSQUE CHRISTIFIDELIBUS LAICIS
DE SPE CHRISTIANA


Introduzione Prooemium
1. 㐅 SALVI facti sumus 栮ella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La ⥤enzione ଡ salvezza, secondo la fede cristiana, non 蠵n semplice dato di fatto. La redenzione ci 蠯fferta nel senso che ci 蠳tata donata la speranza, una speranza affidabile, in virt䥬la quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, puॳsere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta 蠣os젧rande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere 蠭ai questa speranza per poter giustificare l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perch頥ssa c'謠noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta? 1. 㐅 SALVI facti sumus 校it sanctus Paulus Romanis et nobis quoque (Rom 8,24). ⥤emptio ೡlus in christiana fide non est tantum simplex notitia. Redemptio nobis offertur eo sensu quod spes data est nobis, spes vero credenda, vi cuius nos praesentem possumus oppetere vitam: operosam quoque praesentem vitam quae geri et accipi potest, dummodo perducat in metam atque si de hac meta certi esse possumus, si haec meta ita sublimis est ut pondus itineris pretium sit operae. Nunc statim menti quaestio obversatur: talis spes cuiusnam est generis, ut comprobari possit assertio secundum quam, initio ab illa sumpto, et simpliciter quoniam illa exsistit, nos redempti sumus? Ac de quanam agitur certitudine?
La fede 蠳peranza Fides spes est
2. Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo ascoltare ancora un po' piᴴentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza. 㰥ranza ऩ fatto, 蠵na parola centrale della fede biblica ᬠpunto che in diversi passi le parole 楤e 堫 speranza 㥭brano interscambiabili. Cos젬a Lettera agli Ebrei lega strettamente alla ੥nezza della fede 豰,22) la 魭utabile professione della speranza 豰,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos 鬠senso e la ragione 䥬la loro speranza (cfr 3,15), 㰥ranza 蠬'equivalente di 楤e ѵanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche lࠤove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero 㥮za speranza e senza Dio nel mondo 腦 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli d詬 che avevano avuto una religione, ma i loro d詠si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli d詬 essi erano 㥮za Dio 堣onseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. 鮠nihil ab nihilo quam cito recidimus 莥l nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) [1] dice un epitaffio di quell'epoca ࡲole nelle quali appare senza mezzi termini ciࡠcui Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete ᦦliggervi come gli altri che non hanno speranza 豠Ts 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non 蠣he sappiano nei particolari ciࣨe li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro 蠣erto come realt࠰ositiva, diventa vivibile anche il presente. Cos젰ossiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una ⵯna notizia 栵na comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo 鮦ormativo ୡ ॲformativo é೩gnifica: il Vangelo non 蠳oltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma 蠵na comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, 蠳tata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli 蠳tata donata una vita nuova. 2. Priusquam his nostris quaestionibus, hodie in animo peculiariter insculptis, mentem intendamus, audiamus oportet accuratius quid Sacra Scriptura de spe testetur. 㰥s ⥶era vox principalis est biblicae fidei 寠ut in diversis locis voces 橤es 崠㰥s 䲡nsmutabiles videantur. Ita Epistula ad Hebraeos cum ଥnitudine fidei 豰,22) arte coniungit 㰥i confessionem indeclinabilem 豰,23). Etiam in Epistula Prima Petri, cum christianos hortatur ut promptos sese praebeant ad responsum reddendum de voce logos 䥠sensu scilicet et ratione 㵡e spei (cfr 3,15), 㰥s 餥m est ac 橤es ѵam decretorium fuerit ad conscientiam primorum christianorum spem credibilem veluti donum recepisse, elucet quoque cum exsistentia christiana comparatur cum vita ante fidem vel cum statu aliarum religionum asseclarum. Paulus Ephesiis memorat quomodo illi, priusquam Christum convenirent, fuerint ಯmissionis spem non habentes, et sine Deo in hoc mundo 腰h 2,12). Ille profecto bene novit eos proprios habuisse deos, propriam professos esse religionem; de eorum tamen diis controversias ortas esse et ex eorum contradictoriis fabulis ne ullam quidem spem profluere. Quamvis deos haberent, vitam degebant 㩮e Deo ౵apropter in mundo obscuro morabantur, tenebroso futuro obversabantur. 鮠nihil ab nihilo quam cito recidimus 졠href="#nota01lt" name="nota01l">[1] scriptum legitur quodam in epitaphio illius aetatis 楲ba quibus aperte palamque declaratur id quod Paulus innuit. Qui eodem sensu Thessalonicenses alloquitur: vos ita agite 崠non contristemini sicut et ceteri, qui spem non habent 豠Thess 4,13). In his quoque verbis propria christianorum nota apparet, nempe quod illi habent futurum: quamvis venturi temporis singula ignorent, summatim tamen norunt vitam in vacuum non reduci. Tantummodo cum futurum certum est uti realitas positiva, tunc praesens dignum est ut vivatur. Itaque dicere possumus: christianismum non solum esse ⯮um nuntium 栩d est communicationem rerum quae ad illud usque tempus ignorabantur. Hodierno sermone dicere possumus christianum nuntium non tantum 鮦ormativum 峳e, verum etiam ॲformativum ѵod sibi vult: Evangelium non est tantum communicatio rerum quae sciri valent, sed communicatio quae actus edit vitamque transformat. Obscura porta temporis, venturi temporis, aperta est. Qui spem habet, aliter vivit; quoniam nova vita data est illi.
3. Ora, per젳i impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, 蠫 redenzione ¥ne: il nucleo della risposta 蠤ato nel brano della Lettera agli Efesini citato poc'anzi: gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perch頥rano 㥮za Dio nel mondo ǩungere a conoscere Dio 鬠vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non 蠰iॲcepibile. L'esempio di una santa del nostro tempo pu੮ qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all'africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa 쥩 stessa non sapeva la data precisa  Darfur, in Sudan. All'etࠤi nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrov࡬ servizio della madre e della moglie di un generale e l젯gni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciଥ rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, torn੮ Italia. Qui, dopo ࡤroni 㯳젴erribili di cui fino a quel momento era stata proprietଠBakhita venne a conoscere un ࡤrone 䯴almente diverso  dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava ࡲon 鬠Dio vivente, il Dio di Ges㲩sto. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, per젳entiva dire che esiste un ࡲon ᬠdi sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore 蠢uono, la bontࠩn persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei ᮺi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal ࡲon 㵰remo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava ᬬa destra di Dio Padre ϲa lei aveva 㰥ranza 栮on pi㯬o la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada 鯠sono attesa da questo Amore. E cos젬a mia vita 蠢uona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era ⥤enta யn si sentiva pi㣨iava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciࣨe Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo 㥮za speranza perch頳enza Dio. Cos쬠quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiut렮on era disposta a farsi di nuovo separare dal suo ࡲon ɬ 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunci੠voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora ᣣanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro 㥲c੮ vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Ges㲩sto, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva ⥤enta யn poteva tenerla per s黠questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti. 3. Nunc tamen quaestio proponitur: quanam in re consistit haec spes quae, uti spes, est ⥤emptio ҥapse, medulla responsionis continetur verbis Epistulae ad Ephesios quae nuper memoravimus: Ephesii, priusquam Christum convenirent, spe carebant, quoniam 鮠hoc mundo sine Deo �abantur. Deum 楲um Deum 㯧noscere posse idem est ac spem recipere. Nos, viventes semper sub christiano Dei conceptu et ad eundem consueti, possessionem spei, quae provenit ex vero occursu cum hoc Deo, percipere quasi non possumus. Exemplum, sumptum ex quadam sancta muliere nostrae aetatis, quodammodo conferre potest ad intellegendum quid significet prima vice ac reapse hunc Deum convenire. Etenim mens Nostra vertitur ad Iosephinam Bakhita, cui sanctorum honores decrevit Summus Pontifex Ioannes Paulus II. Nata est circa annum MDCCCLXIX ipsa quidem exactum natalem diem suum noverat 鮠loco dicto Darfur, in Sudania. Novem annos nata a servorum negotiatoribus rapta est, cruenter percussa et quinquies apud mercatus Sudanienses venundata. Deinde, veluti serva opus praestare debuit matri et uxori cuiusdam ducis, et illic cotidie ad sanguinem vapulabat; quamobrem totam per vitam portavit centum quadraginta et quattuor cicatrices. Tandem anno MDCCCLXXXII a quodam mercatore Italo empta est pro Italiae consule Callisto Legnami, qui ob incursum Madhistarum in Italiam rediit. Hic autem, post terrificos illos 䯭inos ࡤ quos in proprietate pertinuerat, Bakhita novisse potuit 䯭inum ಯrsus diversum, quem 帠loquela Venetiarum quam tunc didicerat 렰aron ᰰellabat, Deum scilicet viventem, Deum Iesu Christi. Hactenus tantummodo dominos noverat qui spernebant et vexabant eam, aut, in adiunctis minus asperis, tamquam utilem servam aestimabant. Nunc vero audiebat unum esse ࡲon ᵩ omnes dominos excellit, Dominum omnium dominorum; et hunc Dominum bonum esse, ipsam nempe Bonitatem. Paulatim percipiebat se ab hoc Domino cognosci, creatam esse 魭o diligi. Ipsa quoque amabatur ab hoc supremo ࡲon ੮ cuius conspectu omnes ceteri domini nonnisi miseri servi sunt. Ipsa cognoscebatur et amabatur et exspectabatur. Quinimmo, hic Dominus ipse condicionem verberationum passus erat, et nunc eam praestolabatur ᤠdexteram Dei Patris εnc ea 㰥m 衢ebat  amplius tantum parvam spem dominos minus crudeles inveniendi, sed summam spem: ego tandem amatam me sentio et, quodcumque eveniat, ab hoc Amore exspector. Et ita vita mea bona est. Huius spei cognitione nutrita, ipsa ⥤emptam 㥠sentiebat, percipiebat se non amplius servam, sed liberam Dei filiam esse. Intellegebat quae Paulus dicere voluit, Ephesios alloquens ipsos primum sine spe et sine Deo in mundo fuisse 㩮e spe quoniam sine Deo. Ita, cum quidam eam transferre vellent in Sudaniam, Bakhita recusavit; nolebat a suo ࡲon 鴥rum separari. Die IX mensis Ianuarii anno MDCCCXC baptismo ac confirmatione est insignita, et insuper recepit primam sanctam Communionem e manibus Patriarchae Venetiarum. Die VIII mensis Decembris anno MDCCCXCVI Veronae vota nuncupavit apud Congregationem Sororum Canossianarum, ex quo tempore ಡeter munera aedituae et ostiariae coenobii 桲iis in suis itineribus intra Italiae fines, contendit praesertim stimulos ad missionem suscitare: liberationem enim illam, quam conveniens Deum Christi Iesu obtinuerat, etiam ad alios, ad quam maximum hominum numerum, extendere cupiebat. Spem, quae pro ea nascebatur eamque redemerat, sibi reservare non poterat; haec enim spes plurimos contingere, omnes contingere debebat.
Il concetto di speranza basata sulla fede nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva Notio spei quae fide nititur apud Novum Testamentum primaevamque Ecclesiam
4. Prima di affrontare la domanda se l'incontro con quel Dio che in Cristo ci ha mostrato il suo Volto e aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non solo 鮦ormativo ୡ anche ॲformativo ඡle a dire se possa trasformare la nostra vita cos젤a farci sentire redenti mediante la speranza che esso esprime, torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non 蠤ifficile rendersi conto che l'esperienza della piccola schiava africana Bakhita 蠳tata anche l'esperienza di molte persone picchiate e condannate alla schiavitl'epoca del cristianesimo nascente. Il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito. Ges era Spartaco, non era un combattente per una liberazione politica, come Barabba o Bar-Kochba. Ciࣨe Gesŧli stesso morto in croce, aveva portato era qualcosa di totalmente diverso: l'incontro col Signore di tutti i signori, l'incontro con il Dio vivente e cos젬'incontro con una speranza che era pi毲te delle sofferenze della schiavit堣he per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo. Ciࣨe di nuovo era avvenuto appare con massima evidenza nella Lettera di san Paolo a Filemone. Si tratta di una lettera molto personale, che Paolo scrive nel carcere e affida allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo padrone ᰰunto Filemone. S쬠Paolo rimanda lo schiavo al suo padrone da cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma pregando: 䩠supplico per il mio figlio che ho generato in catene [...] Te l'ho rimandato, lui, il mio cuore [...] Forse per questo 蠳tato separato da te per un momento, perch頴u lo riavessi per sempre; non piॲ࣯me schiavo, ma molto pi㨥 schiavo, come un fratello carissimo 輩>Fm 10-16). Gli uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri dell'unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e sorelle 㯳젩 cristiani si chiamavano a vicenda. In virt䥬 Battesimo erano stati rigenerati, si erano abbeverati dello stesso Spirito e ricevevano insieme, uno accanto all'altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la societࠤal di dentro. Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggi hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciਠtutt'altro che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la societ࠰resente viene riconosciuta dai cristiani come una societࠩmpropria; essi appartengono a una societ࠮uova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata. 4. Antequam rem aggrediamur utrum occursus cum illo Deo, qui in Christo nobis ostendit Vultum suum et aperuit Cor suum, possit quoque nobis esse non solum 鮦ormativus ඥrum etiam ॲformativus ੤ est utrum vitam nostram ita transformare valeat ut nos redemptos sentiamus per spem quae illud secum fert, ad primaevam Ecclesiam iterum redeamus. Haud difficile est percipere parvae servae Africae Bakhitae experientiam eandem fuisse ac tot hominum qui tempore nascentis christianismi vexati sunt et servitute damnati. Christianismus non proclamaverat socialem et turbulentum nuntium, sicut fuerat nuntius quo Spartacus, cruentis certationibus, fefellerat. Iesus non erat Spartacus, nec proeliabatur pro politica liberatione, uti Barabbas vel Bar-Kochba. Quod Iesus, Ipse in cruce mortuus, pertulerat, aliquid erat omnino diversum: occursus nempe cum Domino omnium dominorum, occursus cum Deo viventi, itaque occursus cum spe quae tribulationibus servitutis fortior erat, quapropter vitam et mundum ab intra transformabat. Quod iterum evenerat, in sancti Pauli Epistula ad Philemonem evidentissime patet. Agitur quidem de epistula admodum personali, quam Paulus in carcere scribit et fugitivo servo Onesimo committit ut eam tradat domino suo pe Philemoni. Paulus enim rursus mittit servum ad eius dominum a quo fugerat; et hoc facit non imperans, sed adprecans: ecro te de meo filio, quem genui in vinculis [...] quem remisi tibi: eum, hoc est viscera mea [...] Forsitan enim ideo discessit ad horam, ut aeternum illum reciperes, iam non ut servum sed plus servo, carissimum fratrem 萨ilm 10-16). Homines qui, secundum civilem condicionem, inter se conveniunt veluti domini et servi, quatenus membra unius Ecclesiae facti sunt invicem fratres ac sorores 崠sic mutuo christiani sese appellabant. Per Baptismum regenerati erant et ducti ad bibendum eundem Spiritum, et simul iuncti, alius prope alium, Domini Corpore reficiebantur. Quamvis externae structurae eaedem manerent, hoc ab intra mutabat societatem. Cum vero Epistula ad Hebraeos asserit christianos his in terris mansionem stabilem non habere, sed potius venturam quaerere conversationem (cfr Heb 11,13-16; Philp 3,20), quae res prorsus est alia res quam mera in futuram exspectationem remissio: hodierna societas agnoscitur a christianis uti societas impropria; ipsi enim ad novam pertinent societatem, ad quam iter suscipiunt, quaeque ab ipsis peregrinantibus in antecessum accipitur.
 5. Dobbiamo aggiungere ancora un altro punto di vista. La Prima Lettera ai Corinzi (1,18-31) ci mostra che una grande parte dei primi cristiani apparteneva ai ceti sociali bassi e, proprio per questo, era disponibile all'esperienza della nuova speranza, come l'abbiamo incontrata nell'esempio di Bakhita. Tuttavia fin dall'inizio c'erano anche conversioni nei ceti aristocratici e colti. Poich頰roprio anche loro vivevano 㥮za speranza e senza Dio nel mondo ɬ mito aveva perso la sua credibilit໠la religione di Stato romana si era sclerotizzata in semplice cerimoniale, che veniva eseguito scrupolosamente, ma ridotto ormai appunto solo ad una ⥬igione politica ɬ razionalismo filosofico aveva confinato gli d詠nel campo dell'irreale. Il Divino veniva visto in vari modi nelle forze cosmiche, ma un Dio che si potesse pregare non esisteva. Paolo illustra la problematica essenziale della religione di allora in modo assolutamente appropriato, quando contrappone alla vita 㥣ondo Cristo 审 vita sotto la signoria degli 嬥menti del cosmo 胯l 2,8). In questa prospettiva un testo di san Gregorio Nazianzeno puॳsere illuminante. Egli dice che nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perch頯rmai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo [2]. Di fatto, in questa scena 蠣apovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, 蠮uovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cio蠬'universo; non le leggi della materia e dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione, volontଠamore 审 Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l'inesorabile potere degli elementi materiali non 蠰i짵ltima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi. Una tale consapevolezza ha determinato nell'antichitࠧli spiriti schietti in ricerca. Il cielo non 蠶uoto. La vita non 蠵n semplice prodotto delle leggi e della casualitࠤella materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'蠵na volont࠰ersonale, c'蠵no Spirito che in Ges㩠蠲ivelato come Amore [3]. 5. Addendus est alius aspectus. Epistula Prima ad Corinthios (1,18-31) docet nos plerosque ex primis christianis ad humilem condicionem socialem pertinere, quam ob causam promptos se praebere ad novam spem experiendam, prout ex exemplo sanctae Bakhita deteximus. Nihilominus, inde ab exordiis datae sunt quoque conversiones inter homines nobiles et doctos, eo quod hi ipsi 㩮e spe et sine Deo in mundo 橴am gerebant. Mythus non erat iam credendus; religio Romanae civitatis redacta erat ad simplices caerimonias, quae accurate peragebantur, nunc tamen ad ௬iticam religionem 䵣ebantur. Rationalismus philosophicus deos in ambitum non-exsistentiae relegaverat. Divinitas diversimode in cosmicis esse viribus cogitabatur, aberat tamen Deus, ad quem preces effundi possent. Paulus essentialem religionis illius aetatis materiam plena sermonis proprietate explanat, vitam 㥣undum Christum 㯭parans cum vita sub dominio 嬥mentorum mundi 裦r Col 2,8). Hoc sub prospectu textus quidam sancti Gregorii Nazianzeni quoddam lumen afferre potest. Etenim asserit ille astrologiam finem attigisse illo tempore quo magi stella ducti Christum novum regem adoraverunt, quoniam stellae nunc volvuntur iuxta circulum a Christo descriptum.[2] Etenim hac in scaena invertitur de mundo illius aetatis conceptus, qui, diverso tamen modo, aetate quoque nostra iterum floret. Non sunt elementa mundi, leges materiae quae tandem terrarum orbem et hominem regunt, sed personalis Deus qui stellas, universum scilicet, moderatur; nec leges materiae vel evolutionis constituunt extremum impulsum, sed ratio, voluntas, amor ॲsona. Si vero hanc Personam novimus et Ipsa nos novit, tunc reapse inexorabile elementorum materialium dominium esse desinit extremus impulsus; tunc obnoxii non sumus terrarum orbi nec eius legibus; tunc liberi sumus. Haec vero conscientia antiquitus spiritus apertos ad pervestigationem compulit. Caelum vacuum non est. Vita non est simplex effectus legum et fortuiti casus materiae, sed in omnibus simulque super omnia adest voluntas personalis, Spiritus adest qui in Iesu Amor revelatur.[3]
6. I sarcofaghi degli inizi del cristianesimo illustrano visivamente questa concezione ᬠcospetto della morte, di fronte alla quale la questione circa il significato della vita si rende inevitabile. La figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si intendeva una difficile disciplina accademica, come essa si presenta oggi. Il filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l'arte essenziale: l'arte di essere uomo in modo retto 짡rte di vivere e di morire. Certamente gli uomini giࠤa tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che andavano in giro come filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le loro parole si procuravano denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da dire. Tanto pi㩠cercava il vero filosofo che sapesse veramente indicare la via della vita. Verso la fine del terzo secolo incontriamo per la prima volta a Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro, la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e nell'altra il bastone da viandante, proprio del filosofo. Con questo suo bastone Egli vince la morte; il Vangelo porta la veritࠣhe i filosofi peregrinanti avevano cercato invano. In questa immagine, che poi per un lungo periodo permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende evidente ciࣨe le persone colte come le semplici trovavano in Cristo: Egli ci dice chi in realtࠨ l'uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la via e questa via 蠬a verit஠Egli stesso 蠴anto l'una quanto l'altra, e perciਠanche la vita della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la morte; solo chi 蠩n grado di fare questo, 蠵n vero maestro di vita. La stessa cosa si rende visibile nell'immagine del pastore. Come nella rappresentazione del filosofo, anche per la figura del pastore la Chiesa primitiva poteva riallacciarsi a modelli esistenti dell'arte romana. L젩l pastore era in genere espressione del sogno di una vita serena e semplice, di cui la gente nella confusione della grande cittࠡveva nostalgia. Ora l'immagine veniva letta all'interno di uno scenario nuovo che le conferiva un contenuto piಯfondo: ꉬ Signore 蠩l mio pastore: non manco di nulla ... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perch頴u sei con me ... 輩>Sal 23 [22], 1.4). Il vero pastore 蠃olui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell'ultima solitudine, nella quale nessuno puࡣcompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, 蠤isceso nel regno della morte, l'ha vinta ed 蠴ornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui, un passaggio lo si trova. La consapevolezza che esiste Colui che anche nella morte mi accompagna e con il suo ⡳tone e il suo vincastro mi d͊sicurezza ࣯sicch頫 non devo temere alcun male 裦r Sal 23 [22],4) 岡 questa la nuova 㰥ranza 㨥 sorgeva sopra la vita dei credenti. 6. Sarcophagi nascentis christianismi hunc conceptum visibiliter collustrant ꩮ conspectu mortis, in cuius praesentia quaestio de vitae sensu vitari nequit. Figura Christi in his vetustis sarcophagis praesertim per duas intellegitur imagines: philosophi nempe et pastoris. Tunc vox ਩losophia 鮠genere non intellegebatur tamquam difficilis disciplina academica, sicut hodie offertur. Philosophus potius erat ille qui artem essentialem docere sciebat: artem vi cuius homo recte se gerit, artem vivendi et moriendi. Profecto, homines pridem perceperunt plerosque eorum, qui tamquam philosophi vagabantur, veluti magistri vitae, tantummodo vaniloqui erant qui per suas fabulas sibi pecuniam conficiebant, dum e contra de vera vita nihil habebant dicendum. Ita verus philosophus desiderabatur ille qui viam vitae vere docere sciebat. Tertio exeunte saeculo primum Romae super sarcophagum cuiusdam infantis, in contextu resurrectionis Lazari, Christi figuram reperimus uti veri philosophi qui altera manu Evangelium, altera vero baculum viatoris proprium philosophi tenet. Hoc quidem baculo Ille vincit mortem; Evangelium docet veritatem quam peregrinantes philosophi frustra quaesiverant. Hac in imagine, quae postea diu permansit in sarcophagorum arte, evidens redditur id quod homines sive docti sive simplices inveniebant in Christo: Ille docet nos quisnam vere sit homo et quidnam facere teneatur ut vere sit homo. Ostendit Ille nobis viam et haec via veritas est. Ipsemet sive via sive veritas est, idcirco etiam vita est quam omnes quaerimus. Monstrat Ille nobis viam ultra mortem; tantummodo qui hoc facere valet, verus est magister vitae. Idem conceptus visibilis redditur sub imagine pastoris. Sicut evenit in imagine philosophi, ita etiam per imaginem pastoris primaeva Ecclesia niti poterat exemplis arte Romana exsistentibus. Ibi pastor in genere desiderium significabat serenae et simplicis vitae, quam gentes in magnae urbis tumultu versantes appetebant. Tunc imago intellegebatur intra novum ordinem scaenicum, profundiorem ei proferens sensum: 䯭inus pascit me, et nihil mihi deerit... Si ambulavero in valle umbrae mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es... 輩>Ps 23 [22], 1. 4). Verus est pastor Qui novit quoque viam quae per mortis vallem transit; Ille qui etiam per iter extremae solitudinis, in quo nemo me comitari potest, mecum ambulat et ducit me ad hoc iter transeundum: Ipsemet hoc iter percurrit, descendit in regnum mortis, vicit eam et rediit ut nos comitaretur et certiores faceret nos simul secum transitum invenire posse. Conscientia, qua novi exsistere Eum, qui etiam in morte me comitatur et virga et baculo suo me consolatur, ita ut mala non timeam (cfr Ps 23 [22], 4): haec erat nova spes quae super vitam credentium exoriebatur.
7. Dobbiamo ancora una volta tornare al Nuovo Testamento. Nell'undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei (v.1) si trova una sorta di definizione della fede che intreccia strettamente questa virt㯮 la speranza. Intorno alla parola centrale di questa frase si 蠣reata fin dalla Riforma una disputa tra gli esegeti, nella quale sembra riaprirsi oggi la via per una interpretazione comune. Per il momento lascio questa parola centrale non tradotta. La frase dunque suona cos캠졠fede 輩> hypostasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono Хr i Padri e per i teologi del Medioevo era chiaro che la parola greca hypostasis era da tradurre in latino con il termine substantia. La traduzione latina del testo, nata nella Chiesa antica, dice quindi: 쩾Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium 栬a fede 蠬a 㯳tanza 䥬le cose che si sperano; la prova delle cose che non si vedono. Tommaso d'Aquino[4], utilizzando la terminologia della tradizione filosofica nella quale si trova, spiega questo cos캠la fede 蠵n 쩾habitus ࣩo蠵na costante disposizione dell'animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e la ragione 蠰ortata a consentire a ciࣨe essa non vede. Il concetto di 곯stanza 蠱uindi modificato nel senso che per la fede, in modo iniziale, potremmo dire 鮠germe 栱uindi secondo la 㯳tanza 栳ono gi࠰resenti in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio perch頬a cosa stessa 蠧i࠰resente, questa presenza di ciࣨe verrࠣrea anche certezza: questa 㯳a 㨥 deve venire non 蠡ncora visibile nel mondo esterno (non ꡰpare 젭a a causa del fatto che, come realtࠩniziale e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce gi࠯ra una qualche percezione di essa. A Lutero, al quale la Lettera agli Ebrei non era in se stessa molto simpatica, il concetto di 㯳tanza ஥l contesto della sua visione della fede, non diceva niente. Per questo intese il termine ipostasi/sostanza non nel senso oggettivo (di realt࠰resente in noi), ma in quello soggettivo, come espressione di un atteggiamento interiore e, di conseguenza, dovette naturalmente comprendere anche il termine argumentum come una disposizione del soggetto. Questa interpretazione nel XX secolo si 蠡ffermata ᬭeno in Germania ᮣhe nell'esegesi cattolica, cosicch頬a traduzione ecumenica in lingua tedesca del Nuovo Testamento, approvata dai Vescovi, dice: 龠Glaube aber ist: Feststehen in dem, was man erhofft, ܢerzeugtsein von dem, was man nicht sieht 覥de 躠stare saldi in ciࣨe si spera, essere convinti di ciࣨe non si vede). Questo in se stesso non 蠥rroneo; non 蠰er੬ senso del testo, perch頩l termine greco usato (elenchos) non ha il valore soggettivo di 㯮vinzione ୡ quello oggettivo di ಯva ǩustamente pertanto la recente esegesi protestante ha raggiunto una convinzione diversa: ꏲa perயn pu఩峳ere messo in dubbio che questa interpretazione protestante, divenuta classica, 蠩nsostenibile ᠨref="#nota05it" name="nota05i">[5]. La fede non 蠳oltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci d࠱ualcosa. Ci dࠧi࠯ra qualcosa della realtࠡttesa, e questa realt࠰resente costituisce per noi una ಯva ꤥlle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, cos젣he quest'ultimo non 蠰i鬠puro -ancora ɬ fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realt͊futura, e cos젬e cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future. 7. Iterum redeamus oportet ad Novum Testamentum. In capite undecimo Epistulae ad Hebraeos (v. 1) quandam repperimus definitionem fidei quae hanc virtutem arte cum spe coniungit. Huius propositionis de praecipuo verbo inde a Reformatione discussio suscipitur inter exegetas, quae hodie viam aperire videtur ad communem interpretationem. In praesens hoc praecipuum verbum sine versione relinquimus. Huiusmodi propositio ita sonat: 橤es est hypostasis rerum sperandarum; probatio rerum quae conspici nequeunt ɵxta sententiam Patrum et theologorum Medii Aevi perspicuum erat verbum Graecum hypostasim Latine vertendum esse sub voce substantiae. Idcirco Latina textus versio, antiqua in Ecclesia exorta, ita profertur: 峴 autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium 쯩> Fides enim est 㵢stantia ⥲um quae sperantur; probatio rerum quae videri nequeunt. Thomas Aquinas,[4] philosophicae traditionis usurpans verba in qua reperitur, ita rem explanat: ꦩdes est habitus mentis, quo inchoatur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non apparentibus ɤeo conceptus 㵢stantiae �atus est eo sensu quod per fidem, initiali modo, dicere possemus 鮠germine 捊proinde secundum 㵢stantiam 栩nesse iam in nobis res quae sperantur: omnia, veram vitam. Et sane quoniam eadem iam res adest, haec praesentia rei quae eveniet edit quoque certitudinem: haec ⥳ 楮tura in mundo externo nondum visibilis apparet; attamen, eo quod, uti initialem et dynamicam realitatem, eam intra nos portamus, iam nunc quaedam innuitur eiusdem perceptio. Secundum Lutherum, cui Epistula ad Hebraeos paulum placebat, conceptus 공bstantiae �o quo ille fidem percipiebat, fundamento omnino carebat. Hac de causa vocem hypostasim/substantiam non sensu obiectivo (de re in nobis exsistente), sed sensu subiectivo intellexit, uti manifestationem cuiusdam interioris habitudinis et ideo congruenter intellegere debuit quoque vocem argumentum uti habitudinem subiecti. Haec interpretatio XX saeculo solidata est 㡬tem in Germania 鮠exegesi quoque catholica, ita ut oecumenica versio ad linguam Germanicam Novi Testamenti, ab Episcopis approbata, sic proferatur: 꼩>Glaube aber ist: Feststehen in dem, was man erhofft, ܢerzeugtsein von dem, was man nicht sieht 覩des est: fortes esse in rebus sperandis, persuasos esse in rebus quae videri nequeunt). Hic effatus per se non est erroneus: attamen a textus significatione est alienus, quandoquidem Graecana vox (elenchos) subiectiva ॲsuasionis 橠caret, sed obiectivam ಯbationis 橭 retinet. Itaque recens exegesis protestantica diversam iure obtinuit persuasionem: 鮍 praesens tamen minime dubitandum est hanc iam traditam protestanticam interpretationem sustineri non posse 졠href="#nota05lt" name="nota05l">[5] Fides non est solum personalis inclinatio ad ea quae ventura sunt sed adhuc omnino absunt; ipsa nobis quiddam largitur. Nobis iam nunc tribuit aliquid realitatis exspectatae, et haec praesens realitas ಯbationem ᵡndam nobis constituit rerum quae nondum conspiciuntur. Ipsa attrahit futurum intra tempus praesens, eo ut hoc extremum tempus non sit amplius solum illud dum Ÿsistentia huius futuri mutat praesens; praesens futura realitate attingitur, et ita res futurae in praesentes vertuntur et praesentes in futuras.
8. Questa spiegazione viene ulteriormente rafforzata e rapportata alla vita concreta, se consideriamo il versetto 34 del decimo capitolo della Lettera agli Ebrei che, sotto l'aspetto linguistico e contenutistico, 蠣ollegato con questa definizione di una fede permeata di speranza e la prepara. Qui l'autore parla ai credenti che hanno subito l'esperienza della persecuzione e dice loro: ᶥte preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze (hyparchonton bonorum), sapendo di possedere beni migliori (hyparxin substantiam) e pi䵲aturi 쩾 Hyparchonta sono le proprietଠciࣨe nella vita terrena costituisce il sostentamento, appunto la base, la 㯳tanza ॲ la vita sulla quale si conta. Questa 㯳tanza ଡ normale sicurezza per la vita, 蠳tata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L'hanno sopportato, perch頣omunque ritenevano questa sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla, perch頡vevano trovato una ⡳e �liore per la loro esistenza 审 base che rimane e che nessuno puയgliere. Non si puயn vedere il collegamento che intercorre tra queste due specie di 㯳tanza ലa sostentamento o base materiale e l'affermazione della fede come ⡳e ࣯me 곯stanza 㨥 permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l'uomo puయggiare e con ci੬ fondamento abituale, l'affidabilitࠤel reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertࠤi fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente 蠩n grado di sostentare, anche se il suo significato normale non 蠣on ci튣ertamente negato. Questa nuova libertଠla consapevolezza della nuova 곯stanza 㨥 ci 蠳tata donata, si 蠲ivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si 荊mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichit͊fino a Francesco d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell'anima. L젬a nuova 㯳tanza 㩠蠣omprovata realmente come 㯳tanza डlla speranza di queste persone toccate da Cristo 蠳caturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. L젳i 荊dimostrato che questa nuova vita possiede veramente 㯳tanza 夠蠵na 곯stanza 㨥 suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere 蠤i fatto una ಯva 㨥 le cose future, la promessa di Cristo non 蠳oltanto una realtࠡttesa, ma una vera presenza: Egli 蠶eramente il 橬osofo 堩l ࡳtore 㨥 ci indica che cosa 蠥 dove sta la vita. 8. Haec dilucidatio ulterius confirmatur et ad vitam realem transfertur, si rationem habemus de versu 34o capitis decimi Epistulae ad Hebraeos, qui, quatenus ad linguam et materiam attinet, cum hac definitione fidei spe plenae nectitur eamque praeparat. Auctor hoc in loco credentes alloquitur qui persecutionem experti sunt et dicit illis: 橮ctis compassi estis et rapinam bonorum (hyparchonton bonorum) vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos habere meliorem substantiam (hyparxin substantiam) et manentem ༩>Hyparchonta illae sunt proprietates, ea videlicet quae in terrestri exsistentia victum constituunt, nempe fundamentum, 공bstantiam 렶itae qua fulcitur. Christiani, saevientibus persecutionibus, de hac 㵢stantia ஡turali vitae securitate, sunt detracti. Pertulerunt eam quoniam omni modo censebant hanc materialem substantiam neglegi posse. Poterant eam relinquere, quia invenerant aliud 浮damentum ᰴius ad eorum exsistentiam, fundamentum permanens, quod nemo auferre valet. Nihil fieri potest quin nexus videatur inter hanc duplicem speciem 㵢stantiae ੮ter victum seu fundamentum materiale intercedere et affirmationem fidei uti 浬crum 튵ti manentem 㵢stantiam Ʃdes novum fulcrum confert vitae, novum fundamentum quo homo fulciri potest, quamobrem consuetum fundamentum, commendatio proventus materialis, relativum redditur. Nova exsurgit libertas prae hoc vitae fundamento, quod tantum potest eam simulate sustentare, quamvis hac de causa congruens eius sensus negari nequeat. Haec nova libertas, conscientia novae 㵢stantiae ᵡe data est nobis, est revelata non tantum in martyrio, quo homines protervae ideologiae eiusque politicis instrumentis obstiterunt, et, per eorum mortem, mundum renovarunt. Ipsa monstrata est praesertim per extremas renuntiationes inde a monachis veteris temporis ad Franciscum Assisiensem et ad homines nostrae aetatis, qui apud recentia Instituta et Motus religiosos, Christi amore compulsi, omnia reliquerunt ut hominibus fidem et amorem Christi traderent, ut corpore et mente dolentibus auxilium ferrent. Ibi enim nova 㵢stantia 㯭probata est uti vera 공bstantia ॸ spe horum hominum, Christo ducente, exorta est spes pro aliis qui vitam in tenebris gerebant et sine spe. Ibi declaratum est hanc vitam novam possidere vere 㵢stantiam ౵ae pro ceteris vitam promovet. Nobis, qui has figuras conspicimus, haec eorum actio et vita reapse ಯbatio 峴 quod res futurae, promissio nempe Christi non solum est realitas speranda, sed vera praesentia: Ipse est vere ਩losophus 崠ࡳtor ᵩ docet nos quidnam sit vita et ubinam ipsa inveniatur.
9. Per comprendere pi profondo questa riflessione sulle due specie di sostanze 쩾hypostasis e hyparchonta 堳ui due modi di vita espressi con esse, dobbiamo riflettere ancora brevemente su due parole attinenti l'argomento, che si trovano nel decimo capitolo della Lettera agli Ebrei. Si tratta delle parole hypomone (10,36) e hypostole (10,39). Hypomone si traduce normalmente con ࡺienza 栰erseveranza, costanza. Questo saper aspettare sopportando pazientemente le prove 蠮ecessario al credente per poter ﴴenere le cose promesse 裦r 10,36). Nella religiosit͊dell'antico giudaismo questa parola veniva usata espressamente per l'attesa di Dio caratteristica di Israele: per questo perseverare nella fedeltࠡ Dio, sulla base della certezza dell'Alleanza, in un mondo che contraddice Dio. Cos젬a parola indica una speranza vissuta, una vita basata sulla certezza della speranza. Nel Nuovo Testamento questa attesa di Dio, questo stare dalla parte di Dio assume un nuovo significato: in Cristo Dio si 蠭ostrato. Ci ha ormai comunicato la 㯳tanza 䥬le cose future, e cos젬'attesa di Dio ottiene una nuova certezza. Ƞattesa delle cose future a partire da un presente giࠤonato. Ƞattesa, alla presenza di Cristo, col Cristo presente, del completarsi del suo Corpo, in vista della sua venuta definitiva. Con hypostole invece 荊espresso il sottrarsi di chi non osa dire apertamente e con franchezza la verit͊forse pericolosa. Questo nascondersi davanti agli uomini per spirito di timore nei loro confronti conduce alla ॲdizione 輩>Eb 10,39). 䩯 non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza 栣os썊invece la Seconda Lettera a Timoteo (1,7) caratterizza con una bella espressione l'atteggiamento di fondo del cristiano. 9. Ad hanc considerationem penitius perficiendam de duplici genere substantiarum 龠hypostasis et hyparchonta ᣠde duplici genere vitae cum iisdem expresso, breviter cogitemus de duobus verbis quae ad rem pertinent, quaeque inveniuntur in capite decimo Epistulae ad Hebraeos. Agitur de verbis hypomone (10,36) et hypostole (10,39). Hypomone recte vertitur in vocem ࡴientiam 栰erseverantiam, constantiam. Facultas exspectandi, dum patienter probationes tolerantur, necessaria est credenti qui promissionem reportare possit (cfr 10, 36). In religiosa vita veteris Iudaismi hoc verbum consulto adhibebatur ad ostendendam exspectationem Dei, proprietatem populi Israelis: quamobrem perseverandum est in fidelitate erga Deum sub fulcimine certitudinis Foederis, in hac societate quae Deum impugnat. Ita enim hoc verbo significatur spes vitaliter gesta, vita quae spei certitudine nititur. Novo in Testamento haec Dei exspectatio, haec confirmatio a Dei parte novum sensum accipit: in Christo enim Deo hoc est demonstratum. 㵢stantiam 宩m rerum venturarum iam nobis patefecit, ita etiam Dei exspectatio novam accipit certitudinem. Ex rebus enim venturis exspectatur, iam inde a rebus in praesentia donatis. Exspectatur quidem Christo praesente et cum Christo praesente ut in eius Corpore totum compleatur donec extremus eius veniat adventus. Verbo autem hypostole absentia eius exprimitur qui aperte non vult neque honeste veritatem fortasse periculis obnoxiam. Dum autem absconduntur homines coram hominibus ex timore ne eorum mores ad ॲditionem ॲducant (Heb 10,39).  enim dedit nobis Deus spiritum timoris sed virtutis et dilectionis et sobrietatis 栩ta contra Epistula Secunda ad Timotheum (1,7) designat pulchra elocutione intimum christiani adfectum.
La vita eterna 㨥 cos'迼/i> Vita aeterna ᵩd est?
10. Abbiamo finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e agli inizi del cristianesimo; 蠳tato per࡮che sempre evidente che non discorriamo solo del passato; l'intera riflessione interessa il vivere e morire dell'uomo in genere e quindi interessa anche noi qui ed ora. Tuttavia dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana 蠡nche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? Ƞessa per noi ॲformativa 栵n messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o 蠯rmai soltanto ꩮformazione 㨥, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni pi⥣enti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l'accoglienza del neonato nella comunitࠤei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: 㨥 cosa chiedi alla Chiesa? ꒩sposta: 졠fede ૠE che cosa ti dona la fede? 렌a vita eterna 튓tando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l'accesso alla fede, la comunione con i credenti, perch頶edevano nella fede la chiave per 졍 vita eterna ĩ fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunitଠnon semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di piॲ il battezzando: si aspettano che la fede, di cui 蠰arte la corporeitࠤella Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita 졠vita eterna. Fede 蠳ostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo 橶ere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perch頬a vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno 곥nza fine ᰰare pi审 condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il pi௳sibile. Ma vivere sempre, senza un termine 걵esto, tutto sommato, puॳsere solo noioso e alla fine insopportabile. ȍ precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: 蠶ero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtࠤi natura; infatti Dio da principio non stabil젬a morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciࡤ essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinch頬a morte restituisse ciࣨe la vita aveva perduto. L'immortalitࠨ un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia ᠨref="#nota06it" name="nota06i">[6]. Gi࠰rima Ambrogio aveva detto:  dev'essere pianta la morte, perch頨 causa di salvezza... ᠨref="#nota07it" name="nota07i">[7]. 10. Hucusque de fide deque spe locuti sumus Novo in Testamento atque christiani nominis initiis; manifestum tamen semper fuit non de praeterito solum tempore nos disserere; tota enim meditatio vitam respicit mortemque hominis in universum ac proinde etiam nos hodie quoque tangit. Debemus nihilominus expressis verbis nos interrogare: estne etiam nobis christiana fides hodie, quaedam spes nostram vitam quae transfigurat atque sustentat? Nobis quidem est ॲformativa 捊nuntius videlicet qui novo modo vitam ipsam etiam conformat, vel iam ꩮformatio 䵭taxat quam interea seposuimus quaeque notitiis recentioribus iam superata videtur? Responsionem quaerentes nos proficisci volumus a comprobata dialogi forma qua Baptismi ritus receptionem infantis in credentium communitatem inducebat et eius in Christo nativitatem. Ante omnia petebat sacerdos quod nomen infanti elegissent parentes, et proxima deinde prosequebatur interrogatione: ꑵid petis ab Ecclesia? Ŵ respondebatur: 橤em ૠEt quid tibi donat fides? ૠVitam aeternam ȵnc sermonem conferentes, petebant infanti parentes accessum ad fidem, cum credentibus communitatem, cum in fide clavem viderent ad 橴am aeternam ҥ quidem vera, cum praesenti tum praeterito tempore, hoc agitur in Baptismate cum quis christianus fit: non modo de actu quodam susceptionis agitur in communitatem, non simpliciter de admissione in Ecclesiam. Plus sibi parentes exspectant pro infante baptizando: confidunt enim fidem illam, pars cuius Ecclesiae corpus est eiusque sacramenta, ei ipsi vitam esse daturam pe vitam aeternam. Spei enim substantia fides est. Cooritur simul tamen quaestio: cupimusne revera hoc 㥭piternum vivere? Plures forsitan hodie idcirco fidem repudiant tantummodo quia illis vita aeterna non videatur optabilis res. Aeternam respuunt vitam sed praesentem accipiunt, et fides propterea de vita aeterna hunc ad finem videtur potius impedimentum. Vivere enim in aeternum 㩮e fine ॲgere magis damnatio videtur quam donatio. Mortem certissime cupiunt differre quam longissime. Atqui vivere sine termino 诣, omnibus perpensis, videtur tantummodo taedio plenum ac tandem intolerabile quiddam. Hoc ipsum, verbi gratia, omnino dicit Ecclesiae Pater Ambrosius funebri in sermone pro fratre Satyro vita functo: 崠mors quidem in natura non fuit, sed conversa est in naturam; non enim a principio Deus mortem instituit, sed pro remedio dedit [...] Praevaricatione damnata in labore diuturno, gemituque intolerando vita hominum coepit esse miserabilis: debuitque dari finis malorum, ut mors restitueret, quod vita amiserat. Immortalitas enim oneri potius quam usui est, nisi aspiret gratia 졠href="#nota06lt" name="nota06l">[6] Iam antea dixerat Ambrosius:  igitur maerenda mors, quae causa salutis est publicae 졠href="#nota07lt" name="nota07l">[7]
11. Qualunque cosa sant'Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole 蠶ero che l'eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l'umanitࠩn una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente c'蠵na contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietࠩnteriore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non 蠳tata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda piಯfonda: che cosa 謠in realtଠla 橴a Šche cosa significa veramente 崥rnit࠻? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all'improvviso: s쬠sarebbe propriamente questo 졠궩ta 楲a 㯳젥ssa dovrebbe essere. A confronto, ciࣨe nella quotidianit͊chiamiamo 橴a ੮ verit࠮on lo 讠Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa 렬a vita beata 튬a vita che 蠳emplicemente vita, semplicemente 楬icit࠻. Non c'謠in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient'altro ci siamo incamminati 䩠questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realt໠anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente.  sappiamo che cosa sia conveniente domandare १li confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciࣨe sappiamo 蠳olo che non 蠱uesto. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtࠤeve esistere. 㧨 dunque in noi una, per cos썊dire, dotta ignoranza 輩>docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa 楲a vita ॠtuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti[8]. 11. Quidquid his verbis ipsis sanctus Ambrosius dicere voluit 楲um quidem est mortis amotionem vel etiam dilationem sine fine reicere terram ipsam hominumque genus in condicionem intolerabilem neque singulis ipsis ullum adferre beneficium. Manifesto exsistit hic repugnantia quaedam in nostris adfectionibus, quae ad interiorem quandam nostrae ipsius exsistentiae contradictionem reicit. Ex altera enim parte mori nolumus; at praecipue qui nos diligit mori nos non vult. Ex altera vero neque exsistere sine termino optamus neque condita est terra hoc cum rerum prospectu. Quid igitur reapse concupiscimus? Hoc velut paradoxum nostri ipsius animi altiorem excitat interrogationem: re quidem vera quid est ꉉvita Ŵ quid sibi vere vult vocabulum ᥴernitatis Ʃt nonnumquam ut inopinato perspiciamus: ita hoc proprie esset 렶ita ꉉvera 㩣que esse deberet. Ex contrario id quod cotidiana in actione ꉉvitam cupamus, reapse non id est. Sua in fusiore epistula de oratione ad Probam, viduam nempe Romanam, prosperam triumque matrem consulum, scripsit quondam: Unum dumtaxat ad extremum conquirimus 덊 beatam vitam ඩtam quae simpliciter est vita, est simpliciter ꉉfelicitas ϭnibus quidem ponderatis nihil aliud est quod precantes petimus. Ad nihil aliud progredimur 䥠hac una re agitur. Sed etiam postmodum Augustinus addit: melius quidem intuentes, minime novimus quid tandem exoptemus quid vere velimus. Etenim hanc rem ignoramus nos; tunc etiam, cum attingere id nos arbitramur, revera non tangimus.  quid oremus, sicut oportet, nescimus ੰse verbis sancti Pauli confitetur (Rom 8,26). Id quod scimus non id solum est quod quaerimus. Nescientes tamen scimus hoc revera exsistere debere. 峴 ergo in nobis quaedam, ut ita dicam, docta ignorantia ೣribit ille. Revera nescimus quid vere velimus; non hanc 楲am vitam 㯧noscimus; et tamen comprehendimus exsistere aliquid debere quod nos non noverimus et ad quod impelli nos sentimus.[8]
12. Penso che Agostino descriva l젩n modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell'uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciඥrso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciࣨe possiamo sperimentare o realizzare non 蠣iࣨe bramiamo. Questa 㯳a 駮ota 蠬a vera 㰥ranza 㨥 ci spinge e il suo essere ignota 謠al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola 橴a eterna 㥲ca di dare un nome a questa sconosciuta realtࠣonosciuta. Necessariamente 蠵na parola insufficiente che crea confusione. 崥rno ੮fatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; 橴a 㩠fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, 荊spesso allo stesso tempo pi桴ica che appagamento, cosicch頭entre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalitࠤella quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternit࠮on sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalitࠣi abbraccia e noi abbracciamo la totalit஠Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo 鬠prima e il dopo  esiste piЯssiamo soltanto cercare di pensare che questo momento 蠬a vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastit͊dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Cos젬o esprime Ges Vangelo di Giovanni: 橠vedrऩ nuovo e il vostro cuore si rallegrerࠥ nessuno vi potr࠴ogliere la vostra gioia 豶,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo[9]. 12. Augustinum ibi describere exsistimamus ratione valde acuta semperque valida necessariam hominis condicionem, statum enim unde omnes eius repugnantiae proveniant eiusque simul spes. Eandem ipsam aliquo modo concupiscimus vitam, illam veram quae deinceps neque morte afficiatur, sed eodem tempore ignoramus quo nos impelli sentiamus. Haud valemus non protendere ad id nos, verumtamen id omne quod experiri possumus vel efficere scimus non id esse quod cupiamus. Haec ⥳ 駮ota est vera 㰥s  quae instigat et quod ignota est, eodem tempore causa est omnium desperationum sicut etiam omnium verarum vel exitialium impulsionum erga orbem verum et hominem germanum. Ipsum 橴a aeterna 궯cabulum contendit nomen huic rei ignoratae et tamen cognitae addere. Non quidem sufficit illud verbum quod potius turbationem generat. ᥴerna 鮍 nobis namque notionem gignit alicuius rei interminabilis et hoc ingerit nobis timorem; 橴a ᵴem cogit nos aliquam a nobis iam cognitam vitam cogitare, quam profecto diligimus neque amittere volumus et quae tamen saepius eodem tempore nobis fatigatio est quam recreatio, ita ut dum hinc eam cupiamus illinc respuamus. Nostra solummodo cogitatione exire possumus ex temporali rerum cognitione cuius sumus veluti captivi et aliquo modo praesentire aeternum tempus non esse dierum Kalendarii consecutionem sed summum retributionis tempus, quo universitas rerum nos amplectitur nosque amplectimur universitatem. Tempus scilicet id est ut in mare amoris infiniti mergamur, ubi tempus ipsum ᮴erius et posterius 顭 non exsistit. Studere tantummodo possumus fingere hoc temporis punctum vitam sensu pleno esse, ubi nempe in ipsius exsistentiae vastitatem mergitur, dum gaudio simpliciter obruimur. Ita quidem Iesus apud Ioannem eloquitur: 鴥rum autem videbo vos, et gaudebit cor vestrum, et gaudium vestrum nemo tollit a vobis 豶,22). In hanc enim partem cogitare debemus si comprehendere concupiscimus quo tandem christiana tendat spes, ex fide quid exspectemus atque nostra ex vita cum Christo.[9]
La speranza cristiana 蠩ndividualistica? Num christiana spes ad singulos dumtaxat pertinet?
13. Nel corso della loro storia, i cristiani hanno cercato di tradurre questo sapere che non sa in figure rappresentabili, sviluppando immagini del 㩥lo ꣨e restano sempre lontane da ciࣨe, appunto, conosciamo solo negativamente, mediante una non-conoscenza. Tutti questi tentativi di raffigurazione della speranza hanno dato a molti, nel corso dei secoli, lo slancio di vivere in base alla fede e di abbandonare per questo anche i loro 쩾hyparchonta ଥ sostanze materiali per la loro esistenza. L'autore della Lettera agli Ebrei, nell'undicesimo capitolo ha tracciato una specie di storia di coloro che vivono nella speranza e del loro essere in cammino, una storia che da Abele giunge fino all'epoca sua. Di questo tipo di speranza si 蠡ccesa nel tempo moderno una critica sempre pi䵲a: si tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata. Henri de Lubac, nell'introduzione alla sua opera fondamentale 쩾Catholicisme. Aspects sociaux du dogme ਡ raccolto alcune voci caratteristiche di questo genere di cui una merita di essere citata: 诠trovato la gioia? No ... Ho trovato la mia gioia. E ciਠuna cosa terribilmente diversa ... La gioia di Ges൲ essere individuale. Pu튡ppartenere ad una sola persona, ed essa 蠳alva. Ƞnella pace..., per ora e per sempre, ma lei sola. Questa solitudine nella gioia non la turba. Al contrario: lei 謠appunto, l'eletta! Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano ᠨref="#nota10it" name="nota10i">[10]. 13. Saeculorum suorum decursu conati sunt christiani scientiam hanc interpretari quae figuris reddi non potest idcircoque imagines 㡥li ॲfecerunt quae semper procul ab iis rebus absunt quas omnino tantummodo negando novimus, id est per scientiam nullam. Conamina haec omnia effingendae spei multis dant per saecula impetum ut secundum fidem vivant et propterea eorum 쩾hyparchonta ೵bstantiae enim materiales eorum vitae augescant. Epistulae ad Hebraeos auctor capite undecimo genus quoddam eorum historiae definit qui in spe vivunt atque etiam eorum experientiae in itinere, quae quidem historia a tempore Abelis eorum tangit aetatem. Huius vero spei generis recentioribus temporis durior usque censura est excitata: de puro individualismo agitur qui miseriae propriae relinquit totum orbem et in aeternam quandam salutem refugit solummodo privatam. Henricus de Lubac primarii in prooemio operis sui Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, quasdam collegit huius generis proprias voces, quarum digna una est quae proferatur: 顭ne repperi laetitiam? Haudquaquam... meum solum gaudium inveni. Id quod est aliquid horribiliter aliud... Iesu enim laetitia potest esse unius hominis solius, et iam salva est. In pace quidem est... et nunc et in perpetuum, attamen ipsa sola. Haec in gaudio solitudo non eam perturbat. Ex contrario: 塠scilicet selecta est! Proelia feliciter cum rosa in manu transit 졠href="#nota10lt" name="nota10l">[10]
14. Rispetto a ci젤e Lubac, sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastitଠha potuto mostrare che la salvezza 蠳tata sempre considerata come una realtࠣomunitaria. La stessa Lettera agli Ebrei parla di una 㩴t͊裦r 11,10.16; 12,22; 13,14) e quindi di una salvezza comunitaria. Coerentemente, il peccato viene compreso dai Padri come distruzione dell'unit͊del genere umano, come frazionamento e divisione. Babele, il luogo della confusione delle lingue e della separazione, si rivela come espressione di ci튣he in radice 蠩l peccato. E cos젬a ⥤enzione ᰰare proprio come il ristabilimento dell'unitଠin cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un'unione che si delinea nella comunit࠭ondiale dei credenti. Non 蠮ecessario che ci occupiamo qui di tutti i testi, in cui appare il carattere comunitario della speranza. Rimaniamo con la Lettera a Proba in cui Agostino tenta di illustrare un po' questa sconosciuta conosciuta realtࠤi cui siamo alla ricerca. Lo spunto da cui parte 蠳emplicemente l'espressione 橴a beata [felice] Яi cita il Salmo 144 [143],15: ⥡to il popolo il cui Dio 蠩l Signore Šcontinua: ॲ poter appartenere a questo popolo e giungere [...] alla vita perenne con Dio, 젦ine del precetto 蠬'amore che viene da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera輩>1 Tim 1,5) ᠨref="#nota11it" name="nota11i">[11]. Questa vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, 蠬egata all'essere nell'unione esistenziale con un ௰olo 堰uಥalizzarsi per ogni singolo solo all'interno di questo  ųsa presuppone, appunto, l'esodo dalla prigionia del proprio 鯠థrch頳olo nell'apertura di questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull'amore stesso 공 Dio. 14. De hac re secundum Patrum theologiam in omni eius plenitudine valuit demonstrare de Lubac salutem semper esse veluti rem communitatis habitam. Epistula ad Hebraeos ipsa de quadam urbe loquitur (cfr 11,10.16; 12,22; 13,14) ideoque in commune de salute. Congruenter a Patribus intellegitur peccatum tamquam generis hominum unitatis eversio, veluti divisio et ruptio. Turris Babelis locus confusionis linguarum atque partitionis se demonstrat illius rei quae denique tamen in radice peccatum est. Sic enim comparet 겥demptio ﭮino sicuti unitatis restauratio, ubi iterum simul invenimur in coniunctione quae inter credentes totius orbis effingitur. Haud necesse est de singulis his locis disceptemus, ubi indoles spei communitaria elucet. Cum Epistula ad Probam restamus, ubi aliquantulum illuminare contendit Augustinus hanc ignotam simul et cognitam veritatem quam ipsi conquirimus. Punctum unde progreditur ille est simpliciter locutio ⥡ta vita ĥinde Psalmum 144 [143], 15 adfert: ⥡tus populus cui Dominus est Deus ॴ prosequitur: 鮠ipso populo ut simus, atque [...] cum eo sine fine vivendum pervenire possimus, finis praecepti est caritas de corde puro, et conscientia bona, et fide non ficta 輩>1 Tim 1,5).[11] Haec vera vita ad quam studemus semper nos intendere semper cum vita iungitur in necessaria coniunctione alicuius ௰uli 䵭 se singulis pro hominibus complere potest dumtaxat intra illud  ntea quidem poscit exitum de carcere ipsius personae 姯 ౵oniam solummodo huic rei universali aperta recludit oculos ad laetitiae fontem, ad amorem ipsum, ᤠDeum.
15. Questa visione della 橴a beata ﲩentata verso la comunitࠨa di mira, s쬠qualcosa al di lࠤel mondo presente, ma proprio cos젨a a che fare anche con la edificazione del mondo 鮠forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilitࠤa esso offerte o escluse. Al tempo di Agostino, quando l'irruzione dei nuovi popoli minacciava la coesione del mondo, nella quale era data una certa garanzia di diritto e di vita in una comunitࠧiuridica, si trattava di fortificare i fondamenti veramente portanti di questa comunitࠤi vita e di pace, per poter sopravvivere nel mutamento del mondo. Cerchiamo di gettare, piuttosto a caso, uno sguardo su un momento del medioevo sotto certi aspetti emblematico. Nella coscienza comune, i monasteri apparivano come i luoghi della fuga dal mondo (龠contemptus mundi ॠdel sottrarsi alla responsabilit࠰er il mondo nella ricerca della salvezza privata. Bernardo di Chiaravalle, che con il suo Ordine riformato port൮a moltitudine di giovani nei monasteri, aveva su questo una visione ben diversa. Secondo lui, i monaci hanno un compito per tutta la Chiesa e di conseguenza anche per il mondo. Con molte immagini egli illustra la responsabilitࠤei monaci per l'intero organismo della Chiesa, anzi, per l'umanit໠a loro egli applica la parola dello Pseudo-Rufino: 鬠genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe... ᠨref="#nota12it" name="nota12i">[12]. I contemplativi 쩾contemplantes 䥶ono diventare lavoratori agricoli 쩾 laborantes ࣩ dice. La nobiltࠤel lavoro, che il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo, era emersa gi࠮elle regole monastiche di Agostino e di Benedetto. Bernardo riprende nuovamente questo concetto. I giovani nobili che affluivano ai suoi monasteri dovevano piegarsi al lavoro manuale. Per la verit଍ Bernardo dice esplicitamente che neppure il monastero pu಩pristinare il Paradiso; sostiene perࣨe esso deve, quasi luogo di dissodamento pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso. Un appezzamento selvatico di bosco vien reso fertile ಯprio mentre vengono allo stesso tempo abbattuti gli alberi della superbia, estirpato ciࣨe di selvatico cresce nelle anime e preparato cos젩l terreno, sul quale puలosperare pane per il corpo e per l'anima[13]. Non ci 蠤ato forse di costatare nuovamente, proprio di fronte alla storia attuale, che nessuna positiva strutturazione del mondo pu಩uscire lࠤove le anime inselvatichiscono? 15. Hic 橴ae beatae ಯspectus, quae ad communitatem dirigitur spectat profecto ad aliquid ultra orbem praesentem, sed ita omnino agere debet de mundi aedificatione �is valde diversis, secundum historiae adiuncta atque facultates inde vel oblatas vel exclusas. Sancti Augustini tempore, cum novorum populorum invasio minaretur totius mundi cohaerentiae, ubi certum dabatur iuris pignus atque vitae in communione quadam iuridica, intererat fundamenta roborare reapse hanc vitae pacisque communitatem sustinentia, ut quis in orbis commutatione superstes esse posset. Obtutum potius nostrum studeamus casu in momentum quoddam mediae aetatis conicere certis rationibus proprium. Ad communem id est conscientiam, videbantur coenobia veluti loca fugae ex mundo (쩾 contemptus mundi 奄) atque effugia officiorum erga mundum in privatae cuiusdam salutis conquisitione. Bernardus Claravallensis, suo cum ordine reformato qui iuvenum multitudinem in monasteria adduxit, hac de re aestimationem omnino aliam habebat. Ex eius mente munus habent monachi pro tota Ecclesia ac proinde pro mundo ipso. Pluribus enim imaginibus officium monachorum pro integro Ecclesiae instituto illuminat, quin immo pro omni hominum genere; eis nempe dicta Pseudo-Rufini adhibet: 赭anum genus vivit paucis, quia nisi hi essent, mundus periret... 졠href="#nota12lt" name="nota12l">[12] Contemplantes evadere debent opifices agricolae 龠laborantes யbis dicit. Operis namque nobilitas, quam christiani a Iudaeis uti hereditatem acceperant, iam monasticis in regulis Augustini ac Benedicti splendebat. Iterum hunc conceptum Bernardus repetit. Nobiles iuvenes qui ad coenobia eius concurrebant sese etiam manuum operibus subdere debebant. Reapse explicitis verbis adseverat Bernardus neque coenobium ipsum redintegrare posse Paradisum; defendit idcirco monasterium debere veluti locum spiritalis et cotidianae orationis, novum praeparare Paradisum. Silvestris agrorum partitio redditur fertilis 䵮c omnino cum eodem tempore superbiae arbores succiduntur, cum id omne evellitur silvestris generis quod in animabus crescit et sic terra paratur in qua panis pro corpore animaque prosperari potest.[13] Nonne nobis confirmare denuo licet, hodiernae coram historiae condicione, nullam veram orbis aedificationem ibi florere posse ubi animae penitus insilvescant.
La trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno Fidei speique christianae transfiguration recentioribus temporibus
16. Come ha potuto svilupparsi l'idea che il messaggio di Ges㩡 strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si 蠡rrivati a interpretare la 곡lvezza dell'anima 㯭e fuga davanti alla responsabilit࠰er l'insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri? Per trovare una risposta all'interrogativo dobbiamo gettare uno sguardo sulle componenti fondamentali del tempo moderno. Esse appaiono con particolare chiarezza in Francesco Bacone. Che un'epoca nuova sia sorta 粡zie alla scoperta dell'America e alle nuove conquiste tecniche che hanno consentito questo sviluppo 蠣osa indiscutibile. Su che cosa, per젳i basa questa svolta epocale? Ƞla nuova correlazione di esperimento e metodo che mette l'uomo in grado di arrivare ad un'interpretazione della natura conforme alle sue leggi e di conseguire cos젦inalmente 졍 vittoria dell'arte sulla natura 輩>victoria cursus artis super naturam)[14]. La novitࠖ secondo la visione di Bacone 㴡 in una nuova correlazione tra scienza e prassi. Ciඩene poi applicato anche teologicamente: questa nuova correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all'uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito[15]. 16. Quomodo enucleari potuit cogitatio illa: Christi nuntium stricto sensu ad singulos pertinere et solum unumquemque tangere? Quomodo eo perventum est ut 㡬utem animae 鮴erpretarentur tamquam fugam ab officiis pro universo corpore et ut proinde disciplinam christiani nominis haberent uti singularem quandam inquisitionem salutis quae aliorum declinarent adiutorium? Huic interrogationi ut respondeatur, oculos conicere oportet in elementa recentioris aetatis principalia. Haec enim maxima perspicuitate in Francisco Bacone emergunt. Disputari etenim non licet novam enatam esse quasi aetatem, America detecta novisque repertis technicis rationibus quae hanc progressionem permiserunt. At quibus fundamentis haec innitur historica conversio? Nova quidem est necessitudo experimentorum modorumque hominem quae idoneum reddit ut ad interpretationem naturae adveniat legibus suis congruam ac propterea tandem consequatur 龠victoriam cursus artis super naturam 奄.[14] Ad Baconis mentem itas inde venit quod nova ratione scientia coniunguntur et usus. Hoc dein adhiberi potest etiam theologica ratione: nova enim haec inter scientiam et cotidianum usum habitudo significat dominationem in res creatas, homini a Deo concessam at originali peccato amissam restaurari posse.[15]
17. Chi legge queste affermazioni e vi riflette con attenzione, vi riconosce un passaggio sconcertante: fino a quel momento il ricupero di ciࣨe l'uomo nella cacciata dal paradiso terrestre aveva perso si attendeva dalla fede in Gesꃲisto, e in questo si vedeva la ⥤enzione ϲa questa ⥤enzione ଡ restaurazione del ࡲadiso ॲduto, non si attende pi䡬la fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non 蠣he la fede, con ci썊venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello 걵ello delle cose solamente private ed ultraterrene 堡llo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. Questa visione programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l'attuale crisi della fede che, nel concreto, 蠳oprattutto una crisi della speranza cristiana. Cos젡nche la speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede nel progresso. Per Bacone, infatti, 蠣hiaro che le scoperte e le invenzioni appena avviate sono solo un inizio; che grazie alla sinergia di scienza e prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emerger࠵n mondo totalmente nuovo, il regno dell'uomo[16]. Cos젥gli ha presentato anche una visione delle invenzioni prevedibili 橮o all'aereo e al sommergibile. Durante l'ulteriore sviluppo dell'ideologia del progresso, la gioia per gli avanzamenti visibili delle potenzialit࠵mane rimane una costante conferma della fede nel progresso come tale. 17. Qui has legit affirmationes easque attento animo perpendit, transitum omnino turbantem ibi agnoscit: ad id usque tempus revocatio eorum omnium, quae homo paradisum terrenum conquirens perdiderat, ex fide in Iesum Christum exspectabatur ibidemque ⥤emptio ॲspiciebatur. Nunc vero eadem illa 겥demptio ૠparadisi ᭩ssi redintegratio non iam a fide petitur verum ex coniunctione nuper reperta inter scientiam et usum. Hoc accidit non quod fides inde simpliciter negetur; potius vero transfertur alium in ordinem ⥲um scilicet tantummodo privatarum atque ultra terrestrium 崠simul quadamtenus iam mundo nihil significat. Hic prospectus ordinatus iam iter designavit temporum recentiorum afficitque etiam praesens fidei discrimen quod in re ipsa est ante omnia spei christianae discrimen. Ita etiam spes apud Baconem novam induit formam. Vocatur enim nunc: fides in progressionem. Namque Bacon manifesto opinatur inventa ac reperta nuperius exorientia solummodo esse initium, propter consonantiam autem inter scientiam et usum novis ex repertis orbem funditus novum nasciturum, hominis regnum.[16] Ita etiam ille prospectum exhibet inventionum praevisarum 峱ue ad aeronavigium nec non navem subaquaneam. Progrediente autem notione ipsa augmentorum, laetitia super aspectabilibus humanae potentiae progressibus constans remanet affirmatio fidei de progressu uti tali.
18. Al contempo, due categorie entrano sempre piᬠcentro dell'idea di progresso: ragione e libert஠Il progresso 蠳oprattutto un progresso nel crescente dominio della ragione e questa ragione viene considerata ovviamente un potere del bene e per il bene. Il progresso 蠩l superamento di tutte le dipendenze 蠰rogresso verso la libert࠰erfetta. Anche la libert࠶iene vista solo come promessa, nella quale l'uomo si realizza verso la sua pienezza. In ambedue i concetti 쩢ertࠥ ragione 蠰resente un aspetto politico. Il regno della ragione, infatti, 蠡tteso come la nuova condizione dell'umanit͊diventata totalmente libera. Le condizioni politiche di un tale regno della ragione e della libertଠtuttavia, in un primo momento appaiono poco definite. Ragione e libert࠳embrano garantire da s鬠in virt䥬la loro intrinseca bontଠuna nuova comunit࠵mana perfetta. In ambedue i concetti-chiave di 겡gione 堫 libert࠻, per젩l pensiero tacitamente va sempre anche al contrasto con i vincoli della fede e della Chiesa, come pure con i vincoli degli ordinamenti statali di allora. Ambedue i concetti portano quindi in s頵n potenziale rivoluzionario di un'enorme forza esplosiva. 18. Eodem vero tempore duo rerum ordines magis magisque ingrediuntur progressus notionem: ratio atque libertas. Etenim ante omnia progressio est auctus crescentis dominationis ipsius rationis quae quidem ratio manifesto iudicatur veluti potestas boni pro bono. Victoria quidem progressio est omnium vinculorum 崥nim perfectam procedit ad libertatem. Ipsa quoque libertas accipitur tantummodo ut res promissa, ubi homo se ad sui plenitudinem perficit. Utraque in conceptione 쩢ertatis et rationis ᤥst similiter politicus aspectus. Exspectatur namque rationis regnum sicuti status novus hominum generis usquequaque liberati. Talis autem rationis libertatisque regni condiciones politicae primo tamen tempore haud bene definitae videntur. Ex se quidem ratio et libertas praestare videntur, suam propter intrinsecam bonitatem, novam hominum communitatem perfectam. Utroque in praecipuo illo conceptu ⡴ionis ꥴ 쩢ertatis 㯧itatio tamen tacito modo semper etiam tendit in repugnantiam vinculorum fidei et Ecclesiae, quemadmodum etiam vinculorum tunc temporis legum status. Bini itaque illi conceptus in se potestatem eversivam continent alicuius ingentis explosivae potentiae.
19. Dobbiamo brevemente gettare uno sguardo sulle due tappe essenziali della concretizzazione politica di questa speranza, perch頳ono di grande importanza per il cammino della speranza cristiana, per la sua comprensione e per la sua persistenza. C'蠩nnanzitutto la Rivoluzione francese come tentativo di instaurare il dominio della ragione e della libert࠯ra anche in modo politicamente reale. L'Europa dell'Illuminismo, in un primo momento, ha guardato affascinata a questi avvenimenti, ma di fronte ai loro sviluppi ha poi dovuto riflettere in modo nuovo su ragione e libert஠Significativi per le due fasi della ricezione di ciࣨe era avvenuto in Francia sono due scritti di Immanuel Kant, in cui egli riflette sugli eventi. Nel 1792 scrive l'opera: 쩾Der Sieg des guten Prinzips 岠das b㥠und die Gr䵮g eines Reichs Gottes auf Erden 茡 vittoria del principio buono su quello cattivo e la costituzione di un regno di Dio sulla terra). In essa egli dice: 鬠passaggio graduale dalla fede ecclesiastica al dominio esclusivo della pura fede religiosa costituisce l'avvicinamento del regno di Dio ᠨref="#nota17it" name="nota17i">[17]. Ci dice anche che le rivoluzioni possono accelerare i tempi di questo passaggio dalla fede ecclesiastica alla fede razionale. Il ⥧no di Dio ऩ cui Ges꡶eva parlato ha qui ricevuto una nuova definizione e assunto anche una nuova presenza; esiste, per cos젤ire, una nuova ᴴesa immediata ੬ ⥧no di Dio Ჲiva lࠤove la 楤e ecclesiastica 橥ne superata e rimpiazzata dalla 楤e religiosa ඡle a dire dalla semplice fede razionale. Nel 1794, nello scritto 쩾Das Ende aller Dinge 茡 fine di tutte le cose) appare un'immagine mutata. Ora Kant prende in considerazione la possibilitࠣhe, accanto alla fine naturale di tutte le cose, se ne verifichi anche una contro natura, perversa. Scrive al riguardo: 㥠il cristianesimo un giorno dovesse arrivare a non essere pi䥧no di amore [...] allora il pensiero dominante degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un'opposizione contro di esso; e l'anticristo [...] inaugurerebbe il suo, pur breve, regime (fondato presumibilmente sulla paura e sull'egoismo). In seguito, per젰oich頩l cristianesimo, pur essendo stato destinato ad essere la religione universale, di fatto non sarebbe stato aiutato dal destino a diventarlo, potrebbe verificarsi, sotto l'aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose ᠨref="#nota18it" name="nota18i">[18]. 19. Breviter mentem conicere debemus duo in stadia essentialia politicae effectionis huius ipsius spei, quoniam magni sunt momenti christianae in spei itinere, ut bene comprehendatur atque etiam permaneat. Imprimis exstat Gallica eversio tamquam conatus restituendi dominatus rationis libertatisque tunc vero etiam modo politica via solido. Illuminismi Europa primis temporibus stupescens hos eventus respexit, attamen propter eorum progressionem debuit aliter iam ponderare rationem ac libertatem. His in duobus gradibus quibus omne id quod in Gallia evenerat recipiebatur, plurimum significant scriptiones binae Emmanuelis Kant ubi eosdem perpendit eventus. Anno MDCCXCII opus scripsit: Der Sieg des guten Prinzips 岠das B㥠und die Gr䵮g eines Reiches Gottes auf Erden (Victoria principii boni de malo et cuiusdam Regni Dei in terris constitutio). Ibi ipse asseverat: 쥮tior transitus ab ecclesiastica fide ad dominationem totam purae fidei religiosae efficit Regni Dei adventum 졠href="#nota17lt" name="nota17l">[17] Dicit enim rerum eversiones accellerare posse hunc transitum ab ecclesiastica fide ad fidem rationalem. ⥧num Dei ೵per quo erat Iesus locutus novam hic induit definitionem novamque sumit praesentiam; ut ita dicamus exsistit nova ꥸspectatio subita ૠRegnum Dei 寠pervenit ubi 壣lesiastica fides 궩ncitur ac substituitur ⥬igiosa fide ਯc est simplici fide rationali. Anno autem MDCCXCV in scriptione illius Das Ende aller Dinge (Omnium rerum finis) mutata quaedam emergit imago. Fieri enim posse arbitratur Kant ut iuxta naturalem omnium rerum terminum, alius etiam deprehendatur contra naturam, id est perversus. Hac de re scribit: 㩠res christiana olim aliquando iam non digna fuerit amore [...] tunc dominans hominum cogitatio fieri debebit de aliqua repudiatione et repugnantia contra eam; inaugurabit anti-christus [...] suum quantumvis breve regimen (conditum 崠praesumitur 鮠timore et egoismo). Postmodum tamen, quoniam christianum nomen, quod etiam destinatum est uti religio universalis, revera non adiutum esset ut id fieret, aspectu morali evadere poterit finis omnium rerum (perversus) 졠href="#nota18lt" name="nota18l">[18]
20. L'Ottocento non venne meno alla sua fede nel progresso come nuova forma della speranza umana e continuࡠconsiderare ragione e libertࠣome le stelle-guida da seguire sul cammino della speranza. L'avanzare sempre pi楬oce dello sviluppo tecnico e l'industrializzazione con esso collegata crearono, tuttavia, ben presto una situazione sociale del tutto nuova: si formଡ classe dei lavoratori dell'industria e il cosiddetto ಯletariato industriale ଥ cui terribili condizioni di vita Friedrich Engels nel 1845 illustr੮ modo sconvolgente. Per il lettore doveva essere chiaro: questo non pu࣯ntinuare; 荊necessario un cambiamento. Ma il cambiamento avrebbe scosso e rovesciato l'intera struttura della societࠢorghese. Dopo la rivoluzione borghese del 1789 era arrivata l'ora per una nuova rivoluzione, quella proletaria: il progresso non poteva semplicemente avanzare in modo lineare a piccoli passi. Ci voleva il salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo richiamo del momento e, con vigore di linguaggio e di pensiero, cercऩ avviare questo nuovo passo grande e, come riteneva, definitivo della storia verso la salvezza 楲so quello che Kant aveva qualificato come il ⥧no di Dio ųsendosi dileguata la verit͊dell'aldilଠsi sarebbe ormai trattato di stabilire la veritࠤell'aldiqu஠La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica. Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene pi㥭plicemente dalla scienza, ma dalla politica 䡠una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della societࠥd indica cos젬a strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose. Con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, Marx ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacitࠡnalitica le vie verso la rivoluzione  solo teoricamente: con il partito comunista, nato dal manifesto comunista del 1848, l'ha anche concretamente avviata. La sua promessa, grazie all'acutezza delle analisi e alla chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale, ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo. La rivoluzione poi si 蠡nche verificata nel modo pi⡤icale in Russia. 20. Saeculum XIX suam non fefellit fidem de progressione veluti nova humanae spei figura et rationem libertatemque reputare perrexit quemadmodum astra ductoria quae in spei itinere erant sequenda. Velocior usque auctus technicae progressionis atque industriarum transformationis cum ea coniunctae generaverunt tamen satis celeriter condicionem omnino novam status socialis: ordo enim natus est opificum industriae et sic dictus 鮤ustrialis proletariatus ഥrrificas cuius vitae condiciones Fridericus Engels anno MDCCCXLV turbanti modo descripsit. Legentibus hoc clarum esse debebat: istud prosequi non potest; commutatio pernecessaria est. Verumtamen haec mutatio concussura erat immo et totam structuram eversura societatis altioris. Post illius medii ordinis motum anno MDCCLXXXIX iam tempus advenerat novae seditionis, videlicet proletarianae. Haudquaquam poterat simpliciter technicus progressus parvis passibus lineari modo procedere. Saltus poscebatur alicuius revolutionis. Hanc temporis illius appellationem suscepit Carolus Marx atque linguae cogitationisque vibratione novum hunc magnum passum provehere studuit et, uti opinabatur, decretorium in annalibus versus salutem 㣩licet ad id quod 䥩 regnum 䥳ignaverat Kant. Cum veritas temporis post mortem esset diluta, iam causa futura esset veritatem statuendi citra et ante illum limitem. Censura caeli in terrae transit censuram, theologiae reprehensio in politicae rationis vituperationem. Progressus enim ad meliora, ad mundum perpetuo bonum, non iam simpliciter ex scientia nascitur, verum ex politica ratione ௬itica via scientifico modo ordinata, quae historiae ac societatis structuram agnoscere valet sicque semitam indicat ad rerum conversionem, id est ad omnium rerum immutationem. Perdiligenter omnino, etiamsi solummodo una ex parte, Marx condicionem sui temporis descripsit atque acumine analytico vias ad rerum eversionem illustravit  modo scientia: per communistarum factionem, ex communistarum praeconio anni MDCCCXLVIII natam, eam definite incohavit. Eius promissio, propter accuratas investigationes perspicuamque instrumentorum significationem ad radicitus effectam mutationem, allexit et usque semper denuo allicit. Rerum deinde conversio extremo maxime modo in Russia etiam evenit.
21. Ma con la sua vittoria si 蠲eso evidente anche l'errore fondamentale di Marx. Egli ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo. Egli supponeva semplicemente che con l'espropriazione della classe dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione si sarebbe realizzata la Nuova Gerusalemme. Allora, infatti, sarebbero state annullate tutte le contraddizioni, l'uomo e il mondo avrebbero visto finalmente chiaro in se stessi. Allora tutto avrebbe potuto procedere da s頳ulla retta via, perch鍊tutto sarebbe appartenuto a tutti e tutti avrebbero voluto il meglio l'uno per l'altro. Cos쬠dopo la rivoluzione riuscita, Lenin dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessun'indicazione sul come procedere. S쬍 egli aveva parlato della fase intermedia della dittatura del proletariato come di una necessitࠣhe, per젩n un secondo tempo da s頳i sarebbe dimostrata caduca. Questa 桳e intermedia 졠conosciamo benissimo e sappiamo anche come si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di s頵na distruzione desolante. Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo 䩠questi, infatti, non doveva piꥳserci bisogno. Che egli di ciயn dica nulla, 蠬ogica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta pi鮠profondit஠Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libert஠Ha dimenticato che la libert࠲imane sempre libertଠanche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore 蠩l materialismo: l'uomo, infatti, non 蠳olo il prodotto di condizioni economiche e non 蠰ossibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli. 21. Sed cum eius victoria clare etiam animadversus est praecipuus Marx error. Ipse perdiligenter significavit quomodo conversio efficienda sit. Nobis autem non dixit quomodo res postea procedere debuerint. Pro certo plane habebat, ordine civium dominante suis rebus spoliatis, auctoritateque politica eversa et instrumentis productionis socialem ad rationem eversis Novam Ierusalem effectum iri. Tunc enim omnes contradictiones abiissent; homo eiusque mundus denique in se clarum vidissent. Tum cuncta procedere recta via suis viribus potuissent, quoniam omnia ad omnes pertinerent et omnes res optimas alter alteri cupivissent. Sic, post eversionem feliciter factam, debuit intellegere Lenin in magistri scriptis nullum repertum esse indicium quomodo esset procedendum. Ipse enim de intervallo quodam erat locutus dictaturae proletariatus veluti necessitate quae tamen deinceps ex se demonstratura se erat inutilem. Hanc 鮴ermediam aetatem ﰴime novimus et scimus quomodo deinde etiam ea augesceret, sanum ad lucem mundum non adferens, sed a tergo devastantem relinquens deletionem. Marx non solum necessaria novi mundi excogitare elementa et instituta omisit 詳 enim ipsis iam opus esse non debebat. Quod de hoc ipse nihil docet, clare ex sua rerum dispositione oritur. Altius inhaeret error eius. Ipse oblitus est hominem manere semper hominem. Hominem oblitus est atque eius oblitus est libertatem. Oblitus est libertatem manere semper libertatem, etiam pro malo. Censebat, semel ordinata oeconomia, omnia ordinata esse futura. Eius verus error est materialismus: homo, revera, non est tantummodo condicionum oeconomicarum fructus eumque resanare non possumus solummodo ex externo prolixas creantes condiciones oeconomicas.
22. Cos젣i troviamo nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? Ƞnecessaria un'autocritica dell'et࠭oderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell'autocritica dell'et࠭oderna confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici. Su questo si possono qui tentare solo alcuni accenni. Innanzitutto c'蠤a chiedersi: che cosa significa veramente ಯgresso ࣨe cosa promette e che cosa non promette? Gi࠮el XIX secolo esisteva una critica alla fede nel progresso. Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha formulato la problematicitࠤella fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo 謠di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente l'ambiguitࠤel progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilit࠰er il bene, ma apre anche possibilitࠡbissali di male 갯ssibilitࠣhe prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non 蠵n progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo. 22. Ita iterum aliud quiddam interrogatur: quid sperare possumus? Necesse quidem est ut moderna aetas se ipsa iudicet, dialogum instituens cum christianismo eiusque spei notione. In eiusmodi dialogo etiam christiani, in circumstantiis suarum cognitionum suarumque peritiarum, discernere iterum debent in quo vere propria constet spes, quid habeant ut mundo offerant et quid autem offerre non possint. Oportet ad sui ipsius iudicium modernae aetatis etiam sui ipsius iudicium confluat christianismi moderni, cui semper iterum discernendum est ad se ipsum intellegendum, initium a propriis capiens fundamentis. Hac de re hic tantummodo quaedam summatim praebere possumus. Ante omnia quaerendum est: quid vere sibi vult ಯgressio ౵id promittit et quid non promittit? Iam XIX saeculo vigebat reprehensio fiduciae progressui datae. XX saeculo Theodorus W. Adorno quaestionem fiduciae progressioni traditae efficaci significavit modo: progressio, si diligentius inspiceretur, ea esset quae a funda ad ingens pyrobolum pervenit. Nunc sane haec est progressionis pars quae non est celanda. Aliis verbis: evidens redditur duplex progressionis ratio. Sine dubio, ea novas praebet boni possibilitates, sed etiam ingentes patefacit possibilitates mali 갯ssibilitates quae antea non exsistebant. Nos omnes testes facti sumus quo pacto in manibus erroneis progressio fieri possit et facta sit reapse terribilis in malo progressio. Si technicae progressioni non respondet in ethica formatione hominis progressio, in corroborando homine interiore (cfr Eph 3,16; 2 Cor 4,16), tunc ea non est progressio, sed quaedam in hominem atque in mundum minatio.
23. Per quanto riguarda i due grandi temi ⡧ione 堫 libert࠻, qui possono essere solo accennate quelle domande che sono con essi collegate. S쬠la ragione 蠩l grande dono di Dio all'uomo, e la vittoria della ragione sull'irrazionalit͊蠡nche uno scopo della fede cristiana. Ma quand'蠣he la ragione domina veramente? Quando si 蠳taccata da Dio? Quando 蠤iventata cieca per Dio? La ragione del potere e del fare 蠧iࠬa ragione intera? Se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanitଠallora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo cos젤iventa una ragione veramente umana. Diventa umana solo se 蠩n grado di indicare la strada alla volontଠe di questo 蠣apace solo se guarda oltre se stessa. In caso contrario la situazione dell'uomo, nello squilibrio tra capacit࠭ateriale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato. Cos젩n tema di libert଍ bisogna ricordare che la libert࠵mana richiede sempre un concorso di varie libert஠Questo concorso, tuttavia, non pu಩uscire, se non 蠤eterminato da un comune intrinseco criterio di misura, che 蠦ondamento e meta della nostra libert஠Diciamolo ora in modo molto semplice: l'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza. Visti gli sviluppi dell'et࠭oderna, l'affermazione di san Paolo citata all'inizio (cfr Ef 2,12) si rivela molto realistica e semplicemente vera. Non vi 蠤ubbio, pertanto, che un ⥧no di Dio ⥡lizzato senza Dio 宠regno quindi dell'uomo solo 㩠risolve inevitabilmente nella 橮e perversa 䩠tutte le cose descritta da Kant: l'abbiamo visto e lo vediamo sempre di nuovo. Ma non vi 蠮eppure dubbio che Dio entra veramente nelle cose umane solo se non 蠳oltanto da noi pensato, ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla. Per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione. 23. Quod ad duo pertinet magna argumenta ⡴ionis 崠쩢ertatis ਩c possunt solummodo hae commemorari quaestiones quae cum illis nectuntur. Revera ratio magnum est homini donum Dei, atque victoria rationis super irrationalitatem propositum est etiam fidei christianae. Sed quando ratio vere imperat? Quando a Deo seiungitur? Quando pro Deo caeca est facta? Ratio dominandi et operandi iam estne tota ratio? Si progressio ut vere sit progressio morali indiget humanitatis proventu, ratio igitur dominandi et operandi instanter per apertionem rationis ad salutiferas vires fidei similiter est integranda, ad discrimen inter bonum et malum. Hoc modo tantum ratio fit vere humana. Fit humana solummodo si apta est quae viam voluntati significet, et ad hoc idonea est solummodo si ultra se ipsam inspicit. Alioquin condicio hominis, cum inter materialem facultatem et iudicii cordis absentiam sit disparitas, illi et creato comparat periculum. Hoc modo in argumento libertatis, oportet memoretur humanam libertatem concursum semper poscere variarum libertatum. Hic concursus tamen suum non potest assequi propositum, si communi non decernitur intrinseca norma mensurae, quae fundamentum est nostrae libertatis et finis. Id nunc simplici dicamus modo: homo indiget Deo, aliter sine spe manet. Progressionibus inspectis aetatis modernae, sententia sancti Pauli principio memorata (Eph 2,12) perquam realis apparet et vera. Nullum igitur est dubium quin ⥧num Dei ᵯd sine Deo institutum est ⥧num igitur solius hominis essario ad finem 帩tus perversi ﭮium rerum a Kant descripti perveniat: id vidimus et semper iterum videmus. Hoc idem dici potest: Deus vere in humanas ingreditur res solummodo si non est a nobis solummodo cogitatus, sed si Ipse nobis occurrit nobiscumque loquitur. Hanc ob rem ratio indiget fide ut ipsa in se tota esse possit: ratio ac fides inter se poscuntur ut veram suam compleant naturam suumque munus.
La vera fisionomia della speranza cristiana Vera christianae spei effigies
24. Chiediamoci ora di nuovo: che cosa possiamo sperare? E che cosa non possiamo sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile 荊possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre piᶡnzate, si dࠣhiaramente una continuitࠤel progresso verso una padronanza sempre pi꧲ande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'蠵na simile possibilitࠤi addizione per il semplice motivo che la libertࠤell'uomo 蠳empre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente gi࠰rese per noi da altri 鮠tal caso, infatti, non saremmo pi쩢eri. La libert࠰resuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanit஠Ma possono anche rifiutarlo, perch頥sso non puࡶere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell'umanit࠮on 荊presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertࠥ come possibilit࠰er essa. Ma ci೩gnifica che:

a) il retto stato delle cose umane, il benessere morale del mondo non puୡi essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertࠤell'uomo. Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunit࠳ono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione all'ordinamento comunitario. La libert࠮ecessita di una convinzione; una convinzione non esiste da s鬠ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente.

b) Poich頬'uomo rimane sempre libero e poich頬a sua libertࠨ sempre anche fragile, non esister࠭ai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libert࠵mana. La libertࠤeve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da s鮠Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata ⵯna 㯮dizione del mondo, sarebbe negata la libertࠤell'uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone.
 
24. Iterum nos ipsos interrogemus: quid sperare possumus? Et quid sperare non possumus? Ante omnia adfirmare debemus additionalem progressionem tantummodo in materiali sensu fieri posse. Hic, augescente cognitione structurarum materiae atque in congruentia cum inventionibus in dies progredientibus, clare quaedam consecutio datur progressionis ad maiorem usque naturae dominationem. In conscientiae ethicae ambitu decisionisque moralis deest similis additionis possibilitas eo quod humana libertas semper nova est atque iterum iterumque sua debet ferre iudicia. Numquam ab aliis omnino pro nobis iam pronuntiata sunt 㩍 ita esset, nos revera liberi haud essemus. Libertas postulat ut in praecipuis deliberationibus singuli homines, singulae generationes novum constituant initium. Utique novae generationes super cognitiones et peritias aedificare possunt illorum qui eas praecesserunt, sicut etiam accipere possunt de morali thesauro totius humanitatis. Sed etiam eum respuere possunt, quia is eandem non potest habere materialium inventionum perspicuitatem. Moralis thesaurus humanitatis non adest sicut instrumenta adsunt quae adhibentur; is veluti invitatio exstat ad libertatem atque possibilitas pro ea. Sed hoc quae sequuntur significat:


a) Rectus humanarum rerum status, moralis mundi salus numquam simpliciter per structuras collocari in tuto potest, quamvis validae eae sint. Eiusmodi structurae non solum magni sunt ponderis, sed necessariae; eae tamen non possunt neque debent hominis libertatem delere. Etiam optimae structurae tantummodo operantur si quadam in communitate validae sunt persuasiones quae aptae sint ad rationem praebendam hominibus ut libere communitatis ordini haereant. Libertas quadam persuasione indiget; persuasio quaedam ex se non exsistit, sed semper rursus communiter est acquirenda.


b) Cum homo semper liber maneat atque cum eius libertas semper fragilis sit, numquam hoc in mundo regnum boni vigebit definitive consolidatum. Qui meliorem promittit mundum, certo usque mansurum, falsum pollicetur; hic enim humanam ignorat libertatem. Libertas semper denuo est pro bono acquirenda. Libera bono adhaesio numquam simpliciter per se exsistit. Si structurae adessent quae irrevocabili modo quandam determinatam ⯮am �di condicionem inducerent, praecideretur hominis libertas, et hanc ob rem denique nullo modo bonae essent structurae.
25. Conseguenza di quanto detto 蠣he la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane 蠣ompito di ogni generazione; non 蠭ai compito semplicemente concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare il proprio contributo per stabilire convincenti ordinamenti di libertࠥ di bene, che aiutino la generazione successiva come orientamento per l'uso retto della libert࠵mana e diano cos쬠sempre nei limiti umani, una certa garanzia anche per il futuro. In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L'uomo non puୡi essere redento semplicemente dall'esterno. Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell'et࠭oderna a lui ispirata, nel ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza 荊fallace. La scienza pu࣯ntribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanit஠Essa perవ࡮che distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D'altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull'individuo e sulla sua salvezza. Con ciਡ ristretto l'orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito ᮣhe se resta grande ciࣨe ha continuato a fare nella formazione dell'uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti. 25. Ex dictis sententiis eruitur usque novum onerosum opus explorandi rectum humanarum rerum ordinem ad singulas generationes pertinere; numquam est opus omnino conclusum. Attamen quaeque generatio propriam etiam ferre debet opem ad persuasibiles libertatis bonique ordines statuendos, qui sequentem iuvent generationem veluti indices ad rectum humanae libertatis usum atque hoc modo praestent, semper humanos intra limites, firmam etiam futurum in tempus fidem. Aliis verbis: bonae structurae iuvant, sed solae non sufficiunt. Homo numquam simpliciter extrinsecus redimi potest. Franciscus Bacone et asseclae cogitationi recentioris aetatis adhaerentes ab eo inspiratae, cum censerent per scientiam redimi hominem, errabant omnino. Eiusmodi exspectatione nimis postulatur a scientia: haec spei species fallax est. Scientia multum conferre potest ad humaniores mundum et hominem reddendos. Ea tamen mundum et hominem etiam delere potest, si viribus non temperatur quae extra eam inveniuntur. Ceterum animadvertendum etiam est christianismum recentis aetatis, prae rebus faustis scientiae in progrediente mundi constitutione, se potissimum ad singulam tantummodo personam convertisse eiusque salutem. Hoc modo confinia spei suae coartavit ac ne magnitudinem quidem suae missionis recognovit 쩣et magnum sit id quod facere in homine instituendo perrexit atque in curandis infirmis et patientibus.
26. Non 蠬a scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciඡle gi࠮ell'ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello 蠵n momento di ⥤enzione 㨥 d࠵n senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderࠡnche conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. Ƞun amore che resta fragile. Puॳsere distrutto dalla morte. L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire:  morte n頶ita, n頡ngeli n頰rincipati, n頰resente n頡vvenire, n頰otenze, n鍊altezze n頰rofonditଠn頡lcun'altra creatura potr࠭ai separarci dall'amore di Dio, che 蠩n Cristo Gesயstro Signore 輩>Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora 㯬tanto allora ꬧uomo 蠫 redento ౵alunque cosa gli accada nel caso particolare. Ƞquesto che si intende, quando diciamo: Ges㲩sto ci ha ⥤enti Хr mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio 䩠un Dio che non costituisce una lontana 㡵sa prima 䥬 mondo, perch頩l suo Figlio unigenito si 蠦atto uomo e di Lui ciascuno puऩre: 橶o nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me 輩>Gal 2,20). 26. Non est scientia quae hominem redimit. Homo per caritatem redimitur. Id valet iam in ambitu mere mundiali. Cum quis sua in vita magnum amorem experitur, illud est ⥤emptionis 䥭pus, quod novam eius vitae offert significationem. Sed cito ille intelleget quoque amorem sibi donatum, per se ipsum, suae vitae quaestionem non absolvere. Est amor qui fragilis manet. Potest morte deleri. Homo absoluto indiget amore. Indiget hac certitudine vi cuius ille dicere potest: ue mors neque vita neque angeli neque principatus neque instantia neque futura neque virtutes neque altitudo neque profundum neque alia quaelibet creatura poterit nos separare a caritate Dei, quae est in Christo Iesu Domino nostro 輩>Rom 8,38-39). Si hic exsistit absolutus amor sua cum absoluta certitudine, tunc 㯬ummodo tunc 语o ⥤emptus 峴, quodcumque ei peculiari in casu obveniat. Id intellegitur cum dicimus: Iesus Christus nos 겥demit Хr Ipsum facti sumus certi de Deo 䥠Deo qui remotam quandam non constituit mundi ಩mam causam ౵oniam eius Filius unigenitus homo factus est, de quo unusquisque dicere potest: 鮠fide vivo Filii Dei, qui dilexit me et tradidit seipsum pro me 輩>Gal 2,20).
27. In questo senso 蠶ero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo 蠳enza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell'uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, puॳsere solo Dio 鬠Dio che ci ha amati e ci ama tuttora 㩮o alla fine ૠfino al pieno compimento 裦r Gv 13,1 e 19, 30). Chi viene toccato dall'amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe 橴a ïmincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la 橴a eterna 栬a vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza 蠳emplicemente vita. Ges㨥 di s頨a detto di essere venuto perch鍊noi abbiamo la vita e l'abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi 橴a ૠQuesta 蠬a vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Ges㲩sto 輩>Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in s頤a soli e neppure solo da s麠essa 蠵na relazione. E la vita nella sua totalitࠨ relazione con Colui che 蠬a sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che 蠬a Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora 궩viamo 쯴d> 27. Hoc sensu verum est illum qui Deum ignorat, quamvis multiplicem spem habeat, in intimo sine spe esse, sine illa magna spe quae totam sustinet vitam (cfr Eph 2,12). Vera, magna hominis spes, quae omnes praeter deceptiones perstat, potest esse solummodo Deus 䥵s qui nos dilexit et nos usque diligit 鮍 finem ૠusque ad plenam consummationem 裦r Io 13,1 et 19,30). Qui amore tangitur, percipere incipit quid proprie 橴a 㩴. Percipere incipit quid sit vox spei quam in ritu Baptismatis reperimus: ex fide ᥴernam vitam ꥸspecto 楲am vitam quae, totaliter et sine minationibus, tota in sua plenitudine omnino est vita. Iesus qui de se ipso dixit se venisse ut vitam nos haberemus et abundantius haberemus (cfr Io 10,10), explanavit etiam nobis quid sibi vult 橴a ૠHaec est autem vita aeterna, ut cognoscant te solum verum Deum et, quem misisti, Iesum Christum 輩>Io 17,3). Vero verbi sensu vita non invenitur in se tantum neque solummodo ex se: quaedam ipsa est necessitudo. Et vita sua in universitate necessitudo est cum Illo qui fons est vitae. Si necessitudine fruimur cum Illo qui non moritur, qui ipsa est Vita ipseque Amor, tunc sumus in vita. Tunc 橶imus 쯴d>
28. Ma ora sorge la domanda: in questo modo non siamo forse ricascati nuovamente nell'individualismo della salvezza? Nella speranza solo per me, che poi, appunto, non 蠵na speranza vera, perch頤imentica e trascura gli altri? No. Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Ges栤a soli e con le sole nostre possibilit࠮on ci arriviamo. La relazione con Gesథr젨 una relazione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi (cfr 1 Tm 2,6). L'essere in comunione con Ges㲩sto ci coinvolge nel suo essere ॲ tutti ஥ fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l'insieme. Vorrei, in questo contesto, citare il grande dottore greco della Chiesa, san Massimo il Confessore (液), il quale dapprima esorta a non anteporre nulla alla conoscenza ed all'amore di Dio, ma poi arriva subito ad applicazioni molto pratiche: 㨩 ama Dio non pu಩servare il denaro per s鮍 Lo distribuisce in modo 鶩no' [...] nello stesso modo secondo la misura della giustizia ᠨref="#nota19it" name="nota19i">[19]. Dall'amore verso Dio consegue la partecipazione alla giustizia e alla bontࠤi Dio verso gli altri; amare Dio richiede la libertࠩnteriore di fronte ad ogni possesso e a tutte le cose materiali: l'amore di Dio si rivela nella responsabilit࠰er l'altro[20]. La stessa connessione tra amore di Dio e responsabilit࠰er gli uomini possiamo osservare in modo toccante nella vita di sant'Agostino. Dopo la sua conversione alla fede cristiana egli, insieme con alcuni amici di idee affini, voleva condurre una vita che fosse dedicata totalmente alla parola di Dio e alle cose eterne. Intendeva realizzare con valori cristiani l'ideale della vita contemplativa espressa dalla grande filosofia greca, scegliendo in questo modo 졠parte migliore 裦r Lc 10,42). Ma le cose andarono diversamente. Mentre partecipava alla Messa domenicale nella citt࠰ortuale di Ippona, fu dal Vescovo chiamato fuori dalla folla e costretto a lasciarsi ordinare per l'esercizio del ministero sacerdotale in quella citt஠Guardando retrospettivamente a quell'ora egli scrive nelle sue Confessioni: ᴴerrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato la fuga nella solitudine. Ma tu me l'hai impedito e mi hai confortato con la tua parola: ꃲisto 蠭orto per tutti, perch頱uelli che vivono non vivano piॲ se stessi, ma per colui che 蠭orto per tutti 裦r 2 Cor 5,15) ᠨref="#nota21it" name="nota21i">[21]. Cristo 蠭orto per tutti. Vivere per Lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo 峳ere per 쯴d> 28. Nunc interrogatio oritur: nonne hoc modo fortasse incidimus iterum in salutis individualismum, ut dicunt? In spe scilicet tantummodo pro me quae deinde, reapse, non est spes vera, quia alios obliviscitur et neglegit? Non. Necessitudo cum Deo per communionem cum Iesu instituitur  soli atque tantum cum nostris facultatibus illuc non pervenimus. Necessitudo tamen cum Iesu necessitudo est cum Illo, qui dedit in redemptionem semetipsum pro omnibus nobis (cfr 1 Tim 2,6). In communione esse cum Iesu Christo nos esse ಯ omnibus 魰licat, hoc nostrum facit essendi modum. Ille nos pro aliis obligat, sed solummodo in communione cum Illo nos pro aliis vere esse possumus, pro omnibus simul sumptis. Velimus hac de re praeclarum memorare Graecum Ecclesiae doctorem, sanctum Maximum Confessorem (䃌XII), qui primum adhortatur ne ullam rem cognitioni amorique Dei anteponamus, sed deinde statim ad consecutiones pervenit et usus: ᵩ Deum diligit [...], pecunias servare non potest, sed divine eas dispensat [...] aequaliter pro iustae necessitatis modo distribuit 졠href="#nota19lt" name="nota19l">[19] Ex amore in Deum participatio oritur iustitiae bonitatisque Dei erga alios; Deum amare interiorem postulat libertatem prae omni possessione omnibusque rebus materialibus: amor Dei in responsalitate patefit de alio.[20] Eundem inter amorem Dei et responsalitatem de hominibus nexum videre possumus permoventi modo in vita sancti Augustini. Suam post conversionem in christianam fidem ille, una cum nonnullis amicis similis mentis, ducere voluit vitam quae tota verbo Dei dicaretur aeternisque rebus. In animo habuit ad finem adducere christianis cum bonis contemplativae specimen vitae significatae a magna Graeca philosophia, eligens hoc modo ﰴimam partem 裦r Lc 10,42). Sed res aliter evenit. Cum die Dominico Missae interesset in Hipponensi urbe portu instructa, ab Episcopo ex multitudine est vocatus atque ordinari ad ministerium sacerdotale illa in urbe gerendum coactus. Postea illam respiciens horam suis in Confessionibus scribit: 㯮territus peccatis meis et mole miseriae meae agitaveram corde meditatusque fueram fugam in solitudinem, sed prohibuisti me et confirmasti me dicens: 䥯 Christus pro omnibus mortuus est, ut qui vivunt iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est련cfr 2 Cor 5,15).[21] Christus pro omnibus mortuus est. Vivere Ei significat se sinere implicari suo ꡣtu essendi pro alio 쯴d>
29. Per Agostino ci೩gnific൮a vita totalmente nuova. Egli una volta descrisse cos젬a sua quotidianitຠ㯲reggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori, guardarsi dai maligni, istruire gli ignoranti, stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, moderare gli ambiziosi, incoraggiare gli sfiduciati, pacificare i contendenti, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e [ahim衝 amare tutti ᠨref="#nota22it" name="nota22i">[22]. 蠩l Vangelo che mi spaventa ᠨref="#nota23it" name="nota23i">[23] ᵥllo spavento salutare che ci impedisce di vivere per noi stessi e che ci spinge a trasmettere la nostra comune speranza. Di fatto, proprio questa era l'intenzione di Agostino: nella situazione difficile dell'impero romano, che minacciava anche l'Africa romana e, alla fine della vita di Agostino, addirittura la distrusse, trasmettere speranza 졠speranza che gli veniva dalla fede e che, in totale contrasto col suo temperamento introverso, lo rese capace di partecipare decisamente e con tutte le forze all'edificazione della citt஠Nello stesso capitolo delle Confessioni, in cui abbiamo or ora visto il motivo decisivo del suo impegno ॲ tutti १li dice: Cristo ꩮtercede per noi, altrimenti dispererei. Sono molte e pesanti le debolezze, molte e pesanti, ma piᢢondante 蠬a tua medicina. Avremmo potuto credere che la tua Parola fosse lontana dal contatto dell'uomo e disperare di noi, se questa Parola non si fosse fatta carne e non avesse abitato in mezzo a noi ᠨref="#nota24it" name="nota24i">[24]. In virt䥬la sua speranza, Agostino si 蠰rodigato per la gente semplice e per la sua cittࠖ ha rinunciato alla sua nobilt࠳pirituale e ha predicato ed agito in modo semplice per la gente semplice. 29. Id nempe in Augustinum vitam prorsus novam intulit. Ille aliquando ita propriam descripsit cotidianam vitam: 㯲ripiendi sunt inquieti, pusillanimes consolandi, infirmi suscipiendi, contradicentes redarguendi, insidiantes cavendi, imperiti docendi, desidiosi excitandi, contentiosi cohibendi, superbientes reprimendi, desperantes erigendi, litigantes pacandi, inopes adiuvandi, oppressi liberandi, boni approbandi, mali tolerandi, [heu!] omnes amandi 졠href="#nota22lt" name="nota22l">[22] 嶡ngelium me terret 졠href="#nota23lt" name="nota23l">[23] 鬬a salutaris terrificatio quae nobis impedit ne pro nobis ipsis vivamus quaeque nos ad transmittendam nostram communem spem incitat. Revera hoc fuit Augustini consilium: difficili in condicione imperii Romani quae etiam Africae Romanae minabatur et, in fine Augustini vita, immo eam delevit, spem transmittendi 㰥m scilicet quae ei a fide manabat quaeque, indoli ipsius introversae omnino obsistens, eum idoneum reddidit qui firmiter omnibusque viribus aedificandae urbi operam daret. Eodem in Confessionum capite, in quo paulo ante praecipuam rationem sui studii vidimus ಯ omnibus ੬le ait: Christus 鮴erpellat pro nobis; alioquin desperarem. Multi enim et magni sunt idem languores, multi sunt et magni; sed amplior est medicina tua. Potuimus putare Verbum tuum remotum a coniunctione hominis et desperare de nobis, nisi caro fieret et habitaret in nobis 졠href="#nota24lt" name="nota24l">[24] Vi suae spei, Augustinus in simplicem plebem suamque urbem multum contulit 갲opriam posthabuit spiritalem nobilitatem atque simplici modo pro simplici populo praedicavit et est operatus.
30. Riassumiamo ciࣨe finora 蠥merso nello sviluppo delle nostre riflessioni. L'uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze ੹ piccole o pi粡ndi 䩶erse nei diversi periodi della sua vita. A volte pu೥mbrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. Nella giovent൲ essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell'uno o dell'altro successo determinante per il resto della vita. Quando, per젱ueste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciயn era, in realtଠil tutto. Si rende evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che puࢡstargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sar࠳empre pi䩠ci튣he egli possa mai raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato la speranza dell'instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembrava esser diventata realizzabile. Cos젬a speranza biblica del regno di Dio 蠳tata rimpiazzata dalla speranza del regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero ⥧no di Dio ѵesta sembrava finalmente la speranza grande e realistica, di cui l'uomo ha bisogno. Essa era in grado di mobilitare ॲ un certo tempo 䵴te le energie dell'uomo; il grande obiettivo sembrava meritevole di ogni impegno. Ma nel corso del tempo apparve chiaro che questa speranza fugge sempre pi쯮tano. Innanzitutto ci si rese conto che questa era forse una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per me. E bench頩l ॲ tutti 档cia parte della grande speranza ꮯn posso, infatti, diventare felice contro e senza gli altri ⥳ta vero che una speranza che non riguardi me in persona non 蠮eppure una vera speranza. E diventॶidente che questa era una speranza contro la libertଠperch頬a situazione delle cose umane dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera decisione degli uomini che ad essa appartengono. Se questa libertଠa causa delle condizioni e delle strutture, fosse loro tolta, il mondo, in fin dei conti, non sarebbe buono, perch頵n mondo senza libert࠮on 蠰er nulla un mondo buono. Cos쬠pur essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento del mondo, il mondo migliore di domani non puॳsere il contenuto proprio e sufficiente della nostra speranza. E sempre a questo proposito si pone la domanda: Quando 蠫 migliore 鬠mondo? Che cosa lo rende buono? Secondo quale criterio si puඡlutare il suo essere buono? E per quali vie si puಡggiungere questa ⯮t࠻? 30. Summatim tractemus ea quae ex nostris cogitationibus emersa sunt. Homini, succedentibus diebus, multae sunt spes �ores maioresque 桲iae variis in aetatibus propriae vitae. Nonnumquam videri potest unum ex his spei generibus plene ei satisfacere eumque aliis spei generibus non egere. In iuventute spes magni et satiantis amoris esse potest; spes cuiusdam in professione altioris ordinis, alius aliusve exitus pro reliquo vitae tempore decretorius. Cum tamen haec spei specimina ad effectum adducuntur, clare liquet id non fuisse revera totum. Palam etiam animadvertitur hominem spe indigere, quae ultra progrediatur. Hic manifeste patet ei quiddam solum infinitum sufficere posse, aliquid nempe quod semper plus erit quam id quod ille consequi aliquando valet. Hoc sensu recenti aetate spes aucta est instaurationis cuiusdam mundi perfecti qui, ob progressionem scientiae et ob politicam scientifice solidatam, digna videbatur ut ad rem deduceretur. Hoc modo spes biblica regni Dei spe regni hominis est substituta, spe cuiusdam mundi melioris, qui credebatur verum esse ⥧num Dei ȡec videbatur tandem magna spes et cum realitate congruens, qua homo indiget. Ea apta erat ut moveret ॲ aliquod tempus ﭮes hominis vires; magnum propositum dignum videbatur omnis studii. Sed temporis decursu clare patuit hanc spem semper longius usque fugere. Ante omnia intellectum est hanc fortasse spem fuisse hominibus qui post proximum tempus erunt, sed non spem mihi. Et quamvis illud ಯ omnibus ࡲtem habeat magnae spei  possum, revera, adversus alios et sine iisdem felix fieri 楲um manet spem, quae ad me directe non pertinet, ne veram quidem esse spem. Et perspicuum factum est hanc spem fuisse contra libertatem, quia condicio rerum humanarum in singulis generationibus rursus pendet a libera hominum deliberatione qui ad eam pertinent. Si haec libertas, ob condiciones et structuras, esset eis adempta, mundus, definitive, bonus non esset, quia mundus sine libertate nullo modo est mundus bonus. Ita quamvis necessarium sit continuum ad mundum meliorem reddendum studium, melior futuri temporis mundus argumentum esse non potest proprium et nostrae spei sufficiens. Semper hac de re quaestio ponitur: Quando mundus �ior 峴? Quid eum bonum reddit? Qua norma iudicari potest illud 峳e bonum ѵibus viis ad hanc pervenitur ⯮itatem 쯴d>
31. Ancora: noi abbiamo bisogno delle speranze ੹ piccole o pi粡ndi 㨥, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza pu튥ssere solo Dio, che abbraccia l'universo e che puలoporci e donarci ciࣨe, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio 蠩l fondamento della speranza  un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanit࠮el suo insieme. Il suo regno non 蠵n aldilࠩmmaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno 蠰resente lࠤove Egli 荊amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dࠬa possibilit͊di perseverare con ogni sobrietࠧiorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, 蠩mperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, 蠰er noi la garanzia che esiste ciࣨe solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell'intimo aspettiamo: la vita che 蠫 veramente 橴a. Cerchiamo di concretizzare ulteriormente questa idea in un'ultima parte, rivolgendo la nostra attenzione ad alcuni 쵯ghi 䩠pratico apprendimento ed esercizio della speranza. 31. Iterum: opus sunt nobis spes �ores maioresque ᵡe in itinere nos in dies sustineant. Quae tamen non sufficiunt sine illa magna spe, quae cetera omnia superare debet. Haec magna spes Deus tantum esse potest, qui universum amplectitur et nobis offerre et largiri potest quod nos soli assequi non valemus. Utique dono gratificari ad spem pertinet. Deus spei est fundamentum  quilibet deus, sed ille Deus qui humanum possidet vultum quique nos in 橮em dilexit 輩>Io 13,1): singulos scilicet omnes ac totum humanum genus. Eius regnum non est aliquid ultra realitatem fictum, in futuro tempore positum quod numquam adveniet; regnum eius adest ubi Ipse amatur et ubi amor eius nos attingit. Tantummodo amor eius nobis tribuit facultatem cotidie in omni sobrietate perseverandi, quin ammittamus spei impulsum hoc in mundo qui suapte natura est imperfectus. Eodem quidem tempore eius amor nobis offert certitudinem exsistentiae huius quod solum obscuro animi intuitu cernimus et tamen in interioribus praestolamur: illius scilicet vitae quae 楲e 橴a est. In extrema parte hoc amplius explanandum curabimus, dum mentem Nostram ad quaedam ꬯ca 㯮vertimus ubi spes reapse discitur et exercetur.

쵯ghi 䩠apprendimento e di esercizio della speranza

I. La preghiera come scuola della speranza

쯣a ᤠspem discendam et exercendam

I. Oratio tamquam spei schola

32. Un primo essenziale luogo di apprendimento della speranza 蠬a preghiera. Se non mi ascolta pisuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso piࡲlare con nessuno, pisuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c'蠰iꮥssuno che possa aiutarmi 䯶e si tratta di una necessit࠯ di un'attesa che supera l'umana capacitࠤi sperare 姬i puࡩutarmi[25]. Se sono relegato in estrema solitudine...; ma l'orante non 蠭ai totalmente solo. Da tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento, l'indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l'ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consent젤i diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza 䩠quella grande speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta. 32. Primus essentialis locus ad spem discendam est oratio. Si nemo amplius me audit, adhuc Deus me audit. Si cum nullo amplius possum colloqui ac neminem invocare, cum Deo semper loqui possum. Si nemo adest qui me adiuvare potest 굢i de necessitate vel exspectatione agitur, quae humanam sperandi facultatem supergreditur 鰳e me adiuvare potest.[25] Si extremam in solitudinem relegor...; at qui orat numquam est omnino solus. Ex tredecim annis in carcere detentus, ex quibus novem segregatus, Cardinalis NguyꮠVan Thu⮬ recolendae memoriae, reliquit nobis praestantem libellum: Orationes spei. Per tredecim annos carceris, cum animo esset fere omnino confractus, facultas Deum audiendi, cum Ipso loquendi, fecit ut in eo spei virtus cresceret, quae post eius liberationem tribuit illi ut pro hominibus toto in orbe testis fieret spei 鬬ius magnae spei, quae etiam in noctibus solitudinis non occidit.
33. In modo molto bello Agostino ha illustrato l'intima relazione tra preghiera e speranza in una omelia sulla Prima Lettera di Giovanni. Egli definisce la preghiera come un esercizio del desiderio. L'uomo 蠳tato creato per una realtࠧrande ॲ Dio stesso, per essere riempito da Lui. Ma il suo cuore 荊troppo stretto per la grande realtࠣhe gli 蠡ssegnata. Deve essere allargato. ⩮viando [il suo dono], Dio allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l'animo e dilatandolo lo rende pi㡰ace [di accogliere Lui stesso] gostino rimanda a san Paolo che dice di s頤i vivere proteso verso le cose che devono venire (cfr Fil 3,13). Poi usa un'immagine molto bella per descrivere questo processo di allargamento e di preparazione del cuore umano. 㵰poni che Dio ti voglia riempire di miele [simbolo della tenerezza di Dio e della sua bontݮ Se tu, per젳ei pieno di aceto, dove metterai il miele? 鬠vaso, cio蠩l cuore, deve prima essere allargato e poi pulito: liberato dall'aceto e dal suo sapore. Ci಩chiede lavoro, costa dolore, ma solo cos젳i realizza l'adattamento a ciࡠcui siamo destinati[26]. Anche se Agostino parla direttamente solo della ricettivit࠰er Dio, appare tuttavia chiaro che l'uomo, in questo lavoro col quale si libera dall'aceto e dal sapore dell'aceto, non diventa solo libero per Dio, ma appunto si apre anche agli altri. Solo diventando figli di Dio, infatti, possiamo stare con il nostro Padre comune. Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell'angolo privato della propria felicit஠Il giusto modo di pregare 蠵n processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio cos쬠anche capaci per gli uomini. Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a Dio 㨥 cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non pu튰regare contro l'altro. Deve imparare che non puࣨiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento 졠piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze. Deve liberarsi dalle menzogne segrete con cui inganna se stesso: Dio le scruta, e il confronto con Dio costringe l'uomo a riconoscerle pure lui. 쥠inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalla colpe che non vedo లega il Salmista (19[18],13). Il non riconoscimento della colpa, l'illusione di innocenza non mi giustifica e non mi salva, perch頬'intorpidimento della coscienza, l'incapacit͊di riconoscere il male come tale in me, 蠣olpa mia. Se non c'蠄io, devo forse rifugiarmi in tali menzogne, perch頮on c'蠮essuno che possa perdonarmi, nessuno che sia la misura vera. L'incontro invece con Dio risveglia la mia coscienza, perch頥ssa non mi fornisca pi宧autogiustificazione, non sia pi굮 riflesso di me stesso e dei contemporanei che mi condizionano, ma diventi capacitࠤi ascolto del Bene stesso. 33. Sanctus Augustinus intimam conexionem inter orationem et spem in quodam sermone de Epistula Prima Ioannis ornatissime illustravit. Ipse orationem definit tamquam desiderii exercitium. Homo est ad magnam realitatem creatus ᤍ ipsum Deum, ut ab Eo impleretur. Sed cor eius nimis angustum est prae hac magna realitate, cui destinatum est. Extendendum sit oportet. 㩣 Deus [donum sui] differendo extendit desiderium [nostrum]; desiderando extendit animum, extendendo facit capacem [suscipiendi Ipsum] ugustinus remittit ad sanctum Paulum, qui de se dicit extentum vivere in ea quae ventura sunt (cfr Philp 3,13). Splendidam deinde adhibet imaginem ad processum extensionis et praeparationis humani cordis describendum. ൴a quia melle [quod imago est teneritudinis Dei eiusque bonitatis] te vult implere Deus: si aceto plenus es, ubi mel pones? ֡s, id est cor, prius extendendum est ac deinde mundandum: ab aceto eiusque sapore liberandum. Hoc laborem postulat, dolorem requirit, sed solummodo sic accommodatio peragitur ad quam destinati sumus.[26] Etiamsi Augustinus immediate tantum de capacitate Deum suscipiendi loquitur, omnino tamen liquet hominem in hoc labore, in quo ipse ab aceto eiusque aceti sapore se liberat, non solum pro Deo liberum fieri, sed profecto etiam aliis se aperire. Nam solum filii Dei facti, apud communem Patrem nostrum esse possumus. Orare non significat ex historia exire et in angulum privatum propriae felicitatis recedere. Rectus orationis modus est processus interioris purificationis, qui nos capaces efficit pro Deo et ita prorsus etiam capaces pro hominibus. In oratione homo discere debet quid vere ipsi a Deo poscere liceat 걵id Dei dignum sit. Discere debet se contra alium precari non posse. Discere debet se futtilia et commoda, quae illo temporis vestigio ipse cupit, sibi poscere non licere 补c falsa parva spes est, quae eum segregat a Deo. Sua desideria suasque spes mundare debet. Se eripere debet a secretis mendaciis, quibus se ipsum decipit: Deus perspicit ea, atque comparatio cum Deo hominem urget ut ipse quoque ea agnoscat. 岲ores quis intellegit? Ab occultis munda me 豹 [18], 13), orat Psalmista. Culpae ignoratio, innocentiae falsa imago non me excusat nec salvat, quoniam ego ipse noxius sum torporis conscientiae, incapacitatis malum in me uti malum agnoscendi. Si Deus non est, forsitan confugere cogor in huiusmodi mendacia, quia nemo est qui mihi ignoscere possit, nemo qui vera sit rerum mensura. Sed occursus cum Deo excutit meam conscientiam, ut ipsa mihi non sit amplius iustificatione, nec repercussione mei ipsius et coaequalium qui condicionibus me astringunt, sed capacitas fiat ipsum Bonum audiendi.
34. Affinch頬a preghiera sviluppi questa forza purificatrice, essa deve, da una parte, essere molto personale, un confronto del mio io con Dio, con il Dio vivente. Dall'altra, tuttavia, essa deve essere sempre di nuovo guidata ed illuminata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi, dalla preghiera liturgica, nella quale il Signore ci insegna continuamente a pregare nel modo giusto. Il Cardinale Nguyen Van Thuan, nel suo libro di Esercizi spirituali, ha raccontato come nella sua vita c'erano stati lunghi periodi di incapacitࠤi pregare e come egli si era aggrappato alle parole di preghiera della Chiesa: al Padre nostro, all'Ave Maria e alle preghiere della Liturgia[27]. Nel pregare deve sempre esserci questo intreccio tra preghiera pubblica e preghiera personale. Cos젰ossiamo parlare a Dio, cos전io parla a noi. In questo modo si realizzano in noi le purificazioni, mediante le quali diventiamo capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini. Cos젤iventiamo capaci della grande speranza e cos젤iventiamo ministri della speranza per gli altri: la speranza in senso cristiano 蠳empre anche speranza per gli altri. Ed 蠳peranza attiva, nella quale lottiamo perch頬e cose non vadano verso 졍 fine perversa Ƞsperanza attiva proprio anche nel senso che teniamo il mondo aperto a Dio. Solo cos젥ssa rimane anche speranza veramente umana. 34. Ut oratio hanc purificatoriam vim explicet, una ex parte ea sit oportet omnino personalis, collationem mei ipsius constituat cum Deo, cum Deo viventi. Altera ex parte tamen ea debet iterum iterumque conduci et illustrari praestantioribus Ecclesiae sanctorumque precibus, oratione liturgica, in qua Dominus iugiter docet nos congruenter orare. Cardinalis NguyꮠVan Thu⮠suo in libro Exercitiorum spiritalium narravit quomodo eius in vita longa temporis spatia exstiterint incapacitatis orandi et quomodo ipse verbis orationum Ecclesiae adhaeserit: orationibus Pater noster, Ave Maria necnon precibus Liturgiae.[27] Cum oratur, necesse est ut semper hic nexus detur inter communem et personalem orationem. Sic loqui possumus Deo, sic Deus nos alloquitur. Sic purificationes in nobis peraguntur, per quas habiles erimus ad Deum atque idonei efficiemur ad hominibus serviendum. Sic habiles erimus ad magnam spem et spei ministri erimus pro aliis: spes christiano sensu semper est etiam spes pro aliis. Agitur enim de spe actuosa, in qua certamus, ne res ad 갥rversum exitum 䩲igantur. Agitur de spe actuosa hoc quoque sensu ut nos mundum Deo apertum teneamus. Solum ita ea quoque uti spes vere humana permanet.
II. Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza II. Agere et pati tamquam loca ad spem discendam
35. Ogni agire serio e retto dell'uomo 蠳peranza in atto. Lo 蠩nnanzitutto nel senso che cerchiamo cos젤i portare avanti le nostre speranze, pi੣cole o pi꧲andi: risolvere questo o quell'altro compito che per l'ulteriore cammino della nostra vita 蠩mportante; col nostro impegno dare un contributo affinch頩l mondo diventi un po' pi쵭inoso e umano e cos젳i aprano anche le porte verso il futuro. Ma l'impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro dell'insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce di quella grande speranza che non puॳsere distrutta neppure da insuccessi nel piccolo e dal fallimento in vicende di portata storica. Se non possiamo sperare pi䩠quanto 蠥ffettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorit࠰olitiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza. Ƞimportante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho pinte da sperare. Solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell'Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un'importanza, solo una tale speranza pu੮ quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire. Certo, non possiamo 㯳truire 鬠regno di Dio con le nostre forze 㩲 che costruiamo rimane sempre regno dell'uomo con tutti i limiti che sono propri della natura umana. Il regno di Dio 蠵n dono, e proprio per questo 蠧rande e bello e costituisce la risposta alla speranza. E non possiamo ॲ usare la terminologia classica 렭eritare 鬠cielo con le nostre opere. Esso 蠳empre pi䩠quello che meritiamo, cos젣ome l'essere amati non 蠭ai una cosa �itata ୡ sempre un dono. Tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del ଵsvalore 䥬 cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non 蠩ndifferente davanti a Dio e quindi non 蠮eppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo all'ingresso di Dio: della veritଠdell'amore, del bene. Ƞquanto hanno fatto i santi che, come 㯬laboratori di Dio ਡnno contribuito alla salvezza del mondo (cfr 1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2). Possiamo liberare la nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e cos쬠insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciࣨe 蠧iusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalit஠Ci튣onserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili. Cos쬠per un verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo stesso tempo, per젨 la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dࠣoraggio e orienta il nostro agire. 35. Omnis sincera rectaque hominis actio spes est in actu. Ita est in primis eo sensu quod nostras spes �ores maioresque ಯvehere intendimus: hoc vel illud munus solvere quod pro ulteriore vitae nostrae itinere magni est momenti; nostro studio conferre ad mundum paulo clariorem humanioremque reddendum, et ad ianuas quoque ad futura tempora aperiendas. Studium tamen cotidianum ad propriam vitam prosequendam adque universorum futurum nos lassat vel vertitur in fanatismum, nisi illustremur lumine maioris spei quae nec iacturis in parvis adversitatibus nec historiae rerum turbatione deleri possit. Si nobis sperare non licet ultra ea quae singulis momentis re obtineri possunt atque politicae et oeconomicae potestates sperandum nobis offerunt, vita nostra eo reducitur ut mox spe careat. Scire interest: adhuc sperare possum, licet pro vita mea aut in hoc historico momento appareat me nihil habere exspectandum. Tantum magna spei certitudo nempe quod, praeter improsperos exitus, mea vita personalis et integra historia custodiuntur sub indelebili Amoris potestate et huius gratia, pro ipso sensum habent ac pondus; talis tantum spes animum adhuc addere potest ad operandum et prosequendum. Certe, regnum Dei propriis viribus 㯮struere 곯li non valemus ᵯd construimus, semper regnum hominis omnibus circumscriptum remanet limitibus naturae humanae propriis. Regnum Dei donum est, idcirco magnum ac pulchrum est et responsum ad spem constituit. Nec valemus 崍 tradita utamur loquela 㡥lum nostris operibus �eri ɬlud superat ea quae nos meremur, sicut amari numquam �itum ೥d semper donum est. Attamen, cum omni nostra conscientia �oris valoris 㡥li, patet quoque actiones nostras coram Deo inertes non esse ideoque nec inertes pro historiae progressu. Aperire possumus nosmet ipsos et mundum ingressui Dei: veritatis, amoris, boni. Quod sancti fecerunt, qui veluti ᤩutores Dei 鮠mundum salvandum suam operam contulerunt (cfr 1 Cor 3,9; 1 Thess 3,2). Possumus vitam nostram et mundum a venenis eripere et a sordibus quae praesens et futurum tempus destruere possent. Detegere possumus ac puras servare creationis fontes et sic, una cum creatione quae uti donum nos praecedit, secundum eius intrinsecas exigentias et finem quod iustum est facere. Hoc sensum retinet etiamsi, ex iis quae apparent, exitum non assequamur vel, prae adversis insidiis, viribus orbati videamur. Ita una ex parte, nostra ex actione oritur spes pro nobis et pro aliis; eodem tamen tempore haec est magna spes quae Dei promissionibus nititur qui tam in secundis quam in adversis animum nobis infundit nostraque ducit opera.
36. Come l'agire, anche la sofferenza fa parte dell'esistenza umana. Essa deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall'altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia, si 蠡ccumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell'amore che rientrano nelle esigenze fondamentali dell'esistenza cristiana e di ogni vita veramente umana. Nella lotta contro il dolore fisico si 蠲iusciti a fare grandi progressi; la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. S쬠dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilitࠖ semplicemente perch頮on possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perch頮essuno di noi 蠩n grado di eliminare il potere del male, della colpa che 쯠vediamo 蠣ontinuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c'蠥 che perci౵esto potere che 䯧lie il peccato del mondo 輩>Gv 1,29) 蠰resente nel mondo. Con la fede nell'esistenza di questo potere, 蠥mersa nella storia la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento; speranza che ci dࠩl coraggio di metterci dalla parte del bene anche lࠤove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che, stando allo svolgimento della storia cos젣ome appare all'esterno, il potere della colpa rimane anche nel futuro una presenza terribile. 36. Sicut opera, dolores quoque ad humanam exsistentiam pertinent. Ipsi proveniunt sive ex naturae coartatione sive ex cumulo culparum, quae in historiae decursu sunt coacervatae, et in praesens quoque irrevocabiliter crescunt. Omnibus certe viribus contendatur oportet ad dolorem extenuandum: innocentium dolor, quantum fieri potest, est arcendus; dolores sedandi; ita est agendum ut morbi mentales superentur. Omnia haec sive iustitiae sive caritatis officia sunt, quae ad praecipuas condiciones tam christianae exsistentiae quam cuiusque vitae vere humanae pertinent. In certamine contra physicum dolorem magni peracti sunt progressus; passio innocentium et etiam morbi mentales superioribus decenniis potius aucti sunt. Etenim, omni ope adlaborandum est ad passionem superandam, eam tamen e mundo prorsus tollere non possumus 崠hoc quidem, quoniam nostram limitationem prorsus excutere non est in nobis ac nemo nostrum auferre valet potestatem mali, culpae, quae iugiter 崩 patet 毮s est doloris. Hoc agere posset solum Deus: tantum Deus, qui Ipsemet in historiam ingreditur, homo fit et in ea patitur. Nos novimus hunc Deum exsistere, et ideo hanc potestatem quae 䯬lit peccatum mundi 輩>Io 1,29) in mundo adesse. Per fidem in exsistentiam huius potestatis ingressa est spes in historiam sanationis mundi. At illa certo spes est et non expletio; spes quae nobis animum facit ut nos ex parte boni ponamus, etiam ubi res inanis videtur, in conscientia quod secundum historiae exteriorem processum, culpae potestas etiam futuro in tempore quaedam terribilis manet praesentia.
37. Ritorniamo al nostro tema. Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio lࠤove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciࣨe potrebbe significare patimento, lࠤove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della veritଠdell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi pi鬠dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non 蠬o scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacitࠤi accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore. Vorrei in questo contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin (ḵ7), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. 鯬 Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perch頩nfiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna 蠬a sua misericordia (cfr Sal 136 [135]). Questo carcere 蠤avvero un'immagine dell'inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza. Dio, che liber੍ tre giovani dalla fornace ardente, mi 蠳empre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna 蠬a sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perch頮on sono solo, ma Cristo 荊con me [...] Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Sal 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco, la tua croce 蠣alpestata dai piedi dei pagani! Dov'蠬a tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell'ardore della tua caritଠaver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore. Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perch頮ella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti [...]. Fratelli carissimi, nell'udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna 蠬a sua misericordia. [...] Vi scrivo tutto questo, perch頬a vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l'ancora fino al trono di Dio: speranza viva, che 蠮el mio cuore... ᠨref="#nota28it" name="nota28i">[28]. Questa 蠵na lettera dall'鮦erno ө palesa tutto l'orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s'aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della crudeltࠤegli aguzzini. Ƞuna lettera dall'inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: 㥠salgo in cielo, l࠴u sei, se scendo negli inferi, eccoti [...]. Se dico: 쭥no l'oscurit࠭i copra뮮.] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte 荊chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce 輩>Sal 139 [138] 8-12; cfr anche Sal 23 [22],4). Cristo 蠤isceso nell'鮦erno 堣os썊蠶icino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. Ƞsorta, tuttavia, la stella della speranza 짡ncora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell'uomo, ma vince la luce: la sofferenza 곥nza cessare di essere sofferenza 䩶enta nonostante tutto canto di lode. 37. Ad nostrum argumentum redeamus. Studium est in nobis dolores arcendi eisque adversandi, non vero de mundo eos auferendi. Etenim ubi homines, dolores vitare cupientes, ab omnibus quae dolores resipere possent se subtrahere contendunt, ubi labori ac dolori veritatis, amoris et boni parcere cupiunt, in vitam vacuam prolabuntur, in qua forsitan nihil est doloris, sed tantum privatio sensus et solitudo obscurius percipiuntur. Nec remotio tribulationis, nec fuga doloris hominem sanant, sed potestas tribulationem admittendi et in ea maturandi, in ea sensum inveniendi cum Christo per coniunctionem, qui immenso amore passus est. Hoc in contextu nonnullas sententias ex quadam epistula martyris Vietnamiensis Pauli Le-Bao-Thin (턃CCLVII) memorare velimus, in quibus patet haec transformatio doloris vi spei quae ex fide oritur. 姯, Paulus, pro nomine Christi vinctus, tribulationes meas vobis referre volo quibus cotidie immersus sum, ita ut, amore erga Deum accensi, laudes mecum Deo praebeatis, quoniam in aeternum misericordia eius (cfr Ps 136 [135]). Hic carcer vere imago est inferni aeterni: ad supplicia crudelia omnis generis, ut sunt compedes, catenae ferreae et vincula, adduntur odium, vindictae, calumniae, verba indecentia, querelae, actus mali, iuramenta iniusta, maledictiones et tandem angustiae et tristitia. Deus autem qui olim liberavit tres pueros de camino ignis, mihi semper adest meque ab istis tribulationibus liberavit et eas in dulcedinem convertit, quoniam in aeternum misericordia eius. In medio autem horum tormentorum, quae alios conterrere solent, gratia Dei, gaudio repletus sum et laetitia, quia non solus sed cum Christo sum. [...] Quomodo autem sustineam spectaculum istud, videns cotidie imperatores, mandarinos eorumque satellites blasphemantes nomen sanctum tuum, Domine, qui sedes super Cherubim et Seraphim (cfr Ps 80 [79], 2)? Ecce, crux tua a pedibus paganorum conculcata est! Ubi est gloria tua? Videns haec omnia, malo, amore tui succensus, abscissis membris, mori in testimonium amoris tui. Ostende, Domine, potentiam tuam, salva me et sustine me, ut virtus tua in infirmitate mea ostendatur et glorificetur coram gentibus. [...] Fratres carissimi, audientes haec omnia, gratias agatis immortales in laetitia Deo, a quo bona cuncta procedunt, benedicite Domino mecum, quoniam in aeternum misericordia eius! [...] Scribo vobis haec omnia, ut coniungatur fides vestra et mea. Hac saeviente tempestate, ancoram iacio usque ad thronum Dei: spem vivam, quae est in corde meo 졠href="#nota28lt" name="nota28l">[28] Haec epistula est ex 鮦erno Сlam totus ostenditur horror campi captivorum constipationis, in quo tormentis ex parte tyrannorum adiungitur pravitatis impetus in eosdem patientes, qui sic iterum instrumenta fiunt atrocitatis carnificum. Epistula est ex inferno, sed in ea dictio Psalmi confirmatur: 㩠ascendero in caelum, tu illic es; si descendero in infernum, ades. [...] Si dixero: ﲳitan tenebrae compriment me뮮.], nox sicut dies illuminabitur 곩cut tenebrae eius ita et lumen eius 輩>Ps 139 [138], 8-12; cfr etiam Ps 23 [22], 4). Christus descendit ad 鮦eros 崠sic prope est eum qui illuc proicitur, eique tenebras in lumen mutat. Dolores et tormenta terribilia pergunt esse ac fere intoleranda. Orta est tamen stella spei ᮣora cordis quae ad Dei thronum pervenit. Pravitas in hominem non invehitur, immo vincit lux: dolores 崳i dolores esse non desinunt 橵nt tamen canticum laudis.
38. La misura dell'umanit࠳i determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la societ஠Una societࠣhe non riesce ad accettare i sofferenti e non 蠣apace di contribuire mediante la com-passione a far s젣he la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente 蠵na societࠣrudele e disumana. La societଠper젮on pu튡ccettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ci६ d'altra parte, il singolo non puࡣcettare la sofferenza dell'altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l'altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicch頥ssa diventa anche mia. Ma proprio perch頯ra 荊divenuta sofferenza condivisa, nella quale c'蠬a presenza di un altro, questa sofferenza 蠰enetrata dalla luce dell'amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non 蠰i㯬itudine. Ma anche la capacitࠤi accettare la sofferenza per amore del bene, della veritࠥ della giustizia 蠣ostitutiva per la misura dell'umanitଠperch頳e, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumitࠨ pi魰ortante della veritࠥ della giustizia, allora vige il dominio del pi毲te; allora regnano la violenza e la menzogna. La veritࠥ la giustizia devono stare al di sopra della mia comoditࠥd incolumitࠦisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna. E infine, anche il 㬠ꡬl'amore 蠦onte di sofferenza, perch頬'amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L'amore non puࡦfatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ci젡nnulla se stesso come tale. 38. Humanitatis mensura determinatur essentialiter per habitudinem inter dolorem et dolentem. Hoc valet tam pro singulis quam pro societate. Societas quae dolentes accipere non potest neque adiuvare per participatum affectum, ut dolor dividatur et etiam interius feratur, est societas crudelis et inhumana. Nihilominus societas non valet patientes excipere nec eos in doloribus sustinere, si ipsi singuli ad hoc faciendum inhabiles sunt, et, alioquin, alter alterius dolores suscipere nequit, si ipsemet in dolore sensum, viam purificationis et maturitatis, iter spei detegere non potest. Excipere proximum dolentem significat illius dolores sibi assumere, ita ut mei quoque fiant. At eo quod dolor nunc condivisus redditur, in quo alterius praesentia inest, dolor hic amoris lumine penetratur. Verbum Latinum consolatio eleganter hoc exprimit, cum adumbret esse cum aliquo in solitudine, quapropter tunc non est amplius solitudo. Sed etiam facultas assumendi dolorem propter bonitatis, veritatis et iustitiae amorem, humanitatis mensuram constituit, quia si definitive prosperitas et incolumitas mea maioris est momenti quam veritas et iustitia, tunc fortioris dominium praevalet; tunc violentia et mendacium dominantur. Veritas et iustitia commoditati meae et physicae integritati excellere debent, alioquin ipsa mea vita in mendacium mutatur. Ac denique, etiam illud 橡t 岧a amorem fons efficitur doloris, quoniam amor usque exigit mei ipsius expropriationes, in quibus me excidi ac vulnerari permitto. Amor profecto exsistere non potest sine hac etiam onerosa renuntiatione mei ipsius; alioquin fiet purus egoismus et hac de re se ipsum qua talem dissolvit.
39. Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della veritࠥ della giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama veramente ᵥsti sono elementi fondamentali di umanitଠl'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? Ƞl'altro sufficientemente importante, perch頰er lui io diventi una persona che soffre? Ƞper me la verit࠴anto importante da ripagare la sofferenza? Ƞcos젧rande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell'umanitଠspetta proprio questo merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a una profondit࠮uova la capacitࠤi tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanit஠La fede cristiana ci ha mostrato che veritଠgiustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtࠤi grandissima densit஠Ci ha mostrato, infatti, che Dio 졍 Veritࠥ l'Amore in persona 衠voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis[29] ꄩo non puడtire, ma pu࣯mpatire. L'uomo ha per Dio un valore cos젧rande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesġ l젩n ogni sofferenza umana 蠥ntrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da l젳i diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e cos젳orge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze 䩠una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, e cos젶ia. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la veritࠡl benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare 穯rno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianitଠil bene alla comoditࠖ sapendo che proprio cos젶iviamo veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacitࠤi soffrire per amore della veritࠨ misura di umanit஠Questa capacitࠤi soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell'essere-uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perch頥rano ricolmi della grande speranza. 39. Pati cum alio, pro aliis; pati propter veritatis et iustitiae amorem; pati ex amore et ut quisque persona efficiatur quae vere amet 补c sunt fundamentalia humanitatis elementa, quorum derelictio hominem ipsum deleret. Sed iterum surgit quaestio: hoc peragere possumus? Estne alter satis gravis, ut ego pro eo patiens fiam? Estne veritas mihi tam magni ponderis ut pretium solvam doloris? Estne tanta amoris promissio ut donum mei ipsius iustificet? Ad christianam fidem in historia humanitatis hoc meritum pertinet in homine nova ratione novaque subtilitate suscitandi capacitatem talium modorum patiendi qui decretorii sunt pro eius humanitate. Christiana fides ostendit nobis veritatem, iustitiam, amorem non solum specimina, sed realitates maximae esse densitatis. Nam ipsa ostendit nobis Deum 楲itatem videlicet et ipsum Amorem ಯ nobis et nobiscum pati voluisse. Bernardus Claravallensis effinxit hunc mirum dicendi modum: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis [29] ꄥus pati non potest sed compati potest. Deus hominem tam magno aestimat ita ut Ipse homo factus sit, ad com-patiendum cum homine, modo plane reali in carne et sanguine, sicut nobis in narratione Passionis Iesu demonstratur. Illinc in omnem humanam passionem ingressus est ille qui doloris et tolerantiae particeps fit; illinc in omnem passionem difunditur con-solatio compatientis Dei amoris et ita stella spei oritur. Procul dubio inter varios nostros dolores et tribulationes iugiter indigemus etiam parvis mediisque spei formis ⥮evola visitatione, interiorum ac exteriorum vulnerum sanatione, prospera cuiusdam discriminis solutione, et ita porro. In minoribus tribulationibus hae spei formae possunt etiam sufficere. Sed vere magnis in tribulationibus, in quibus mihi est definitive decernendum, utrum veritas valetudini, honorum cursibus, possessioni sit anteponenda, certitudo verae, magnae spei, cuius mentionem fecimus, necessaria redditur. Quamobrem indigemus quoque testibus, martyribus, qui plane in dies sese obtulerunt, ut ipsi nobis hoc ostenderent. Iisdem indigemus ut inter parvas vicissitudines vitae cotidianae, bonum commoditati anteponamus 㣩entes hac ratione nos ipsos veram vitam vivere. Hoc Nobis iterum dicere liceat: capacitas patiendi propter amorem veritatis mensura est humanitatis. Haec tamen capacitas patiendi pendet ex genere et ex mensura spei quam intra nos perferimus ac super quam aedificamus. Magna spe repleti, sancti magnum humanae exsistentiae iter conficere potuerunt eadem ratione qua antea id fecit Christus.
40. Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione non del tutto irrilevante per le vicende di ogni giorno. Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter 簾rire 쥠piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature pieno fastidiose, conferendo cos젡d esse un senso. In questa devozione c'erano senz'altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire 簾rire 튑ueste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano cos젡 far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all'economia del bene, dell'amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi. 40. Adhuc parvam addere volumus animadversionem non sine quadam significatione quoad cotidiana negotia. Ad quandam hodie fortasse minus adhibitam, sed nuper adhuc valde diffusam formam pietatis, pertinebat cogitatio parvos labores cotidianos 簾erendi ౵i nos iterum iterumque veluti acuti ictus percutiunt, ita eis sensum conferentes. In hac pietate haud dubie exaggeratae vel forsitan etiam insanae res inerant, sed interrogare oportet an etiam in iis non contineretur aliquid essentiale quod nos iuvare posset. Quid sibi vult 簾erre ȩ homines pro comperto habebant se exiguos suos labores in magnam Christi com-passionem includere posse, qui ita quodammodo participes fierent thesauri compassionis, qua humanum genus indiget. Hoc modo parvae angustiae vitae cotidianae possent sensum acquirere et ad bonitatis et amoris oeconomiam apud homines conferre. Forsitan nobis quaerendum est an talis agendi modus etiam pro nobis prospectus sapiens rursus fieri possit.
III. Il Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza III. Iudicium tamquam locus ad spem discendam et exercendam
41. Nel grande Credo della Chiesa la parte centrale, che tratta del mistero di Cristo a partire dalla nascita eterna dal Padre e dalla nascita temporale dalla Vergine Maria per giungere attraverso la croce e la risurrezione fino al suo ritorno, si conclude con le parole: di nuovo verr࠮ella gloria per giudicare i vivi e i morti ̡ prospettiva del Giudizio, giࠤai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro n頭ai solo verso l'alto, ma sempre anche in avanti verso l'ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente. Nella conformazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastit࠳torica e cosmica della fede in Cristo, diventࡢituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re 짩mmagine della speranza ೵l lato occidentale, invece, il Giudizio finale come immagine della responsabilit࠰er la nostra vita, una raffigurazione che guardava ed accompagnava i fedeli proprio nel loro cammino verso la quotidianit஠Nello sviluppo dell'iconografia, per젨 poi stato dato sempre pi격salto all'aspetto minaccioso e lugubre del Giudizio, che ovviamente affascinava gli artisti pi䥬lo splendore della speranza, che spesso veniva eccessivamente nascosto sotto la minaccia. 41. In magno Credo Ecclesiae media pars, quae tractat de mysterio Christi initium sumens ab aeterno ortu ex Patre atque a temporali nativitate ex Maria Virgine ut, per crucem et resurrectionem, ad eius alterum adventum redeatur, hisce concluditur verbis:  iterum venturus est cum gloria, iudicare vivos et mortuos вospectus Iudicii iam a primordiis animos christianorum in eorum vita cotidiana permovit tamquam regula ad vitam praesentem temperandam, tamquam monitum ad eorum conscientiam simulque tamquam spes de divina iustitia. Fides in Christum numquam solum retro respexit nec solum in altum, sed semper etiam in futurum, in horam iustitiae quam Dominus saepe praenuntiaverat. Hic contuitus in futurum tempus christianismum in praesentia dignitate ditavit. In christianis sacris aedibus exstruendis, quae visibilem reddere volebant historicam et cosmicam amplitudinem fidei in Christum, consuetudo vigebat in latere orientali Dominum veluti regem redeuntem 㰥i imaginem 妦ingendi, in latere vero occidentali Iudicium finale tamquam responsalitatis pro nostra vita imaginem, speciem quae fideles ita in eorum cotidiano itinere aspiciebat et comitabatur. Attamen in evolutione iconographica fortiter praevaluit minax et horribilis Iudicii aspectus, qui evidenter artifices alliciebat, potius quam splendor spei quae saepe minacibus signis obscurabatur.
42. Nell'epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed 蠯rientata soprattutto verso la salvezza personale dell'anima; la riflessione sulla storia universale, invece, 蠩n gran parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto fondamentale dell'attesa del Giudizio, tuttavia, non 蠳emplicemente scomparso. Ora perࡳsume una forma totalmente diversa. L'ateismo del XIX e del XX secolo 謠secondo le sue radici e la sua finalitଠun moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non pu튥ssere l'opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilitࠤi un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. Ƞin nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poich頮on c'蠵n Dio che crea giustizia, sembra che l'uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia. Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio 荊comprensibile, la pretesa che l'umanit࠰ossa e debba fare ciࣨe nessun Dio fa n頨 in grado di fare, 蠰resuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le pi粡ndi crudeltࠥ violazioni della giustizia non 蠵n caso, ma 蠦ondato nella falsitࠩntrinseca di questa pretesa. Un mondo che si deve creare da s頬a sua giustizia 蠵n mondo senza speranza. Nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere 㯴to qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti  continui a spadroneggiare nel mondo. Cos젩 grandi pensatori della scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, hanno criticato in ugual modo l'ateismo come il teismo. Horkheimer ha radicalmente escluso che possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo stesso tempo per࡮che l'immagine del Dio buono e giusto. In una radicalizzazione estrema del divieto veterotestamentario delle immagini, egli parla della talgia del totalmente Altro 㨥 rimane inaccessibile 宍 grido del desiderio rivolto alla storia universale. Anche Adorno si 蠡ttenuto decisamente a questa rinuncia ad ogni immagine che, appunto, esclude anche l'ꩭmagine 䥬 Dio che ama. Ma egli ha anche sempre di nuovo sottolineato questa dialettica ativa 堨a affermato che giustizia, una vera giustizia, richiederebbe un mondo 鮠cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciࣨe 蠩rrevocabilmente passato ᠨref="#nota30it" name="nota30i">[30]. Questo, per젳ignificherebbe 峰resso in simboli positivi e quindi per lui inadeguati 㨥 giustizia non puॳservi senza risurrezione dei morti. Una tale prospettiva, tuttavia, comporterebbe 졠risurrezione della carne, una cosa che all'idealismo, al regno dello spirito assoluto, 蠴otalmente estranea ᠨref="#nota31it" name="nota31i">[31]. 42. Nova aetate mens de Iudicio finali obsolescit: fides christiana ad individuum reducitur et praesertim ad personalem animae salutem vertitur; consideratio de historia universali autem magna ex parte progressionis cogitatione comprehenditur. Attamen materia fundamentalis circa exspectationem Iudicii prorsus non evanescit. Nunc autem illud formam plane diversam induit. Atheismus XIX et XX saeculi secundum suas radices suumque finem, est quidam moralismus: reclamatio contra mundi et universalis historiae iniustitias. Mundus, in quo talis datur moles iniustitiae, doloris innocentium atque immanitatis potestatum, boni Dei opus nequit esse. Ille Deus qui de tali mundo curam adhiberet, iustus Deus non esset, ac minore quidem ratione bonus. Moralis rei nomine hic Deus oppugnetur oportet. Quandoquidem non exsistit ille Deus qui iustitiam constituat, homo ipsemet nunc vocari videtur ad iustitiam statuendam. Si coram dolore huius mundi reclamatio contra Deum comprehensibilis videtur, ambitiosum desiderium ut hominum societas ea facere possit et debeat quae nullus Deus facit nec facere potest, superbum exstat atque intrinsecus non verum. Quod demum ex huiusmodi propositione graves immanitates iustitiaeque violationes sunt secutae, id haud casu evenit, sed in intrinseca huius praesumptionis falsitate innititur. Mundus qui per se suam iustitiam creare ipse debet, is sine spe est mundus. Nemo nihilque de saeculorum mundi doloribus respondet. Nemo nihilque praestat ne regiminis protervitas 㵢 quocumque allicienti ideologiae involucro se ostendens 鮠mundo dominari pergat. Sic eximii Francofurtensis scholae philosophi, scilicet Maximilianus Horkheimer et Theodorus W. Adorno simul atheismum theismumque aequabiliter notarunt. Horkheimer funditus negavit succedaneum quiddam immanens pro Deo reperiri posse, cum tamen eadem opera Dei boni iustique speciem etiam respueret. Quando apud Vetus Testamentum imagines radicitus vetantur, is de ﭮino Alterius rei desiderio 쯱uitur, quae attingi non potest 㬡matio est desiderii, quae ad universalem historiam convertitur. Adorno etiam hac omnium imaginum recusatione prorsus tenetur, quae amantis Dei etiam 魡ginem ᭯vet. At semper is hanc dialecticam ativam 帴ulit atque autumavit iustitiam, veram videlicet iustitiam, orbem secum ferre, in quo non modo praesentes dolores delerentur, verum etiam quae omnino abierunt revocarentur.[30] Id autem significat ᵯd positivis symbolis ideoque ad eius mentem non sufficientibus exprimitur 鵳titiam absque mortuorum resurrectione dari non posse. Talis tamen rerum prospectus secum fert 㡲nis resurrectionem, quod idealismo, videlicet spiritus absoluti provinciae, prorsus alienum est 졠href="#nota31lt" name="nota31l">[31]
43. Dalla rigorosa rinuncia ad ogni immagine, che fa parte del primo Comandamento di Dio (cfr Es 20,4), puॠdeve imparare sempre di nuovo anche il cristiano. La veritࠤella teologia negativa 蠳tata posta in risalto dal IV Concilio Lateranense il quale ha dichiarato esplicitamente che, per quanto grande possa essere la somiglianza costatata tra il Creatore e la creatura, sempre pi粡nde 蠴ra di loro la dissomiglianza[32]. Per il credente, tuttavia, la rinuncia ad ogni immagine non pu೰ingersi fino al punto da doversi fermare, come vorrebbero Horkheimer e Adorno, nel ᤍ ambedue le tesi, al teismo e all'ateismo. Dio stesso si 蠤ato un' 魭agine 튮el Cristo che si 蠦atto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio 蠰ortata all'estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell'uomo abbandonato da Dio, prendendola su di s鮠Questo sofferente innocente 蠤iventato speranza-certezza: Dio c'謠e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. S쬍 esiste la risurrezione della carne[33]. Esiste una giustizia[34]. Esiste la ⥶oca 䥬la sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale 蠩nnanzitutto e soprattutto speranza 걵ella speranza, la cui necessit࠳i 蠲esa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento piꦯrte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci 蠮egato, dell'immortalitࠤell'amore che attendiamo, 蠣ertamente un motivo importante per credere che l'uomo sia fatto per l'eternit໠ma solo in collegamento con l'impossibilitࠣhe l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente la necessitࠤel ritorno di Cristo e della nuova vita. 43. Absoluta ex omnium imaginum repudiatione, quam primum Dei Mandatum complectitur (cfr Ex 20,4), usque discere denuo potest debetque quoque christianus. Theologiae negativae veritatem extulit IV Concilium Lateranense, quod palam edixit, quantalibet sit similitudo, quae inter Creatorem et creaturam viget, maiorem usque adesse inter Illum illamque dissimilitudinem.[32] Credens tamen, eo quod omnis imago repudiatur, pervenire non potest illuc, ubi sistere debet, sicut arbitrantur Horkheimer atque Adorno, utramque negans thesim, videlicet theismum et atheismum. Deus 魡ginem 㩢i ipse dedit: in Christo qui homo factus est. In Eo, Crucifixo, Dei imaginum falsarum detrectatio ad summum est perducta. Nunc Deus nimirum suum Vultum in ipsa patientis effigie ostendit, qui hominis a Deo deserti condicionem communicat, in se eandem recipiens. Patiens hic innocens factus est spei certitudo: Deus est, atque Deus iustitiam ratione quadam creare valet, quam nos intellegere non valemus, quamque tamen per fidem percipere possumus. Utique, carnis est resurrectio.[33] Iustitia est.[34] Praeteriti maeroris est ᢲogatio ಥparatio quam ius restituit. Hanc ob rem in novissimum Iudicium fides in primis ac potissimum est spes, spes scilicet illa, cuius necessitas in ipsis postremorum saeculorum submotionibus liquide apparuit. Persuasum quidem habemus iustitiae causam praecipuum esse argumentum, quidquid est, pro fide de vita aeterna argumentum esse validissimum. Eo quod quisque necessitatem habet satisfactionis, quae hac in vita non datur, immortalitatis amoris, quem exspectamus, id magni ponderis procul dubio est argumentum ut illud credatur hominem ad aeternitatem factum esse; sed dum id cum illa impossibilitate nectitur historiae iniustitiam novissimum esse verbum, Christi reditus novaeque vitae necessitas multum quidem suadent.
44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio 蠵n mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio puࣲeare giustizia. E la fede ci dࠬa certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale 蠩n primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non 蠦orse anche un'immagine di spavento? Io direi: 蠵n'immagine che chiama in causa la responsabilit஍ Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore[35]. Dio 蠧iustizia e crea giustizia. Ƞquesta la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia 蠩nsieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue 穵stizia e grazia 䥶ono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non 蠵na spugna che cancella tutto cos젣he quanto s'蠦atto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dosto붳kij nel suo romanzo 쩾I fratelli Karamazov ɍ malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. Vorrei a questo punto citare un testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con immagini mitologiche, che perಥndono con evidenza inequivocabile la veritଠegli dice che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice. Ora non conta pi㩲 che esse erano una volta nella storia, ma solo ciࣨe sono in verit஠ﲡ [il giudice] ha davanti a s頦orse l'anima di un [...] re o dominatore e non vede niente di sano in essa. La trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da spergiuro ed ingiustizia [...] e tutto 蠳torto, pieno di menzogna e superbia, e niente 蠤ritto, perch頥ssa 蠣resciuta senza verit஠Ed egli vede come l'anima, a causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell'agire, 蠣aricata di smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirࠬe punizioni meritate [...] A volte, per젥gli vede davanti a s頵n'anima diversa, una che ha fatto una vita pia e sincera [...], se ne compiace e la manda senz'altro alle isole dei beati ᠨref="#nota36it" name="nota36i">[36]. Ges஥lla parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra s頥 il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacitࠤi amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Ges鮠questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cio蠤i una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora. 44. Quod adversus Deum iustitiae nomine arguitur id non iuvat. Sine Deo mundus est sine spe mundus (cfr Eph 2,12). Deus unus iustitiam efficere potest. Atque fides nos certos reddit: Is id agit. Novissimi Iudicii imago in primis terrifica non est imago, sed spei imago; nobis fortasse ipsa spei decretoria imago. An terroris quoque est imago? Dixerimus: imago est quae officii conscientiam complectitur. Imago igitur est illius terroris de quo sanctus Hilarius loquitur, omnem scilicet nostrum metum in amore locari.[35] Deus iustitia est et iustitiam creat. Haec nostra solatio atque nostra spes. At sua in iustitia simul est gratia. Hoc scimus, Christum cruci affixum et resuscitatum contuentes. Ambae 鵳titia et gratia 㵯 in interiore iustoque vinculo perspici debent. Gratia iustitiam non repellit. Iniustitiam in ius non mutat. Non veluti spongia est quaedam quae omnia delet ita ut quod factum sit in terra eandem tandem habeat vim. Adversus id genus caelum gratiamque merito clamat, exempli gratia, Dostoievskij sua in commenticia fabula, quae est Fratres Karamazov. Improbi tandem, in aeterno convivio, permixte ad mensam prope victimas non sedebunt, proinde quasi nihil acciderit. Hoc in loco Platonis scriptum afferre volumus, quod aliquam iusti iudicii praesensionem ostendit, quod partim christiano verum est ac salutare. Licet fabulares imagines adhibuerit, quae alioquin perquam clare veritatem manifestant, ipse asseverat nudas tandem ante iudicem astare animas. Nunc nihil id valet quod in historia quondam fuerunt, sed quod in veritate sunt. 䵮c ipse [iudex] ante se fortasse [...] alicuius regis vel dominatoris habet animam et nihil in ea videt sani. Eam reperit percussam et cicatricum refertam, quae ex peieratione et iniustitia oriuntur [...] atque omnia sunt detorta et mendaciis insolentiaque plena, et nihil est rectum, quandoquidem illa sine veritate adolevit. Atque ipse videt quemadmodum anima, propter arbitrium, vehementiam, elationem et in agendo impudentiam, immanitate infamiaque oneretur. Coram hoc spectaculo, eam ipse in carcerem conicit, ubi merito punietur [...] Nonnumquam autem dissimilem animam videt, quae piam sinceramque vitam exegit [...], in qua complacuit eamque ad beatorum insulas mox amandat 졠href="#nota36lt" name="nota36l">[36] In divitis epulonis pauperisque Lazari parabola (cfr Lc 16,19-31) Iesus ad nostram monitionem quandam animae imaginem ostendit, quae adrogantia opibusque vastatur, quaeque inter se et pauperem foveam insuperabilem ipsa fodit, quae fovea inclusionis est intra corporis delicias; fovea quidem alterius oblivionis, imperitiae amandi, quae nunc in igneam sitim et iam insanabilem commutatur. Effari hic debemus Iesum hac in parabola de postrema sorte post Iudicium universale haud loqui, qui vero opinationem quandam refert, quae etiam apud veterem Iudaicam doctrinam reperitur, quae quandam condicionem mediam inter mortem ac resurrectionem memorat, in qua ultimum iudicium adhuc deest.
45. Questa idea vetero-giudaica della condizione intermedia include l'opinione che le anime non si trovano semplicemente in una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono gi࠵na punizione, come dimostra la parabola del ricco epulone, o invece godono giࠤi forme provvisorie di beatitudine. E infine non manca il pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni, che rendono l'anima matura per la comunione con Dio. La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si 荊sviluppata man mano la dottrina del purgatorio. Non abbiamo bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto di che cosa realmente si tratti. Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva ᵥsta sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell'intera vita ha preso forma, puࡶere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della veritࠥ la disponibilitࠡll'amore. Persone in cui tutto 蠤iventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. ȍ questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe pinte di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: 蠱uesto che si indica con la parola inferno[37]. Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo ॲsone, delle quali la comunione con Dio orienta giࠦin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciࣨe ormai sono[38]. 45. Haec mediae condicionis vetus-Iudaica opinio illud secum fert: non detinentur dumtaxat animae in quadam temporaria custodia, sed poenam iam luunt, sicut divitis epulonis parabola ostendit, aut contra temporariae cuiusdam beatitudinis formis iam fruuntur. Atque tandem non desunt qui opinentur hoc in statu purgationes et sanationes etiam dari, quae ad Deum communicandum animam paratam efficiunt. Primigenia Ecclesia has cogitationes sumpsit, ex quibus exinde in occidentali Ecclesia paulatim purgatorii doctrina est orta. Haud hic necesse habemus ut historicas huius progressionis semitas, implicatas quidem, perpendamus; interrogemus solummodo quid sit revera istud. Mortuo homine, eius vitae electio consummatur 橴a haec ante Iudicem sistit. Eius electio, quae per vitae cursum fingitur, varias species habere potest. Sunt quidam qui veritatis desiderium amorisque alacritatem deleverint. In iis omnia facta sunt mendacia; ii odio vixerunt iique in se amorem ipsi proculcarunt. Terrificus est hic prospectus, sed quaedam nostrae historiae personae huius generis species horrendum in modum agnoscere sinunt. Talibus in hominibus nihil sanabile invenias et boni dissipatio irreparabilis: id ipsum inferni [37] verbo significatur. At contra integerrimae personae esse possunt, quae se a Deo penitus pervadi sunt passae, quapropter omnino proximo praesto sunt. De hominibus nempe agitur, qui a Deo communicato toti prorsus diriguntur, quorum ad Deum accessio illud solummodo complet quod ii iam sunt.[38]
46. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, n頬'uno n頬'altro 蠩l caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini 㯳젰ossiamo supporre ⩭ane presente nel piಯfondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la veritଠper l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, per젥ssa 蠲icoperta da sempre nuovi compromessi col male �ta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, 蠲imasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima. Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d'altro accadr࿠San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, ci d࠵n'idea del differente impatto del giudizio di Dio sull'uomo a seconda delle sue condizioni. Lo fa con immagini che vogliono in qualche modo esprimere l'invisibile, senza che noi possiamo trasformare queste immagini in concetti 㥭plicemente perch頮on possiamo gettare lo sguardo nel mondo al di lࠤella morte n頡bbiamo alcuna esperienza di esso. Paolo dice dell'esistenza cristiana innanzitutto che essa 蠣ostruita su un fondamento comune: Ges㲩sto. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci pu఩峳ere sottratto neppure nella morte. Poi Paolo continua: 㥬 sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarࠢen visibile: la farࠣonoscere quel giorno che si manifesterࠣol fuoco, e il fuoco proverࠬa qualitࠤell'opera di ciascuno. Se l'opera che uno costru젳ul fondamento resisterଠcostui ne ricever࠵na ricompensa; ma se l'opera finir͊bruciata, sar࠰unito: tuttavia egli si salverଠper࣯me attraverso il fuoco ꨳ,12-15). In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini puࡶere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il 浯co ॲ diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell'eterno banchetto nuziale. 46. Attamen prout experti sumus, neuter consuetus est casus humanae exsistentiae. Plerisque in hominibus 㩣 opinari possumus 鮠ima eorum essentia ad veritatem, ad amorem, ad Deum postremus et interior aditus manet. In iis tamen, quae in vita cotidie eliguntur, novis usque cum malo implicationibus ipsa operitur �tae sordes puritatem tegunt, cuius tamen sitis manet atque nihilo secius semper denuo ex omni ignobilitate emergit et in anima inest. Quid talibus hominibus, cum ante Iudicem sunt, accidit? Numne omnes sordes quae per vitae cursum sunt coacervatae extemplo nullius momenti erunt? Aut quid aliud eveniet? Sanctus Paulus in Epistula Prima ad Corinthios aliquid affert quod ad dispar Dei iudicium de hominibus pro cuiusque condicionibus attinet. Per figuras hoc efficit, quae illud invisibile quodammodo significare nituntur, quasque nos in notiones convertere non possumus ᵯd orbem ultra mortem inspicere utique nequimus, neque de eo ullam rem sumus experti. Illo in loco asseverat Paulus in primis christianam exsistentiam in communi fundamento inniti: in Iesu Christo. Fundamentum hoc perstat. Si hoc in fundamento firmiter constitimus atque in eo vitam nostram aedificavimus, ne in morte quidem hoc fundamentum nobis tolli posse scimus. Paulus exinde pergit: 㩠quis autem superaedificat supra fundamentum aurum, argentum, lapides pretiosos, ligna, faenum, stipulam, uniuscuiusque opus manifestum erit; dies enim declarabit: quia in igne revelatur, et uniuscuiusque opus quale sit ignis probabit. Si cuius opus manserit, quod superaedificavit, mercedem accipiet; si cuius opus arserit, detrimentum patietur, ipse autem salvus erit, sic tamen quasi per ignem 賬12-15). Ceterum hoc in scripto prorsus liquet hominum salutem dissimiles formas obtinere; quasdam aedificatas res penitus ardere posse; ut quis salvetur, per 駮em 䲡nseat ipse oportere, ut capax tandem fiat Dei et ad aeternum nuptiarum convivium accedat.
47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui 蠬'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsit஠ȍ l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa 㯭e attraverso il fuoco Ȭ tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ci튴otalmente di Dio. Cos젳i rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non 蠩rrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la veritࠥ verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia 蠧i࠳tata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. Ƞchiaro che la ꤵrata 䩠questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo.

 Il �ento 䲡sformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno 蠴empo del cuore, tempo del ࡳsaggio ᬬa comunione con Dio nel Corpo di Cristo[39]. Il Giudizio di Dio 蠳peranza sia perch頨 giustizia, sia perch頨 grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciࣨe 蠴erreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia ꤯manda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra ꧩudizio e grazia 㨥 la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza 㯮 timore e tremore 輩>Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro ᶶocato 쩾 parakletos (cfr 1 Gv 2,1).

47. Nonnulli theologi recentiores urentem ignem eundemque salvantem ipsum esse Christum, Iudicem et Salvatorem, putant. Occursus cum Eo actus est decretorius Iudicii. Eius coram intuitu omnia mendacia dissipantur. Quem cum convenimus, urens nos Is commutat atque liberat, ut nos ipsi revera fiamus. Res, per vitae cursum fabricatae, aridae stipulae, vana gloriatio, evadere atque corruere possunt. At in huius occursus maerore, in quo illud nostrae personae sordidum et insanum nobis patet, est salus. Eius intuitus, Eius cordis tactus per commutationem procul dubio dolentem 䡭quam per ignem  sanat. Dolor tamen est beatus, in quo sancta eius amoris vis ita nos pervadit veluti flamma, ut nos ad nos prorsus tandem pertineamus ideoque ad Deum. Sic iustitiae pacisque commixtio manifestatur: nostra vivendi ratio haud est nullius momenti, sed nostrae sordes non in sempiternum nos maculant, si saltem ad Christum, ad veritatem amoremque usque tendimus. Ceterum sordes hae in Christi passione sunt iam perustae. Exstante Iudicio eius amoris magnum pondus pro omni malo, quod in mundo est et in nobis, experimur accipimusque. Amoris dolor nostra salus nostrumque gaudium fit. Perspicuum est comburendi 䥭pus ౵od commutat, per nostri temporis mundani mensuras metiri nos non posse.

 


Huius commutans �entum ursus terrestrem temporis mensuram praetergreditur 㯲dis tempus est, 䲡nsitus 䥭pus ad Deum in Christi Corpore communicandum.[39] Dei Iudicium, tum quia est iustitia tum quia gratia, spes est. Si gratia dumtaxat esset, quae omnia terrena exigua redderet, responsionis ad interrogationem de iustitia debitor esset Deus ᵡe interrogatio coram historia Deoque ipso nobis est decretoria. Si mera esset iustitia, nobis omnibus causa esset tandem timoris. Dei in Christo incarnatio ita utrumque inter se 橤elicet iudicium et gratiam 鵮xit, ut iustitia firmiter constitueretur: nos omnes nostram salutem 㵭 metu et tremore 萨ilp 2,12) exspectamus. Gratia nihilominus nobis cunctis dat copiam sperandi et fidenter Iudicem conveniendi, quem nostrum ᤶocatum డrakleton, novimus (cfr 1 Io 2,1).

48. Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perch頨 importante per la prassi della speranza cristiana. Nell'antico giudaismo esiste pure il pensiero che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr per esempio 2 Mac 12,38-45: I secolo a.C.). La prassi corrispondente 蠳tata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed 荊comune alla Chiesa orientale ed occidentale. L'Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell'ᬤil࠻, ma conosce, s쬠diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, puॳsere dato ⩳toro e refrigerio �iante l'Eucaristia, la preghiera e l'elemosina. Che l'amore possa giungere fin nell'aldilଠche sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte ᵥsta 蠳tata una convinzione fondamentale della cristianitࠡttraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari gi͊partiti per l'aldil࠵n segno di bontଠdi gratitudine o anche di richiesta di perdono? Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il ൲gatorio 荊semplicemente l'essere purificati mediante il fuoco nell'incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come pu࡬lora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all'altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo 蠵na monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciࣨe penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Cos젬a mia intercessione per l'altro non 蠡ffatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell'intreccio dell'essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui pu೩gnificare una piccola tappa della sua purificazione. E con ciயn c'蠢isogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non 蠭ai troppo tardi per toccare il cuore dell'altro n頨 mai inutile. Cos젳i chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza 蠳empre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo cos젥ssa 蠶eramente speranza anche per me[40]. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perch頡ltri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrডtto il massimo anche per la mia salvezza personale. 48. Ratio etiam quaedam est memoranda, quandoquidem ad christianam spem exercendam magnum habet pondus. Apud veterem Iudaismum illa reperitur etiam opinatio defunctos, in medio statu versantes, per precationem iuvari posse (cfr ex. gr. 2 Mac 12,38-45: I saeculo a. Chr.). Hanc congruentem consuetudinem in se receperunt christiani, quae tam ad orientalem quam ad occidentalem Ecclesiam spectat. In Orientali parte purificatorius expiatoriusque animarum dolor 鮠vita post hanc futura 衵d cognoscitur, sed diversi beatitatis aut etiam perpessionum gradus medio in statu noscuntur. Attamen defunctorum animabus ⥦ectio refrigeriumque ॲ Eucharistiam, orationes atque eleemosynas ministrari possunt. Quod ultramundanam partem attingere potest caritas, quodque mutuo accipiendi dandique praebetur facultas, qua re affectuum vinculis inter nos ultra mortis fines coniungimur, haec summi ponderis fuit christianitatis omnium saeculorum decursu persuasio, quae hodiernis quoque temporibus solans manet experientia. Quis necesse esse non sentiat, ut suis necessariis, qui ultramundanam vitam iam attigerunt, quoddam boni gratique animi documentum aut veniae postulatio perveniant? Nunc quispiam interroget: si 갵rgatorium ଡne est per ignem in Domino, Iudice ac Salvatore, convento purificatio, quomodo tertius quidam agere potest, licet alicui prorsus sit proximus? Cum illud interrogamus, persuadere nobis debemus nullum hominem esse clausam monadem. Nostrae quidem exsistentiae arte inter se communicantur, per multiplices reciprocasque actiones inter se devinciuntur. Nemo solus vivit. Nemo solus peccat. Nemo solus salvatur. In meam vitam continenter ingreditur aliorum vita. Videlicet in iis quae ego cogito, dico, facio, ago. Atque mea vita vicissim in aliorum vitam ingreditur: scilicet cum in malum tum in bonum. Sic mea pro altero precatio quiddam minime est alienum, externum, ne post mortem quidem. Quod exsistentiae inter se implicantur, mea gratiarum actio ad eum conversa, mea pro eo precatio quandam eius purificationis portionem praebere possunt. Atque in hoc non oportet terrestre tempus Dei tempore computetur: in animarum communione terrestre tempus plane superatur. Numquam est nimis sero ad alterius cor movendum neque umquam res est inutilis. Sic christianae spei notionis elementum magni ponderis ultra explicatur. Nostra nempe spes essentialiter ceteris quoque semper est spes; hoc modo tantum ipsa etiam mihi revera est spes.[40] Sicut christiani numquam nos solummodo interrogare debemus: quomodo me ipse salvare possum? Interrogare quoque nos debemus: quid facere possum ut ceteri salventur atque ceteris spei sidus etiam oriatur? Tunc quoque meae ipsi saluti summopere consuluero.
Maria, stella della speranza Maria spei stella
49. Con un inno dell'VIII/IX secolo, quindi da pi䩠mille anni, la Chiesa saluta Maria, la Madre di Dio, come 㴥lla del mare ༩>Ave maris stella. La vita umana 蠵n cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La vita 蠣ome un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Ges㲩sto 蠬a luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine 䩠persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono cos젯rientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe piꤩ Maria essere per noi stella di speranza 쥩 che con il suo 㬠ᰲ젡 Dio stesso la porta del nostro mondo; lei che diventଡ vivente Arca dell'Alleanza, in cui Dio si fece carne, divenne uno di noi, piantଡ sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)? 49. Quodam saeculi VIII/IX hymno, scilicet mille annorum plus emenso spatio, Mariam, Domini Matrem, veluti �is stellam 㡬utat Ecclesia: Ave maris stella. Hominum vita iter est. Ad quam metam? Quomodo vitae semitam invenire possumus? Vita veluti in historiae pelago apparet iter, quod saepenumero obscuratur procellaque agitatur, in quo cursum demonstrantia sidera suspicimus. Germanae quidem nostrae vitae sidera homines sunt qui rectam vitam exigere noverunt. Spei lumina sunt ipsi. Certe Iesus Christus ipse est lux, sol qui supra omnes historiae tenebras ascendit. Sed Eum ut attingamus proximis luminibus nobis opus est, personis videlicet quae ex eiusdem luce lucem ministrant quaeque sic nostri itineris cursum dirigunt. Atque quis hominum magis quam Maria spei stella esse nobis potest ᵡe per suum illud 橡t 鰳i Deo nostri orbis reclusit ianuam; quae vivens Foederis Arca facta est, in qua Deus caro factus est, unus ex nobis est factus, tabernaculum inter nos tetendit (cfr Io 1,14)?
50. A lei perciࣩ rivolgiamo: Santa Maria, tu appartenevi a quelle anime umili e grandi in Israele che, come Simeone, aspettavano 鬠conforto d'Israele 輩>Lc 2,25) e attendevano, come Anna, 졠redenzione di Gerusalemme 輩>Lc 2,38). Tu vivevi in intimo contatto con le Sacre Scritture di Israele, che parlavano della speranza 䥬la promessa fatta ad Abramo ed alla sua discendenza (cfr Lc 1,55). Cos젣omprendiamo il santo timore che ti assal쬠quando l'angelo del Signore entr஥lla tua camera e ti disse che tu avresti dato alla luce Colui che era la speranza di Israele e l'attesa del mondo. Per mezzo tuo, attraverso il tuo 㬠ଡ speranza dei millenni doveva diventare realtଠentrare in questo mondo e nella sua storia. Tu ti sei inchinata davanti alla grandezza di questo compito e hai detto 㬠ૠEccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto 輩>Lc 1,38). Quando piena di santa gioia attraversasti in fretta i monti della Giudea per raggiungere la tua parente Elisabetta, diventasti l'immagine della futura Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia. Ma accanto alla gioia che, nel tuo Magnificat, con le parole e col canto hai diffuso nei secoli, conoscevi pure le affermazioni oscure dei profeti sulla sofferenza del servo di Dio in questo mondo. Sulla nascita nella stalla di Betlemme brillଯ splendore degli angeli che portavano la buona novella ai pastori, ma al tempo stesso la povertࠤi Dio in questo mondo fu fin troppo sperimentabile. Il vecchio Simeone ti parlथlla spada che avrebbe trafitto il tuo cuore (cfr Lc 2,35), del segno di contraddizione che il tuo Figlio sarebbe stato in questo mondo. Quando poi cominciଧattivit͊pubblica di Gesयvesti farti da parte, affinch頰otesse crescere la nuova famiglia, per la cui costituzione Egli era venuto e che avrebbe dovuto svilupparsi con l'apporto di coloro che avrebbero ascoltato e osservato la sua parola (cfr Lc 11,27s). Nonostante tutta la grandezza e la gioia del primo avvio dell'attivitࠤi Ges䵬 gi࠮ella sinagoga di Nazaret, dovesti sperimentare la veritࠤella parola sul 㥧no di contraddizione 裦r Lc 4,28ss). Cos젨ai visto il crescente potere dell'ostilitࠥ del rifiuto che progressivamente andava affermandosi intorno a Ges橮o all'ora della croce, in cui dovesti vedere il Salvatore del mondo, l'erede di Davide, il Figlio di Dio morire come un fallito, esposto allo scherno, tra i delinquenti. Accogliesti allora la parola: 䯮na, ecco il tuo figlio! 輩>Gv 19,26). Dalla croce ricevesti una nuova missione. A partire dalla croce diventasti madre in una maniera nuova: madre di tutti coloro che vogliono credere nel tuo Figlio Ges半seguirlo. La spada del dolore trafisse il tuo cuore. Era morta la speranza? Il mondo era rimasto definitivamente senza luce, la vita senza meta? In quell'ora, probabilmente, nel tuo intimo avrai ascoltato nuovamente la parola dell'angelo, con cui aveva risposto al tuo timore nel momento dell'annunciazione:  temere, Maria! 輩>Lc 1,30). Quante volte il Signore, il tuo Figlio, aveva detto la stessa cosa ai suoi discepoli: Non temete! Nella notte del Golgota, tu sentisti nuovamente questa parola. Ai suoi discepoli, prima dell'ora del tradimento, Egli aveva detto: ᢢiate coraggio! Io ho vinto il mondo 輩>Gv 16,33).  sia turbato il vostro cuore e non abbia timore 輩>Gv 14,27).  temere, Maria! l'ora di Nazaret l'angelo ti aveva detto anche: 鬠suo regno non avrࠦine 輩>Lc 1,33). Era forse finito prima di cominciare? No, presso la croce, in base alla parola stessa di Gesവ eri diventata madre dei credenti. In questa fede, che anche nel buio del Sabato Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua. La gioia della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo nuovo ai discepoli, destinati a diventare famiglia di Ges�iante la fede. Cos젴u fosti in mezzo alla comunitࠤei credenti, che nei giorni dopo l'Ascensione pregavano unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cfr At 1,14) e lo ricevettero nel giorno di Pentecoste. Il ⥧no 䩠Ges岡 diverso da come gli uomini avevano potuto immaginarlo. Questo ⥧no 鮩ziava in quell'ora e non avrebbe avuto mai fine. Cos젴u rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre, come Madre della speranza. Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino! 50. Sic ad eam convertimur: Sancta Maria, ad illas tu humiles magnasque Israel animas pertinebas, quae veluti Simeon 㯮solationem Israel 輩>Lc 2,25) exspectabant atque sicut Anna ⥤emptionem Ierusalem 輩>Lc 2,38) opperiebantur. Vitam in Israel Sacris Litteris agere solebas, quae de spe loquebantur 䥠promissione Abraham et semini eius facta (cfr Lc 1,55). Intellegimus sic sacrum timorem, qui te invasit, cum Dei angelus tuum cubiculum ingrederetur tibique nuntiaretur te Eum esse genituram quem Israel speraret mundusque exspectaret. Per te tuumque illud 㩣 �lenniorum spes effecta est, in mundum eiusque historiam intravit. Tu nempe huius muneris magnitudini te subiecisti et es assensa: 壣e ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum 輩>Lc 1,38). Cum sancto gaudio repleta, tuam necessariam Elisabeth conventura, Iudaeae montes festinanter transires, futurae Ecclesiae imago facta es, quae suo in gremio per historiae montes mundi spem fert. Sed praeter gaudium quod per tuum �nificat 楲bis et cantico in saecula effudisti, arcana quoque oracula prophetarum de servi Dei in hoc mundo doloribus noveras. Intra Bethlemiticum stabulum in nativitate splendor angelorum fulsit, bonum nuntium pastoribus deferentium, at simul Dei paupertas hoc in mundo plane percipiebatur. Simeon Senex de gladio tibi est locutus animam tuam pertransituro (Lc 2,35), de contradictionis signo in mundo quod signum erit Filius tuus. Cum publicis muneribus operam dare coepit Iesus, recedere tu debuisti, ut nova familia adolescere posset, ad quam constituendam ipse venerat, quaeque increscere debebat iis operantibus, qui audituri erant tuaque verba observaturi (Lc 11,27). Licet magnitudo gaudiumque inceptae Iesu operae exstarent, in Nazarethana iam synagoga illorum verborum 㩧num cui contradicetur 輩>Lc 4,28s) veritatem experiri debuisti. Animadvertisti sic inimicitiae repudiationisque augeri vim, quae circa Iesum gradatim adolescebat usque ad crucis horam, in qua mundi Salvatorem, Davidis heredem, Dei Filium, veluti omni re destitutum, ludibrio habitum inter latrones morientem videre debuisti. Verbum suscepisti: �ier, ecce filius tuus 輩>Io 19,26). Ex cruce novam missionem excepisti. Ex cruce nova quidem ratione mater es facta: mater scilicet illorum qui in tuum Filium credere Eumque sequi volunt. Doloris gladius cor tuum pertransivit. Eratne spes mortua? Eratne orbis tandem sine luce, vita sine meta? Hora illa tuo in animo iterum angeli verbum procul dubio auscultasti, quo ipse annuntiationis momento metuenti tibi responderat: timeas, Maria! 輩>Lc 1,30). Quam saepe Dominus, tuus Filius idem suis discipulis dixerat: Nolite timere! In Golgothae nocte hoc verbum rursus audivisti. Suis discipulis antequam traditus est Ipse dixerat: 㯮fidite, ego vici mundum 輩>Io 16,33). ꎯn turbetur cor vestrum neque formidet 輩>Io 14,27). timeas, Maria! ɮ Nazarethana illa hora tibi dixit quoque angelus: ⥧ni eius non erit finis 輩>Lc 1,33). Num finem habuit antequam inciperet? Nullo pacto, iuxta crucem, per ipsum Iesu verbum, tu credentium facta es mater. Hac in fide, quae Sabbati sancti etiam in tenebris spei erat certitudo, ad matutinum Paschae tempus occurristi. Resurrectionis gaudium tuum cor tetigit teque novum in modum cum discipulis coniunxit, ad Iesu familiam efficiendam per fidem destinatis. Sic intra credentium communitatem fuisti, qui diebus post Ascensionem Domini unanimiter pro Spiritus Sancti dono orabant (cfr Act 1,14), quod Pentecostes die receperunt. Iesu ⥧num ᬩud erat atque homines finxerant. ⥧num 诣 illa hora initium cepit, numquam finem habiturum. Ita inter discipulos eorum veluti Mater manes, sicut spei Mater. Sancta Maria, Mater Dei, Mater nostra, credere, sperare diligereque nos tecum doce. Eius ad regnum nobis demonstra viam! Maris stella, illumina nos nosque itinerantes dirige.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 novembre, festa di Sant'Andrea Apostolo, dell'anno 2007, terzo di Pontificato. Datum Romae, apud S. Petrum, die XXX mensis Novembris, festo die S. Andreae Apostoli, anno MMVII, Pontificatus Nostri tertio.





BENEDICTUS    PP. XVI



[1] Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, n. 26003.

[2] Cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429.

[3] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1817-1821.

[4] Summa Theologiae, II-IIae, q. 4, a. 1.

[5] H. K㴥r: ThWNT, VIII (1969) 585.

[6] De excessu fratris sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274.

[7] Ibid, II, 46: CSEL 73, 273.

[8] Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL 44, 68-73.

[9] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1025.

[10] Jean Giono, Les vraies richesses, Paris 1936, Pr馡ce in: Henri de Lubac, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, VII.

[11] Ep. 130 Ad Probam 13, 24: CSEL 44, 67.

[12] Sententiae III, 118: CCL 6/2, 215.

[13] Cfr ibid. III, 71: CCL 6/2, 107-108.

[14] Novum Organum I, 117.

[15] Cfr. ibid. I, 129.

[16] Cfr New Atlantis.

[17] In: Werke IV, a cura di W. Weischedel (1956), 777. Le pagine sulla Vittoria del principio buono costituiscono, come 蠮oto, il terzo capitolo dello scritto Die Religion innerhalb der Grenzen der bloߥn Vernunft (La religione entro i limiti della sola ragione), pubblicato da Kant nel 1793.

[18] I. Kant, Das Ende aller Dinge, in: Werke VI, a cura di W. Weischedel (1964), 190.

[19] Capitoli sulla caritଠCenturia 1, cap. 1: PG 90, 965.

[20] Cfr ibid.: PG 90, 962-966.

[21] Conf. X 43, 70: CSEL 33, 279.

[22] Sermo 340, 3: PL 38, 1484; cfr F. Van der Meer, Augustinus der Seelsorger, (1951), 318.

[23] Sermo 339, 4: PL 38, 1481.

[24] Conf. X, 43, 69: CSEL 33, 279.

[25] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2657.

[26] Cfr In 1 Joannis 4, 6: PL 35, 2008s.

[27] Testimoni della speranza, Cittࠎuova 2000, 156s.

[28] Breviario Romano, Ufficio delle Letture, 24 novembre.

[29] Sermones in Cant., Serm. 26,5: PL 183, 906.

[30] Negative Dialektik (1966) Terza parte, III, 11, in: Gesammelte Schriften Bd. VI, Frankfurt/Main 1973, 395.

[31] Ibid., Seconda parte, 207.

[32] DS 806.

[33] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 988-1004.

[34] Cfr ibid., n. 1040.

[35] Cfr Tractatus super Psalmos, Ps. 127, 1-3: CSEL 22, 628- 630.

[36] Gorgia 525a-526c.

[37] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1033-1037.

[38] Cfr ibid., nn. 1023-1029.

[39] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1030-1032.

[40] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1032.

[1] Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, n. 26003.

[2] Cfr Poemata dogmatica, V, 53-64: PG 37, 428-429.

[3] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, nn. 1817-1821.

[4] Summa Theologiae II-IIae, q. 4, a. 1.

[5] H. K㴥r: ThWNT, VIII (1969) 585.

[6] De excessu fratris sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274.

[7] Ibid, II, 46: CSEL 73, 273.

[8] Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL 44, 68-73.

[9] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesie, n. 1025.

[10] Jean Giono, Les vraies richesses, Paris 1936, Pr馡ce in: Henri de Lubac, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, VII.

[11] Ep. 130 Ad Probam 13, 24: CSEL 44, 67.

[12] Sententiae III, 118: CCL 6/2, 215.

[13] Cfr ibid. III, 71: CCL 6/2, 107-108.

[14] Novum Organum I, 117.

[15] Cfr. ibid. I, 129.

[16] Cfr New Atlantis.

[17] In: Werke, IV, curante W. Weischedel (1956), 777.

[18] I. Kant, Das Ende aller Dinge, in: Werke VI, curante W. Weischedel (1964), 190.

[19] Capita de charitate, Centuria 1, cap. 1: PG 90, 965.

[20] Cfr ibid.: PG 90, 962-966.

[21] Conf. X, 43, 70: CSEL 33, 279.

[22] Sermo 340, 3: PL 38, 1484; cfr F. Van der Meer, Augustinus der Seelsorger, (1951), 318.

[23] Sermo 339, 4: PL 38, 1481.

[24] Conf. X, 43, 69: CSEL 33, 279.

[25] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 2657.

[26] Cfr In 1 Ioannis 4,6: PL 35, 2008s.

[27] Cfr Testimoni della speranza, Cittࠎuova 2000, 156s.

[28] Breviarium Romanum, Ad Officium lectionis, 24 Novembris.

[29] Sermones in Cant., Serm. 26,5: PL 183,906.

[30] Negative Dialektik (1966), pars tertia, III, 11, in: Gesammelte Schriften, Bd. VI, Frankfurt/Main 1973, 395.

[31] Ibid., pars altera, 207.

[32] DS 806.

[33] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, nn. 988-1004.

[34] Cfr ibid., n. 1040.

[35] Cfr Tractatus super Psalmos, Ps. 127, 1-3: CSEL 22, 628-630.

[36] Gorgias 525a-526c.

[37] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, nn. 1033-1037.

[38] Cfr ibid., nn. 1023-1029.

[39] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, nn. 1030-1032.

[40] Cfr Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 1032.


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(*) Testi prelevati dal sito www.vatican.va

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