La storia della Parrocchia |
Nasce il Lorenteggio
Prima che nascesse il quartiere (1939-1940), Lorenteggio prendeva il nome della cascina, col suo antico «Palazzotto» di proprietà dei sigg. Borasio. Lorenteggio si poteva considerare una piccola borgata: la stazione di S. Cristoforo, le case vecchie di Piazza Tirana, el Palazun (il Palazzone) di via Gonin e, in fondo a questa, la ditta Carmagnani, in via Pietro Giordani. Qua e là qualche cascina: la Corba, l' Arzaga, la Travaglia e la Cassinetta. Prati, marcite, fossi facevano da contorno a questi pochi edifici e ci si addormentava al canto dei grilli e ai cori delle rane.
La via Gonin intorno al 1920 si chiamava «prolungamento di Via Solari»; poi via Giambellino fino all'attuale denominazione. Chi era nato in questa zona fino al 1923 non era per l'anagrafe «milanese», bensì un «provinciale» di Corsico e quando si recava in centro diceva: «andemm a Milan» (andiamo a Milano).
Gli abitanti facevano parte della parrocchia di Cesano Boscone e da qui veniva un sacerdote per celebrare la messa nella cappella privata della cascina Lorenteggio e per il catechismo ai ragazzi che si preparavano alla Prima Comunione e Cresima. Anch 'io ero tra questi e ricordo che la signora Borasio, per queste circostanze, metteva a disposizione la sua carrozza per il trasporto a Cesano.
Il Giambellino agli inizi del 1940
Tra la fine del 1939 e l'inizio del 1940 viene ultimata la costruzione delle prime case popolari del quartiere «Giambellino», e vi si stabilisce il primo nucleo di abitanti. Ci riferiamo in particolare ai caseggiati n. 138-140-142-144 di via Giambellino, seguiti poi da quelli di via Apuli, via Segneri, via Manzano, via Inganni, via Odazio. La popolazione che si insedia in questa zona è eterogenea per provenienza e per estrazione sociale. Numeroso è il gruppo dei cosiddetti «rimpatriati» dall'estero, di coloro cioè che, accolto l'invito del Duce, ritornano in patria lasciando i vari luoghi di residenza. Per immaginare la situazione che si creerà in questa zona, è sufficiente considerare i luoghi di provenienza: Francia, Marocco, Tunisia e, quindi, la molteplicità di esperienze, di tradizioni, di usanze che ogni nucleo porta con se. A questi poi si aggiungono molti meridionali in cerca di una miglior sistemazione e molte famiglie, già residenti a Milano, ma trasferite al Giambellino per l' assegnazione della casa popolare.
Piuttosto difficoltosa è l'integrazione di questi nuclei in una periferia priva ancora dei servizi essenziali e dei mezzi di comunicazione. Si incrociano le più svariate lingue e dialetti: l'italiano, il francese, il napoletano, il siciliano e, in minima parte, il milanese. I nuclei familiari sono veramente numerosi: la maggior parte è costituita da una media di 4 figli a 10 ed oltre e viene assistita dalla famosa E.C.A. (Ente comunale di assistenza). La situazione non è favorita neppure dal clima che, in quei primi anni, ci propina inverni terribilmente rigidi, nebbie fittissime che avvolgevano il quartiere disorientando in modo particolare coloro che provenivano dai climi caldi e solari. Attorno: distese di campi coltivati, di prati, di marcite, intervallati da ruscelli, fontanili e da stradine sassose che conducevano alle cascine e alla cava. Il quartiere era soprannominato «Casbah», espressione efficace per definire l'eterogeneità degli abitanti, la molteplicità di situazioni, di linguaggi, di bisogni.
Andavamo con la «Carioca»
Al famoso «Rondò Giambellino» terminavano la loro corsa i tram n. 9 e 28. Qui stazionava una traballante corriera detta «Carioca» che, percorrendo l'ultima parte di via Giambellino, sostava in piazza Albania (oggi piazza Tirana) e proseguiva fino alla stazione di San Cristoforo. Lì si trovavano i primi negozi, naturalmente quelli indispensabili: il panettiere, il droghiere, il lattaio. Poco dopo comparvero anche le bancarelle di frutta e di verdura agli angoli delle strade.
La più vicina scuola elementare era quella di via Vespri Siciliani. Lì furono convogliati quasi tutti i ragazzi del quartiere. L 'inserimento nelle varie classi non fu facile perché molti non conoscevano la lingua italiana e dovettero recuperare nel corso degli anni le molteplici lacune. Per raggiungere la scuola c'era poi la famosa Carioca sempre stracarica e che, specialmente nella brutta stagione, faceva le sue fermate tra pozzanghere e sassi. Questa fu l'origine del quartiere Giambellino che nel corso degli anni si svilupperà notevolmente fino a comprendere il Lorenteggio. Ma una bufera è vicina: è il 1940 e l'Italia entra in guerra. Per cinque anni gli abitanti del quartiere sopporteranno l'ansia e il pericolo continuo dei bombardamenti; la scarsità di generi alimentari (vennero distribuite le famose tessere annonarie); la mancanza di riscaldamento, di abbigliamento, e di qualsiasi altro genere di prima necessità; il richiamo alle armi dei giovani e in particolare dei padri di famiglia; la «borsa nera», vero flagello per le esigue risorse dei cittadini. A distanza di tempo possiamo però intravedere i lati positivi di quel periodo in cui «si viveva insieme, si cresceva insieme». Le porte delle case erano sempre aperte per dare spazio al vicino di casa, per condividere con lui i momenti più significativi. Parole come solidarietà, collaborazione, disponibilità non venivano neppure pronunciate, ma venivano vissute nell'intensità del loro significato.
Forse la lotta quotidiana per la sopravvivenza faceva nascere spontaneamente questi sentimenti, forse la mancanza anche del necessario scopriva ed esaltava quello che uno è e non quello che uno ha. Certamente fu - quel periodo - una scuola di vita in cui si imparò a smussare i problemi, ad accontentarsi dell'essenziale e ad apprezzare le cose che contano e che lasciano un segno per tutta la vita. Esistevano, certo, tante difficoltà, tante sofferenze, tanti dolori, ma la gente non si sentiva isolata, non c'era la solitudine e l'emarginazione perché ognuno cercava di accettare «l'altro, il suo prossimo» e di condividere con lui le varie esperienze della vita.
Ci si industriava a «creare» con pochi mezzi a disposizione perché quello che contava era «sentirsi amici» e far parte di una comunità. I sacerdoti erano figure insostituibili; venivano accolti nelle case, partecipavano alle vicende delle famiglie, sostenevano chiunque.
Chiesa-casa-scuola erano tre punti di riferimento precisi.
Luciana Dal Ben
Parla don Angelo Bozzi
Il primo prete del Quartiere
Sono nato nel 1927 alla Cascina Corba, il primo nucleo della parrocchia del Lorenteggio. Mio padre, Attilio Rozzi, era il «fittabile», cioè l'affittuario della Cascina che era di proprietà del Comune di Milano. Prima della guerra avevamo una cinquantina di capi di bestiame. I miei venivano da Quarto Cagnino ma mia mamma era originaria di Lodi e suo padre, cioè mio nonno, aveva due fratelli sacerdoti. In famiglia eravamo in cinque con mio fratello Mario e mia sorella Virginia. Rimanemmo alla Cascina Corba fino al 1950 quando ormai, per le continue costruzioni, non erano più rimasti prati per alimentare le stalle. Nel 1950, quand'io ero seminarista, i mei si trasferirono a Corsico.
Negli anni Trenta la zona del Lorenteggio era semplicemente una manciata di cascine all'estrema periferia di Milano, fra prati e marcite, al confine con il territorio del comune di Cesano Roscone. Quella zona apparteneva alla parrocchia del Rosario e infatti là io ricevetti la Prima Comunione mentre fui cresimato in Duomo dal cardinale Schuster ne11935. Negli anni fra il 1936 ed il 1939 la zona divenne pertinenza della parrocchia di San Vito al Giambellino.
In quegli anni che hanno preceduto la guerra 1'Istituto Case Popolari cominciò a costruire intorno a piazza Tirana e dalla stazione di San Cristoforo verso l'ospedale di Raggio; erano case destinate ai rimpatriàti, soprattutto dalla Francia e dall' Algeria, e infatti lì erano in tanti a parlare francese. lo frequentavo la scuola «Nazario Sauro» in via Vespri Siciliani, abbastanza lontano da casa mia. Dal centro i tram 28 e 9 arrivavano fino al rondò del Giambellino e poi si doveva prendere una corriera, che chiamavano «carioca» e che percorreva quelle strade non asfaltate.
Ricordo di aver visto proprio sorgere queste case, fabbricate con un sistema ora non più in uso: la preparazione a terra delle pareti che poi venivano installate con le gru. La gente, all'inizio della guerra, aveva paura ad abitare in quelle case perché dicevano sarebbero cadute semplicemente con uno sputo dei piloti dei bombardieri.
I padri Giuseppini del Murialdo, per l'esattezza due veneti, uno di mezza età, padre Velo, ed uno più giovane, padre Sambugaro, vennero nella nostra cascina, la Cascina Corba, all'inizio dell'inverno del 1940.
Mio fratello che frequentava il Politecnico era stato qualche volta alla mensa nel pensionato che loro avevano in via Botticelli a Città Studi. Era stato il cardinale Schuster ad indicare a questi due religiosi la nostra famiglia perché il papà era il fittabile della cascina e mia mamma non solo aveva due zii sacerdoti nella diocesi di Lodi ma ogni sera radunava tutti per la recita del Rosario. Già quando appartenevano alla parrocchia del Rosario, che distava quattro chilometri dalla nostra cascina, ogni domenica si andava con la carrozza a prendere il prete per la celebrazione della messa nella nostra cappella.
Ricordo la prima visita di padre Giacomo e Padre Silvio. Vennero in cascina e andò incontro a loro il nostro cane, uno spinone di nome Brick, che li annusò ma non li aggredì come potevano temere. Al sabato per le confessioni e pernottando poi a casa nostra per poter celebrare la messa alla domenica venne per un po' di tempo padre Velo. Contemporaneamente il suo confratello, padre Sambugaro, si era sistemato in modo stabile nella Cascina Lorenteggio che era anche più vicina al nuovo quartiere. Là era sorto un primo ufficio parrocchiale per i matrimoni e i battesimi e vi si celebrava la messa quotidiana.
La Cascina Corba era di proprietà del Comune ed i miei erano solo degli affittuari mentre la Cascina Lorenteggio era di proprietà privata, dei signori Borasio, e là c'era quasi sempre la padrona, la signora Laura, la quale però non voleva che si celebrassero i funerali in quella cappella e così per i funerali venivano da noi alla Corba.
L 'uso delle cappelle delle Cascine durò, però, solo pochi mesi, perché già nell'ottobre del '41 era pronto un capannone per metà chiesa e per metà asilo e oratorio.
Ne1 1944, a 17 anni, io scelsi di farmi religioso fra i Giuseppini del Murialdo, direi per simpatia non perché padre Velo o padre Sambugaro me ne avessero parlato. Un giorno entrai in oratorio dove c'era don Giuseppe con tanti ragazzi e mi venne il desiderio di fare il maestro come lui. Mi invitarono a Triuggio per un corso di esercizi e già nella predicazione si parlava di vocazione. Fu là che presi la decisione di farmi religioso e di fatti a 18 anni iniziai il noviziato ed a 19 cominciai a fare il maestro.
Ricordo che al Lorenteggio ogni mattina i chierici schieravano tutte le scolaresche lungo una strada laterale, via Manzano, e facevano recitare le preghiere in strada prima dell'inizio delle lezioni. Quando partii per il noviziato c'era già il capannone da qualche anno e ricordo che padre Velo mi disse: «Canterai la tua prima messa nella chiesa nuova». Invece ne passeranno ancora tanti di anni prima di
vedere la chiesa nuova. Ricordo altri due religiosi Giuseppini, entrambi provenienti dal Veneto, che tanto fecero fin dagli inizi della chiesa-capannone: padre Mario Bevini che era un musicista di grande valore e creò la Schola cantorum e padre Luigi Parussini che aveva una grande capacità nella gestione dell'oratorio. Padre Luigi venne chiamato don Giuseppe perché era un padre Giuseppino e per che in parrocchia c'era già un don Luigi: padre Luigi Masiero.
C'è un particolare che vorrei sottolineare: quando il 26 ottobre 1941 veniva benedetta dal card. Ildefonso Schuster la chiesa-capannone, a servir messa quella mattina c'erano due chierichetti, io, che venni consacrato sacerdote nel 1953, dopo essere passato dal noviziato dei Giuseppini al seminario diocesano, e don Italo Ghidoni, ora viceparroco nel Duomo di Novara. lo, in particolare, posso dire di essere stato il primo prete del Lorenteggio. Venni infatti ordinato dal cardinale Schuster in Duomo nel 1953 quando i miei erano già a Corsico. Allora al Lorenteggio era parroco padre Silvio Sambugaro; il primo parroco, padre Giacomo Velo, era già morto nell'aprile 1950.
Fino al 1959 lavorai come coadiutore in alcune parrocchie di Milano e dal 1959 al 1981 fui parroco in Brianza, a Burago ed a Lambrugo. Dal 1981 al 1986 ebbi l'incarico di cappellano alla Clinica Mangiagalli e nell'86 all'Ospedale di Niguarda. Dal 1987 sono parroco di Sangiano in provincia di Varese.
La Schola cantorum santa Cecilia
Con la chiesa provvisoria, la comunità parrocchiale cominciava a vivere. Tra le primissime iniziative occorre subito citare la Schola cantorum santa Cecilia. Naturalmente parlare di questa significa innanzi tutto ricordare il grande maestro, don Mario Bevini. Questi, giunto a Milano nel 1940, fu assegnato, l'anno seguente, alla parrocchia.
Dotato di grande talento musicale, di sensibilità non comune e di grandi doti di umanità, si mise all'opera con dedizione e con illimitato spirito di sacrificio. Servendosi soprattutto della musica e del canto come strumenti di apostolato e di formazione dei giovani, istituì la Scuola di canto. Fin dalle prime esecuzioni i cantori piccoli e grandi suscitarono l'attenzione e l'ammirazione del cardinale Schuster che li soprannominò i «canarini del Lorenteggio » .
I meno giovani ricordano gli inizi avventurosi: per coinvolgere il maggior numero possibile di ragazzi e di giovani, don Mario li avvicinava in chiesa, per le strade, nelle famiglie, dovunque gli fosse possibile stabilire un contatto. Per ottenere poi una costante partecipazione alle «prove», percorreva, sopra una sgangherata bicicletta, le strade del quartiere fermandosi ai vari caseggiati e chiamando a viva voce i ragazzi.
Ed è appunto con costanza che riuscì a formare tante voci che si esprimevano con perfezione tecnica, con sensibilità, in perfetta armonia con la melodia dei suoni. I cantori assorbivano l'intensità emotiva con la quale il loro maestro interpretava uno spartito musicale, ne sentivano il coinvolgimento profondo e penetrante espresso dai gesti e dal viso, e riuscivano a suscitare grandi emozioni e sensazioni negli ascoltatori.
La loro fama si estese ben presto e vennero richiesti dalla Scala e da altri prestigio si enti; parecchie volte furono presenti con l'ente scaligero a Londra e a Parigi.
Comparvero anche in televisione. Non si contano le esecuzioni fatte nelle varie parrocchie milanesi in occasione di solenni celebrazioni.
Tra le innumerevoli espressioni di elogio e di ammirazione che giungevano da più parti, riportiamo una frase significativa scritta dal maestro Cattaneo, grande musicista del tempo, che aveva assistito ad una messa cantata. Scrisse: « ...la musica, le belle voci hanno potenziato la mia preghiera. ..cantavano non con le voci, ma con l'anima! Beati loro!»
Le brillanti esecuzioni dei cantori evidenziarono le finalità primarie ed essenziali: elevare l'anima a Dio perché il canto diventasse preghiera attraverso un impegno serio volto ad arricchire cristianamente la propria personalità. I cantori furono indiscutibilmente una parte integrante della comunità parrocchiale del Lorenteggio e camminarono insieme per raggiungere i vari traguardi della vita. La Schola si sciolse attorno al 1969, anno in cui il principale animatore, don Mario Bevini, fu costretto a lasciare Milano per assumere altri incarichi pastorali a Vicenza.
Luciana Dal Ben
Quando la Grazia di Dio era la polenta
La testimonianza di padre Silvio
Sambugaro parroco dal 1949 al 1962
Ero un prete novello, ordinato il 26 maggio 1935 a Treviso, quando mi mandarono in parrocchia a Venezia. Da sempre sofferente di asma speravo di ristabilirmi in riva al mare. Avevo allora 26 anni essendo nato a Gazzo Padovano il 15 luglio 1909. Mi trovai subito bene in quella parrocchia dedicata alla Madonna dell'Orto che veniva spesso visitata dai turisti perché conservava opere del Tintoretto. Fu là che conobbi padre Giacomo Velo che aveva già fondato una parrocchia, quella della sacra Famiglia a Napoli per incarico del superiore generale, padre Luigi Casaril, che fu per 27 anni alla guida della nostra congregazione. A Venezia padre Velo, che era originario di Bassano del Grappa, continuando questo suo carisma aveva fondato un'altra parrocchia.
Erano momenti difficili. Nell'autunno 1939 la Germania di Hitler attaccava su tutti i fronti mentre in Italia Mussolini, legato alla Germania con il Patto d' Acciaio, si teneva in una posizione di «non belligeranza». La gente sperava soltanto che lo spettro della guerra passasse lontano dal nostro Paese ed invece il
10 giugno 1940 dal balcone di Palazzo Venezia a Roma il Duce annunciava che l'Italia entrava in guerra a fianco della Germania nazista. Quelle parole: «un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, l' ora delle decisioni irrevocabili. ..» diedero inizio ad una lunga e tragica avventura per il nostro Paese.
Il 10 giugno 1940 padre Giacomo Velo era da poco arrivato a Milano, inviatovi dal superiore generale per dirigere un pensionato universitario. Era nella zona di Città Studi in una villetta, di proprietà di una banca, la Cassa di Risparmio, destinata ad ospitare una decina di studenti universitari e fino allora gestita da altre persone che facevano capo alla Curia di Milano. C'erano due donne di servizio, una per la cucina e l'altra per le pulizie; la casa era bella, grande e la banca voleva diecimila lire all'anno di affitto.
A Venezia dove ormai stavo da cinque anni, il clima non si era rivelato adatto per la mia salute ed i medici mi consigliarono, per curarmi dell'asma, di trasferirmi in collina. Pensavo di partire per Conegliano Veneto, perché là ero stato destinato, ma padre Velo mi chiamò a Milano. Forse aveva notato che avevo lavorato bene a Venezia con i giovani e con il rettorato di una chiesa succursale che era un santuario dedicato alla Madonna delle Grazie. Il mio superiore mi cambiò l'obbedienza, cioè la destinazione e così presi il treno per Milano.
Erano i primi giorni del settembre 1940, la sera prima della mia partenza c'era stato un disastroso bombardamento nel porto di Marghera. Quando era partito per Milano in giugno, padre Velo aveva lasciato a Venezia la gabbietta con il suo usignolo e toccò a me portarglielo. A vevo una valigetta con le mie poche cose e quella gabbietta. I miei confratelli mi avevano detto che l'usignolo doveva pagare il biglietto ma io non avevo denaro e così quando venne il controllore io temevo di essere costretto a pagare anche una multa. La gabbia era sulla reticella sopra la mia testa dietro la valigia, l'usignolo non cantò e il controllore non se ne accorse. Arrivato all'indirizzo di Città Studi, in via Botticelli, trovai padre Giacomo Velo il quale mi alloggiò provvisoriamente in soffitta poi che tutte le stanze erano occupate. Misi un po' di carta sulle travi, appesi a dei chiodi le mie cose e mi sistemai lassù.
«Io penso di mandarvi in un posto dove
non c'è "né loco né foco", cioè ne chiesa ne casa canonica»
La presenza di un fondatore di parrocchie come padre Velo a Milano era stata probabilmente concordata tra la nostra casa generalizia di Roma e il cardinale Schuster. Certo io non ne sapevo nulla fin quando, circa un mese dopo il mio arrivo, padre Velo mi disse: «Oggi andiamo dal cardinale Schuster». Prendemmo il tram per raggiungere il centro e fummo subito ricevuti dal cardinale. «Ah, siete voi i Padri Giuseppini del Murialdo», ci disse con la sua vocina. «Io penso di mandarvi in un posto dove non c'è "né loco né foco", cioè ne chiesa ne casa canonica». E padre Velo rispose: «Eminenza, la Provvidenza ci sarà anche per noi». Fu da allora che il cardinale Schuster prese a benvolerci al punto che in Curia poi si diceva che era proprio l' Arcivescovo a volerei religiosi nelle parrocchie, i preti diocesani avevano stabilito di tenersi le parrocchie ed invece era arrivato Schuster a. ..«tirare il catenaccio ed aprire la porta ai religiosi».
In quell'incontro il Cardinale ci parlò della Cascina Corba e di una famiglia che ci avrebbe potuto accogliere. Ci andammo subito anche se, essendo i primi di novembre, stava già facendo buio. Altro tram ed un bel tratto di strada a piedi fino ad un viottolo che conduceva alla cascina. A poche centinaia di metri dall'edificio ci viene incontro un cane. Eravamo con l'abito lungo e scuro e ci fermammo un po' impauriti. Il cane fece un giro attorno a me e poi attorno a padre Velo; ci annusò ma non ci fece nulla di male. In fondo al viottolo vedemmo comparire la figura di un uomo e in quel momento padre Velo mi disse in veneto, lui di Bassano e io padovano: «Buon segno, se il cane è stato buono sarà buono anche il padrone».
E il «paron», cioè il signor Attilio Bozzi, padre di un ragazzo che sarebbe poi diventato sacerdote, don Angelo, si mostrò subito molto ospitale. Ci accompagnò nella cascina dove abitavano una decina di famiglie di contadini che lavoravano i terreni lì atto!no, tutti prati e marcite. In una di queste famiglie viveva un giovane, Mario Prandini, che sarebbe poi diventato il nostro sagrestano.
Alla Cascina Corba i Bozzi, spostando la camera della figlia, misero a nostra disposizione una stanza e ci si intese subito. Padre Velo, ogni settimana, partendo da Città Studi sarebbe arrivato alla Cascina di sabato per confessare; avrebbe cenato in casa Bozzi e si sarebbe poi fermato per celebrare la messa della domenica in una cappellina dedicata a San Carlo Borromeo.
Qualche giorno dopo ci recammo alla Cascina Lorenteggio che veniva chiamata Palazzotto e dove vivevano una dozzina di famiglie. La cascina, che era al confine con il comune di Cesano Boscone e a pochi metri dall'edificio del dazio di Milano, era di proprietà del commendator Lorenzo Borasio e della sua consorte, signora Laura. I Borasio erano stati commercianti di carne e a quell'epoca erano anche proprietari di cavalli che facevano correre a San Siro. Il sovrintendente della cascina era un piemontese, si chiamava Pochettino, aveva moglie e due figli. Anche al Palazzotto c'era una cappellina dedicata alla Madonna delle Grazie con l'entrata dal cortile interno. lo sarei dovuto diventare il prete stabile di quella cappella e quella, più che la Cascina Corba dove padre Velo c'era solo poche ore alla settimana, era destinata a diventare una piccola parrocchia. Per ospitarmi i Borasio mi misero a disposizione una stanza molto grande ricavando un angolo con un paravento per il letto e qui portai le mie poche cose dalla soffitta di Città Studi.
Subito cominciai con le visite alle famiglie e agli ammalati nelle case e cascine della zona fra la via Gonin e piazza Tirana. La via Lorenteggio non era asfaltata, i tram 9, per il centro, e 28, per le stazioni, arrivavano fino al vecchio rondò di via Giambellino e poi si doveva proseguire con una vecchia corriera su strade non asfaltate. Lungo la via Giambellino c'erano alcune case popolari di 3-4 piani costruite sulla destra mentre a sinistra c'erano ancora orti e prati. Il cardinale Schuster dopo poche settimane venne di persona alla Cascina Lorenteggio e parlò con il signor Pochettino il quale gli disse che ero in giro, in visita agli ammalati. Mi lasciò i suoi saluti ed alcune immaginette.
All 'inizio mi fermavo per pranzo in una trattoria in via Sant' Anatalone, ma poi donna Laura Borasio mi disse di fermarmi che la cuoca avrebbe pensato anche a me poiche cucinava spesso per i molti amici che i Borasio ospitavano alla cascina. A volte dovevo stare fino alle due ad aspettare la zuppiera e mi addormentavo con la testa sul tavolo.
Nella zona di via Inganni l'Istituto Case Popolari aveva fatto costruire una serie di abitazioni da destinare ad italiani rimpatriati dall ' Algeria e dalla Francia e nella primavera del 1941 la zona per la mia attività pastorale era diventata così impegnativa che padre Velo pensò di mandarmi in aiuto don Claudio Domeniconi.
All'inizio del 1941 andammo ad abitare in via Inganni 6, scala H, in una di quelle case popolari mettendo là l'ufficio della futura parrocchia. Ricordo che per i mobili ci arrangiammo con quelli scartati dalla Cassa di Risparmio e portati nel loro deposito all'economato di via Giambellino. Venne con noi anche padre Velo che traslocò da Città Studi le sue cose con un carro della famiglia Hozzi della Cascina Corba e ci sistemammo in due appartamentini comunicanti fra loro. Nei primi mesi del '41 faceva molto freddo e per scaldarci andavamo a raccogliere i pezzi di legno scartati dai vicini cantieri.
In quei giorni sul giornale cattolico L 'Italia apparve la notizia che ai Padri Giuseppini di Leonardo Murialdo, che avevano la Delegazione arcivescovile al Lorenteggio, sarebbe stata anche destinata la parrocchia della Torrazza, al Gallaratese. Ci andai con padre Velo ma non potemmo accettare perché già impegnati al Lorenteggio. Il mio confratello aveva già adocchiato il terreno dove la Curia avrebbe costruito, in quello stesso anno, il capannone della chiesa provvisoria.
Con l' arrivo della primavera si cominciò a celebrare la messa all'aperto in uno spiazzo fra le case popolari di via Segneri 3, dove i muratori ci avevano allestito un piccolo altare. Don Claudio Domeni coni celebrava la messa, don Velo predicava e guidava i canti con la sua voce possente ed io giravo con un canestro per raccogliere le offerte. Ricordo che buttavano monetine fin dal terzo piano.
Intanto i lavori al capannone provvisorio erano iniziati sotto la guida dell'architetto Ugo Zanchetta, anche lui di Bassano come padre Velo. All'inizio di giugno il cardinal Schuster ci convocò in Curia chiedendoci quale titolo dare alla parrocchia. lo a Venezia mi occupavo dei giovani che erano aggregati nel gruppo di Azione Cattolica «San Sebastiano» e intendevo fare altrettanto al Lorenteggio; quindi suggerii proprio quel santo. Il cardinale mi fece notare che già c'era un San Sebastiano, il tempio civico, in centro. Però mi volle accontentare e disse: «Lo chiameremo San Sebastiano extra moenia, fuori le mura».
Occorreva costruirè il capannone prima che arrivasse l'inverno e così si pensò di mandare una lettera a tutti i capifamiglia della nuova parrocchia chiedendo l'impegno a versare nella prima settimana di ogni mese la somma di 5 lire. Il capannone era stato pensato per un duplice servizio: da una parte per il culto religioso con un altare al centro, dall'altra come asilo provvisorio, per adunanze e sani divertimenti; c'era anche un piccolo palco per le recite. Nel frattempo, per interessamento delle Conferenze femminili San Vincenzo e con l'aiuto dell'Istituto Case Popolari, si stavano allestendo i locali per l'asilo dei bambini e per le scuole di lavoro e studio delle fanciulle.
Le prime due suore, dell'ordine delle Sorelle della Misericordia, invitate da padre Velo, che era in contatto con la superiora generale dell'ordine, suor Maculan, arriveranno da Verona il 10 dicembre 1941.
* * *
Nell'ottobre 1941 il capannone era pronto e venne fissata la data del 26, festa di Cristo Re, per la benedizione. Alle 6 del mattino il cardinal Schuster già celebrava la prima messa perché alle 8 doveva celebrare in Duomo. Era un giorno di nebbia, ma nonostante l'ora mattutina c'era gran folla. Alla messa cantarono per la prima volta i ragazzi che don Mario Bevini, giunto da poche settimane, aveva preparato in tutta fretta. L' Arcivescovo benedisse il capannone e l'altare in legno presenti il cerimoniere, monsignor Borella e l' ostiario Macchi e poi si trovÒ in difficoltà nel distribuire le immaginette. Non aveva previsto così tanta gente.
La parrocchia aveva così avviato il suo cammino con una chiesa, sia pure provvisoria. Il 17 dicembre si celebrò il primo battesimo, il 24 il primo funerale e il 4 gennaio 1941 il primo matrimonio. L 'anno successivo, il 2 maggio 1942, l' Arcivescovo per la prima volta amministrava la Cresima.
Ricordo un episodio che fece ridere tutti. Prima della Cresima il Cardinale fece alcune domande ai ragazzi in chiesa e fra queste: «Chi mi sa dire cos'è la Grazia di Dio?». Si alzò una mano fra quel nugolo di ragazzi e poi una voce con la risposta: «La polenta». In tempo di guerra non c'era molto sulle mense degli abitanti del Lorenteggio ed una polenta era davvero... una grazia di Dio.
Al Lorenteggio non ci sono stati soltanto momenti felici: il 14 febbraio 1943 il quartiere subisce il primo bombardamento aereo. Una bomba di grosso calibro cade sul palazzo di via Inganni 4 e produce danni anche alla chiesa-capannone. Poi i bombardamenti non si contano più: la gente alla sera si allontanava dal quartiere per timore o era pronta a correre nei rifugi. La zona era a rischio poiche eravamo fra il nodo ferroviario di San Cristoforo e l'ospedale militare. Le suore dovevano occuparsi dei bambini e delle famiglie più disagiate, ma loro stesse non avevano una casa per la comunità ed erano costrette a chiedere ospitalità presso privati. Solo più tardi, per mio interessamento, ottennero alcuni locali messi a disposizione dell'Istituto Case Popolari.
Nel novembre 1943, nella casa sinistrata di via Inganni 4, padre Luigi Masiero dà inizio alla scuola elementare anche se l'inaugurazione ufficiale avverrà il 10 gennaio 1944. La scuola è subito frequentata da un nugolo di ragazzi costretti prima di allora a raggiungere ogni mattina le scuole in via Vespri Siciliani. Nell ' ottobre 1946 gli iscritti alla scuola elementare «Murialdo» erano più di mille.
Il cardinale Ildefonso Schuster visita la scuola «Murialdo» (1946).
Il 19 dicembre 1943 il cardinale Schuster compie la sua prima visita pastorale alla parrocchia e scrive di averne «ricevuto grande consolazione ed edificazione». La parrocchia riconosciuta come «delegazione arcivescovile» riceverà il titolo di «prepositurale» il 19 maggio 1944 e don Giacomo Velo sarà nominato primo prevosto. Si dimise per salute, era sofferente di cuore, cinque anni dopo e il 13 novembre 1949 io gli succedetti nella carica di prevosto.
Padre Velo rimase in parrocchia come direttore dell ' opera San Sebastiano e cappellano delle suore mentre portava a conclusione le pratiche per la costruzione del fabbricato delle scuole. Morirà improvvisamente a Milano il 15 aprile 1950 dopo aver visto gettare le fondamenta dell ' opera da lui tanto desiderata.
Il 15 agosto 1950 si inaugurò l'istituto «Devota Maculan» che diventò il centro delle attività scolastiche e assistenziali delle Sorelle della Misericordia, ma il 21 marzo 1951 avviene il tragico crollo del muro dell'asilo "muro che travolge 13 bambine ed un maschietto. La gente voleva i funerali al Lorenteggio ma la chiesa-capannone non avrebbe potuto ospitare così tanta folla e fu così che il sindaco Greppi, il quale era subito accorso sul luogo del disastro, mi convocò in Comune e mi disse di aver concordato funerali solenni in Duomo presieduti dal cardinale Schuster ed il successivo corteo funebre con labari e gonfaloni fino al cimitero Monumentale.
Nell'ottobre 1952 entra in funzione il fabbricato delle scuole voluto da padre Velo e lì vengono trasferiti gli alunni della scuola elementare «Murialdo». In seguito ospiterà le scuole di avviamento «Tabacchi», la scuola media «Gioberti» ed ora il IX liceo scientifico statale.
In cambio di una chiesa distrutta dai bombardamenti in centro a Milano, il Genio Civile si impegna alla costruzione della nuova chiesa del Lorenteggio, ma i lavori vanno a rilento fino a fermarsi nell'anno '54. Allora io, saputo che il nuovo arcivescovo, Giovanni Battista Montini, sarebbe passato da via Forze Armate per una visita alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone mi accordai con il suo vicario, monsignor Schiavini, perché facesse una tappa alla mia parrocchia. L' Arcivescovo venne, vide il cantiere nel fango delle marcite, promise il suo interessamento. Il giorno dopo i lavori ripresero e non si fermarono più. Fu così che il3 dicembre 1955 monsignor Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI, poteva benedire la nuova chiesa parrocchiale.
Montini tornò da cardinale il 6 maggio 1960 in occasione dei festeggiamenti per il mio 25° di sacerdozio e per il mio decennale come prevosto del Lorenteggio, ma soprattutto per consacrare la chiesa, già arricchita dei vari altari di marmo e dell'organo, e per solennizzare con la sua presenza il ventennio della parrocchia che nel 1960 mutava la dedicazione, da San Sebastiano a «Cuore Immacolato di Maria». lo rimasi parroco del Lorenteggio fino al 1962 e lasciai la parrocchia, dopo 22 anni, a don Giulio Fin, che morì poi a Venezia il 18 maggio 1966.
padre Silvio Sambugaro per le vie del Lorenteggio nel suo xxv
anniversario di sacerdozio
(26-5-1960).
Credevo di riposare un po' ed invece fui assistente dei giovani a Sommariva Bosco fino al 1965 e poi a Santa Margherita Ligure fino al 1972 e infine dal 1972 al 1978 fui cappellano delle case di cura San Francesco e Castelli a Bergamo. Adesso finalmente mi riposo qui negli Istituti Educativi di via Santa Lucia a Bergamo, fra tanti ricordi e in attesa che il Signore mi chiami.
(a cura di Francesco L. Viganò)
«La nostra comunità pensa ai giovani»
di Padre Tarcisio Balzarin
Padre Tarcisio Balzarin è stato parroco di San Leonardo Murialdo dal 1983. Nato a Montecchio Maggiore in provincia di Vicenza l'11 novembre 1939 è stato ordinato sacerdote nel 1967 a Viterbo dove la congregazione di San Giuseppe ha il proprio Teologato. È a Milano dal 1976 proveniente da Torino dove i padri Giuseppini avevano uno Studentato inserito nella parrocchia dedicata a Nostra Signora della Salute e frequentato da una decina di giovani che intendevano avviarsi alla vita religiosa.
Nel 1976, dice p. Tarcisio, arrivai a S. Leonardo come vicario parrocchiale. In quello stesso anno il parroco, don Giuseppe Rosso, diventa padre provinciale e lascia il posto a don Carlo Pennazio che reggerà la parrocchia fino al 1979 quando gli subentrerà don Pietro Martini, morto improvvisamente il 10 luglio 1983.
Fu il padre provinciale don Guido Vischio a proporre al cardinale Carlo Maria Martini la mia nomina a parroco. Il decreto dell'Arcivescovo è del 23 settembre e l'ingresso ufficiale è del 13 novembre 1983 alla presenza di monsignor Marco Ferrari, vicario episcopale per Milano ed ora vescovo ausiliare del card. Martini.
Dopo le cerimonie religiose del mattino quel giorno, nel pomeriggio, don Pietro Rota, da poco giunto in parrocchia, organizzò un recital alI ' oratorio con i giovani.
Negli anni Settanta la scelta della comunità parrocchiale era quella di privilegiare la catechesi e la vita dei gruppi ed al mio arrivo a San Leonardo mi trovai coinvolto in questo lavoro anche con incontri di preghiera e momenti forti. Ricordo in particolare I' esperienza della professione di fede dei dici ottenni durante la Veglia Pasquale del 1977. Di questi giovani uno oggi è sacerdote, padre Mario Parati nella congregazione dei Giuseppini ed una ragazza, Manuela Marocchi, è suora salesia.
Anche all'inizio della vita della parrocchia due ragazzi che hanno servito come chierichetti il card. Schuster nella cerimonia di inaugurazione della chiesa-capannone sono diventati sacerdoti: don Angelo Bozzi e don Italo Ghidoni. Don Mario Parati è stato pure lui nostro chierichetto, animatore, insieme ad Emanuela, della messa dei giovani alle 18 e anche bravo organista.
Mio compito, come vicario parrocchiale, fu quindi quello di portare avanti la scelta di catechesi fatta dalla nostra parrocchia la quale ha il suo cuore nella comunità religiosa che ne ha la responsabilità.
Gli abitanti di questa parrocchia sono circa 11.000. Si tratta di una stima poichè noi conosciamo esattamente solo la popolazione dai 18 anni in su: 9594.
È previsto un ulteriore sviluppo demografico perché sono in costruzione tre caseggiati e quattro «torri» di 17 piani per iniziativa di una cooperativa delle Acli in via Gonin, al confine con il comune di Corsico.
La catechesi dei ragazzi nella quale mi sono impegnato al mio arrivo a San Leonardo alla fine degli anni Settanta era articolata in tre corsi che poi sono diventati quattro aggiungendo la prima media (l'età della Cresima) alle tre classi elementari (in quarta è prevista la Prima Comunione).
In più c'era l'impegno con i gruppi giovanili insieme a due altri confratelli: padre Valentino Bernardi e padre Vittorio Boglione. Quest'ultimo è rimasto in parrocchia per ben 19 anni fino all ' anno scorso e si è occupato della corale proseguendo l'opera iniziata da don Mario Bevini .
Anche negli anni Ottanta la nostra parrocchia ha cercato sempre di privilegiare la scelta della catechesi affiancandola ad una animazione ricreativa e sportiva con la nascita della «Murialdina», la polisportiva della nostra parrocchia che ha trovato un grande aiuto nella sensibilità di padre Vittorio e padre Pietro, come sacerdoti dell'oratorio, e di alcuni genitori che si sono impegnati in prima persona per questo impegnativo lavoro.
L 'Oratorio Murialdo oggi è una realtà viva che vede la preziosa attività volontaria e gratuita di tanti giovani e adulti.
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Ogni anno la nostra parrocchia stabilisce un programma operativo steso in genere all'inizio dell'anno pastorale, cioè a settembre, d'intesa con il Consiglio pastorale parrocchiale (Cpp), un organismo nato fin dal 1978, e che sta ora arrivando proprio quest'anno alla vigilia della quinta «legislatura» poiche la sua durata viene calcolata in tre anni.
Ci si muove abbastanza bene anche se non mancano le difficoltà ed è necessaria una simbiosi più armonica e completa fra Consiglio pastorale e Parrocchia. Non c'è ancora insomma un ingranaggio che li fa muovere in perfetto sincronismo. Il Consiglio si riunisce una volta al mese e si tratta spesso di riunioni costruttive, con gente che si impegna, che lavora, che si fa coinvolgere secondo le capacità di ciascuno.
Nel Cpp di quest'ultimo triennio ho constatato un crescendo nella sensibilità ai problemi della parrocchia.
La vita dei Gruppi alla fine degli anni Settanta era un altro aspetto del pianeta-parrocchia: dai ragazzi delle elementari che frequentavano il catechismo a quelli delle tre medie distinti fra maschili e femminili che si univano nei gruppi delle superiori con i loro animatori-responsabili.
Si può parlare oggi di un ridimensionamento di queste iniziative sia per il minor numero di ragazzi e giovani che vivono in parrocchia sia perché la proposta, caldeggiata all'inizio, ha perso molto del suo «mordente».
Nel 1982 è nata la proposta dell' Azione Cattolica Ragazzi e l'8 dicembre 1983 (ero da poco parroco al Murialdo) c'è stato l'insediamento ufficiale di questa aggregazione giovanile il cui assistente era don Vittorio.
Altra attiva aggregazione ecclesiale era quella dei Gruppi di ascolto che facevano riferimento alla spiritualità di Spello; uomini e donne, giovani e adulti che avevano chiesto ospitalità alla parrocchia. C'è ancora una piccola comunità che si incontra qui ogni settimana.
La Conferenza di San Vincenzo nel campo della carità è una presenza stabile fin dall'inizio. Ogni prima domenica del mese organizza e gestisce una raccolta per le persone bisognose della nostra parrocchia. Vorremmo arrivare ad una vera e propria Caritas parrocchiale, come esisteva anni or sono, perché deve operare in una diversa dimensione nel campo della carità di cui la San Vincenzo porta avanti un solo capitolo come il servizio ai bisognosi della nostra parrocchia.
È nato anche un piccolo Centro di ascolto parrocchiale, aperto ogni mattina dalle 9,30 alle 11 per affrontare le varie necessità che si vanno creando nel quotidiano come la ricerca di un posto di lavoro. Ci sono anche dei terzomondiali: filippini, egiziani, quasi tutti musulmani. Si fa qualcosa anche per loro.
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Attività in oratorio.
A sinistra: chierichetti con i loro assistenti, padre Mario, Maria e Margherita.
L 'Oratorio Murialdo è un po' il simbolo della scelta dei padri Giuseppini di essere apostoli fra i giovani. La struttura di via Murialdo 9 è coordinata dalla Commissione oratorio e catechesi che ha don Pietro come responsabile. La catechesi sacramentale per il periodo '89-'90 era, ad esempio, divisa in quattro gruppi per l'«anno della fede» (terza elementare, in cinque per l'«anno dei discepoli» (quarta elemeiìtare), in sei per l'«anno della comunità» (quinta elementare) e per l' «anno dei testimoni» (prima media). Ci sono poi i gruppi del dopo-cresima: dai ragazzi di Il media fino al gruppo dei giovani.
Un momento della Festa dell'oratorio edizione 1986
Don Pietro collabora anche nel direttivo della Murialdina che comprende i gruppi: esordienti, giovanissimi, allievi, Under 18 e Senior oltre alla squadra femminile al gruppo danza classica, al gruppo chierichetti ed al «coretto» dei cantori.
«Giovanissimi 1989-90». una delle 6 squadre della
«Murialdina».
Giovani dell'oratorio in una foto ricordo durante un 'escursione a Villadalegno
(1987).
Altri gruppi di ragazzi/e particolarmente seguiti sono i cantorini (circa 60), il gruppo chierichetti e il gruppo della danza classica.
La catechesi della parrocchia si estende agli adulti, specialmente ai genitori dei ragazzi del catechismo, attraverso incontri periodici durante l'anno e nei momenti di «uscita» insieme alla domenica, ad esempio nella Casa-seminario di Valbrembo o a Bergamo nella scuola di via Santa Lucia. Si tratta di un vero e proprio «ritiro spirituale» in preparazione al Sacramento.
Il movimento Terza Età in parrocchia è molto attivo e costante con oltre trecento associati. Peccato non abbia una propria sede. Suo fondatore è stato p. Mario Cugnasco il quale ne ha poi seguito passo passo la crescita. In questo movimento si è formato un gruppo di collaboratori che oggi è in grado di portare avanti l'animazione e l'organizzazione: gite, momenti di spiritualità. Ogni mese hanno un loro programma, fitto e articolato.
L' Azione Cattolica ragazzi invece, che doveva essere una scelta del 1983, e che doveva diventare un momento educativo completo dalla prima media in poi, un po' si è fermata.
Il movimento «Comunione e Liberazione» ha avuto un suo momento di auge con la presenza di un padre, don Silvino Dal Colmo, che si occupava di questi giovani e vivendo personalmente questa realtà faceva da punto di aggregazione nell 'intero decanato. Don Silvino è passato a Rivoli tre anni fa e il movimento è così «migrato» nella vicina parrocchia dei Santi Patroni.
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Lo spirito di un educatore come San Leonardo Murialdo trova nella nostra parrocchia una realizzazione concreta nella «casa-famiglia» ove si è avviata una concreta attenzione ai ragazzi in difficoltà familiare o comunque con situazioni a rischio. Si tratta di ragazzi segnalati dal Tribunale per i minorenni o dai servizi sociali. Di loro si occupa fin dall'inizio don Giuseppe Cialone. Il primo avvio di questa iniziativa risale al
1983-84 e giusto nel 1984 si è aperta la prima «casa-famiglia» in un alloggio a pianterreno di via Inganni 76 dove don Giuseppe viveva a tempo pieno con i ragazzi, pur facendo l'insegnante.
Nel 1989 si è aperta una seconda «casa-famiglia» in una villetta in via dei Giaggioli 8 dove sono oggi ospitati cinque ragazzi dagli
11 ai 17 anni. Accanto a don Giuseppe è cresciuto un nucleo di collaboratori composto da educatori professionali, obiettori di coscienza, ragazze dell'anno di volontariato sociale.
Questa esperienza, nata in San Leonardo Murialdo, ma avviata dalla Congregazione di San Giuseppe, ha comunque una propria autogestione economica. Nell'XI Capitolo provinciale della Congregazione dei Giuseppini svoltosi a Pianezza (Torino) dal 27 al 31 dicembre 1988 fra i problemi emergenti in alcune opere della Provincia viene segnalato il caso di Milano per il quale si dice: «Il Capitolo impegna il superiore provinciale con il suo consiglio a seguire con attenzione gli sviluppi della casa-famiglia ed auspica che l'impegno della comunità si esprima soprattutto in compiti di animazione e formazione dei laici, quali collaboratori impegnati responsabilmente nella gestione diretta dell'attività educativo-assistenziale».
Nella parrocchia, quasi a continuare lo spirito dei primi anni del dopoguerra ed a completare l'iniziativa della «casa-famiglia», c'è anche il doposcuola per andare incontro ai ragazzi dell'abbandono scolastico, una realtà che coinvolge una trentina di ragazzi dalla quinta elementare alla terza media per un loro recupero umano oltre che scolastico.
Doposcuola e case-famiglia sono una risposta della parrocchia alle situazioni a rischio di questa zona, un impegno a lavorare per la prevenzione, per assicurare una gioventù sana.
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Le prospettive per il futuro? Don Tarcisio tiene a sottolineare una attenzione sempre più coinvolgente verso i giovani come preciso impegno della parrocchia.
«Il contatto con le famiglie», ci dice, «deve avvenire proprio attraverso questo canale poiche l'esperienza della benedizione natalizia delle famiglie ci dimostra come la parrocchia cammini su una strada e la gente su un'altra». Nell'XI Capitolo della Nona Congregazione si è affrontato anche il problema della comunità parrocchiale. Ecco il testo relativo: «Il capitolo riafferma che la nostra pastorale parrocchiale deve essere sempre più qualificata nell'affrontare i problemi dell'emarginazione, della povertà, delle situazioni a rischio in cui vengono a trovarsi spesso i giovani, specie se privi di famiglia o di lavoro, o offesi nei loro fondamentali diritti.
I confratelli che svolgono apostolato in ambito parrocchiale e i laici che in molteplici ministeri e servizi condividono con loro l'ansia apostolica, diano testimonianza di autentico spirito missionario, nella ricerca pastorale di coloro che si sono allontanati dalla fede e dalla pratica cristiana.
La parrocchia giuseppina può divenire anche un privilegiato punto di osservazione sul mondo giovanile e sui cambiamenti in atto nella società. Coinvolgendo sempre più i laici negli organismi di partecipazione, la parrocchia giuseppina giunga a sensibilizzare gruppi, associazioni e movimenti con la proposta e l' attuazione di concreti progetti di elevazione sociale e di educazione cristiana».
La comunità religiosa di San Leonardo Murialdo a Milano conta oggi cinque confratelli che qui vivono in maniera piena la propria consacrazione, e che rendono visibile la comunione con una testimonianza di unità da cui si dirama tutta l'attività in parrocchia.
(a cura di Francesco L. Viganò)
I testimoni raccontano
Sei suore ricordano
Sono arrivata a Milano in via Manzano con suor Maria Rosetta nel lontano 1944 in piena guerra mondiale per iniziare l'anno scolastico 1944-1945. Il nostro alloggio consisteva nella sala dei bambini dell'asilo: due sole stanzette e una cucinetta, sicche la sera sulle panche dell'asilo si stendevano i materassi e si dormiva tutta la notte. Eravamo nella perfetta povertà però tanto felici e non avremmo cambiato la nostra situazione per tutto l' oro del mondo. Tutte le sere due suore, finita la scuola, si recavano con due borse sotto il mantello al mercato a raccogliere frutta e verdura che serviva p.er noi e per i piccoli dell'asilo e la madre superiora, suor Astasia, preparava una squisita minestra.
Ho svolto nella scuola elementare il mio apostolato. Avevamo tanti bambini. Grande era la gioia
che provavo la mattina quando padre Mario radunava in via Manzano tutti gli alunni e prima di salire nelle aule li faceva pregare e cantare «Libera al vento la nostra bandiera, ricorda qual era degli avi la fè». Non ho dimenticato questo canto e sento una grande nostalgia di quei giorni tanto belli, nonostante la povertà, le sofferenze, i bombardamenti.
La nostra missione di misericordia era in mezzo ai piccoli, alle mamme, alle spose che avevano i loro figli e mariti nella bufera della guerra; in quei giorni c'era da consolare, aiutare e soprattutto donare con grande amore. Anche la nostra comunità viveva nella gioia e nella fraternità. Con la madre superiora, suor Astasia, c'erano suor Maria Rosetta, suor Luisangiola, suor Silvinda, suor Teodolberta, su or Carmela, suor Lena e suor Joselda. Dio si serve anche di povere creature, perché è Lui che ci sostiene e ci guida.
Suor Lorenziangela
Ricordo una mattina, prima della messa, quando tutto il quartiere era nel silenzio, con padre Velo, allora parroco, siamo venute in quel pezzo di terra che era risaia, a seminare le medagliette miracolose, e lì in quel campo sono sorti i due edifici: quello dei padri Giuseppini con la parrocchia e il nostro con l'opera «Devota Maculam». Per me era gioia vedere come si era uniti padri e suore e si lavorava come in terra di missione: povere insieme ai poveri. Gioia è stata aver visto sorgere quelle due opere che tuttora esistono.
Pure l'apostolato a tempo pieno, scuola, doposcuola, catechismo, specie nella preparazione alla Prima Comunione, erano attività a cui partecipavano molte persone. Ho visto sempre che il Signore sa fare cose grandi con gli umili servi che chiama a lavorare nella sua vigna. Ricordo tutte le suore, la superiora suor Astasia, suor Joselda, ora defunta, che ha persino bruciate le foto dei suoi familiari per accendere la stufa nella scuola ecc. Penso che se andassi in missione proverei la stessa gioia che sentivo nella vita trascqrsa in via Manzano. Eravamo un cuor solo ed un'anima sola. Tutte ci aiutavamo: chi a tagliar legna, chi al lavatoio, chi a stendere per i balconi delle famiglie vicine, chi a cucire, chi a stirare e poi la Superiora finiva tutto quello che rimaneva indietro.
Non c'era posto neppure per dormire e le sedie erano le stesse per la tavola e per il dormitorio. E dico troppo poco. Per avere un po' di latte non vi dico quanta strada bisognava fare per trovarlo! Allora era appena finita la guerra. Dico grazie al Signore del dono che mi ha fatto di svolgere la prima missione con voi e chiedo scusa di tutti i miei limiti, in un'opera così grande, perché ero ancora inesperta.
Suor Pace
Sono arrivata in via Manzano una domenica del settembre 1945. Edificio squallido di dopo guerra! Ma in quella casa popolare, povera e dimessa, c'era pace e, vorrei dire, i muri, piuttosto ammuffiti, emanavano qualcosa di arcano. Fra quelle mura, in quel quartiere, iniziavo il mio apostolato, la mia giovane vita pubblica.
Insegnavo nella scuola elementare, sistemata in un edificio diroccato dai bombardamenti. Bisognava spostare i banchi e aprire l'ombrello per ripararsi dai goccioloni nei giorni di pioggia. Il freddo invernale poi conservava e ritemprava i deboli corpicini delle scolare smunte per i forzati digiuni. Ma trovarsi con quei visetti ingenui, dalla vocina flebile, ci vitalizzava e ci rendeva desiderose di condividere con loro anche la povertà. Una signora d'oggi, ex alunna di allora, mi ricorda questo: trovai in aula una mela di cui non si conosceva il proprietario. L 'ho divisa in 50 pezzetti; uno per bambina e li ho distribuiti. Concludeva: «Non dimenticherò il gusto di quella mela! ».
Non so se perché era la prima esperienza o perché io ero giovane, ma le difficoltà di via Manzano e la gioia delle «scope di tutti i lunedì» per trasformare la Chiesa capannone in scuola materna, il fumo delle stufe a segatura, i problemi che la buona gente mi ha confidato sono ancora vivi in me e penso che quelle gioie e quei dolori abbiano dato un 'impronta particolare alla mia personalità.
Ecco perché ringrazio tutti voi, vi ricordo nella preghiera, vi saluto di cuore e auguro che la festa del 50° susciti nella comunità parrocchiale e in ciascuno quei sentimenti profondamente cristiani, che riescono a tradursi in gesti concreti di aiuto e unità basati sulla Carità di Cristo.
Suor Carmela
Ho tanti bei ricordi! Quanta allegria ed entusiasmo, quando alla domenica si facevano le adunanze alle Aspiranti di A.C. e il catechismo, quanta gioventù eravamo; l'oratorio era sempre pieno. Ricordo quando invitavo le Aspiranti per la S. messa settimanale, per la novena a S. Agnese, per la Via Crucis; e poi il bel mese di maggio; a flotte venivano: sono ricordi che non si cancellano.
Suor Rina
A distanza di tempo, 50 anni, mi pare proprio di poter dire che veramente ci ardeva in cuore il desiderio del Signore, di farLo conoscere, di aiutare i giovani ad imboccare la strada giusta.
Suor Gianleonora
Suor Astasia, prima superiora, oggi ottantacinquenne, dice di non ricordare persone e fatti, ma conserva in cuore affetto e simpatia per tutti. Assicura la sua preghiera e offre la sua sofferenza per tutte le persone conosciute e porge il suo riconoscente e fraterno saluto. Invita tutti a ringraziare il Signore del bene che in questi 50 anni è stato fatto rivivendo cari ed indimenticabili ricordi.
Carnevale a Lorenteggio
Il Carnevale a Lorenteggio si è sempre fatto e si fa tuttora bene. E vi posso dire che i meridionali, di cui Lorenteggio abbonda e con soddisfazione, in fatto di costumi, di trucco, di parrucche, di ricchezza di colori e di oggetti-ornamento, sono insuperabili e spendono volentieri.
Il carnevale di Lorenteggio con Meneghino e Cecca, bravi e nostri inseparabili amici, per alcuni anni è stato scelto come Carnevale cittadino. Allora si era poveri di mezzi per i carri, per il loro sfarzo e contorno, ma c'era tanta collaborazione ed allegria schietta. Allora si rideva di buon gusto.
Dovete sapere che don Enrico «il toscano», in piena armonia con don Marietto «il piemontese» e forse anche con il dinamico e coraggioso don Pietro «il bergamasco» chiamò dalla Toscana, e precisamente da Camaiore, due suoi grandi amici: un sacerdote ed un bravo giovane, pratici in fatto di carri carnevaleschi. «Ma ci vogliono tanti soldi! » «Macche! Bastano carta di giornali, riviste... (ed allora scoprimmo quante riviste costose. ..alla luce rossa, pullulavano nel nostro quartiere) e colla, colla e tanto fil di ferro e chiodi, chiodini con un po'... di compensato». E vedere l'oratorio, le sale, il cortile trasformati in un carnasciale cantiere, con tan-
te luci, alla sera, alla notte, in ambiente rumoreggiante. Ed ecco, fra tanto, nascere il carro di «Nerone» un bel ragazzo che sapeva anche fare il tiranno, con cortigiani; il carro della «Musica» con strumenti, cantanti ed una grande lira (strumento). Numero di attrazione il signor Ludovico, dipinto, vestito, imbellettato da non riconoscere che montava una bicicletta irriconoscibile, un superbo elicottero autogestito, auto..mobile e dove lui passava rigidi poliziotti cedevano il passo con I 'immancabile saluto.
Il festoso corteo, sempre più nutrito, passava per via Lorenteggio, S. Vittore, S. Ambrogio, Castello Sforzesco, via Dante, Piazza Duomo e riempiva la piazza. Voglio notare un particolare: con i vigili in livrea, Meneghino e Cecca, non mancavano gli assessori del Comune. lo li conoscevo. I ragazzi schiamazzavano, chiamavano per allegria e per trovare posto sui carri: «Don Marietto, don Marietto! » Gli assessori col microfono: «Ecco don Mario il factotum! » Ed io: «Per carità! guardate che essi chiamavano don Marietto, il vero factotum, I'infaticabile costruttore dell'oratorio. È lui! lo sono soltanto un aiuto, un animatore. Chissà se hanno.? capito...».
Dai «Ricordi di Don Mario Bevini»
«Quadretti viventi» del Vangelo
Nei lontani anni 1944-45-46, c'era un'usanza molto diffusa ed oggi, purtroppo, completamente abbandonata. Si tratta di questo: gli addobbi delle portinerie, allestite di veri e propri «quadretti viventi», in occasione delle belle e suggestive processioni che nelle serate dei mesi di maggio e giugno si snodavano per le vie del quartiere.
Raccontata così non sembra nulla di particolare: un'usanza che alle nuove generazioni può risultare, a dir poco, strana, senz'altro superata, con sapore d'antico e di cose di altri tempi. Ma per noi, che quel periodo l'abbiamo vissuto (chi scrive, ad esempio, era bambina), ha un altro sapore.
Ha il sapore della fede semplice e della povertà nera delt'immediato dopoguerra, ha il sapore dell'entusiasmo dei parrocchiani per fare bella figura, ha il sapore della gara tra abitanti di un caseggiato e l'altro, ha il sapore delle piccole scaramucce tra bambini e adolescenti per poter essere protagonisti - almeno per un'ora - del «quadretto»... Poteva perciò capitare che una bambina piccola, con capelli corti e visino insignificante volesse impersonificare la «Madonna», oppure maschietti vivacissimi e turbolenti volessero fare «Gesù» per cui una realtà anche difficile da gestire.
Si ottenne quindi molto successo quella volta in cui le mamme, con l'intento di accontentare più bambini possibile, pensarono di rappresentare la scena: «Lasciate che i pargoli vengano a me», scena che richiedeva molti personaggi. Per cui, assegnato il ruolo di «Gesù» ad una ragazza alta, bruna, viso ovale e capelli lunghi, tutti gli altri potevano essere «pargoli». E così, sotto il portico dell'ingresso, dove appunto si allestiva il «quadretto», si potevano ammassare bambini a frotte...
Naturalmente era rigoroso, nei limiti del possibile, riprodurre la scena con abiti dell'epoca: per cui le mamme, autotassandosi naturalmente in prima persona, acquistavano al mercato metri e metri di cotone in colori pastello e confezionavano per «Gesù» e per ogni pargolo una specie di «tunica-sacco» (in genere misura unica: ai picco letti arrivava ai piedi, ai più alti arrivava al ginocchio). Tunica che rendeva contenti tutti (la scelta del colore e la prova erano ulteriori fonti di contentezza per i protagonisti).
Già in tutta questa fase preparatoria c'era molto fermento: come ben si sa allora non c'era la TV che monopolizzava tutti, piccoli e grandi, con cartoni animati e telenovelas di bassa lega. Allora non c'era niente: pochi soldi, pochi divertimenti, poche distrazioni, per cui questa preparazione coinvolgeva molto.
Più si avvicinava la fatidica data, più si fremeva: innanzitutto si sperava nel bel tempo: pioggia e temporali (in maggio e giugno molto frequenti) avrebbero potuto compromettere seriamente il tutto: niente processione, niente «quadretto» sotto il portico. E poi c'era, sotto sotto, un po' di comprensibile antagonismo con gli abitanti dei caseggiati vicini. A tutti noi veniva raccomandato di non parlare con gli altri «concorrenti», nulla doveva trapelare del progetto che si stava realizzando perché nel cuore semplice di ognuno c'era il sogno che il riconoscimento per il miglior «quadretto» venisse attribuito proprio al mitico « 181 ». ..e la soddisfazione e la gioia sarebbero state grandi.
Luisa Bertolaja
Quando contavamo i soldi Invitata a riandare con la memoria ai lontani anni 1944-1945-1946, per focalizzare qualche fatto od episodio legato alla nostra parrocchia, mi è tornato nitido alla mente un episodio, che veramente non si può chiamare tale, in quanto trattavasi di fatto ripetitivo, dato che si effettuava settimanalmente e, alcune volte, in occasioni straordinarie, bi-settimanalmente. Mi riferisco a «contare i soldi». E mi spiego meglio.
lo, che sono nata nel 1938, nel 1944 iniziavo a frequentare la prima elementare presso le Suore della Misericordia, stipata con le altre bambine (in terza elementare eravamo in 70), nei locali-appartamento che fungevano da aule di via Manzano {testimonianza di ciò si può avere anche dalla nostra carissima suor Silvinda che ebbi come insegnante sino alla 5 a : è una delle poche suore della «vecchia guardia» rimaste nel grande fabbricato di via Inganni 12). Da subito, per cui avevo 6 o 7 anni massimo, sono stata scelta (ed era considerato un grande onore) per far parte del gruppo che appunto, una o due volte la settimana, sospendeva le lezioni al pomeriggio (la scuola era allora a tempo pieno) e si trasferiva in via Manzano, 4, nei locali parrocchiali e lì «si contavano i soldi» delle offerte raccolte nelle messe.
Le cassette dei vari Santi più o meno «ricchi», a cui i fedeli in quei momenti dell 'immediato dopoguerra facevano con molti sacrifici la loro offerta (S. Antonio, S. Rita, S. Teresa del Bambino Gesù, ecc.), si vuotavano sul tavolo e si cominciavano a contare le lirette, perché di lirette si trattava, dato che il quartiere era poverissimo, formato da famiglie appena uscite da una guerra, con mille problemi da risolvere: disoccupazione, casa, figli, per cui le offerte per la chiesa erano più che modeste.
Si trattava, oltre a tutto, di carta moneta, sgualcita, maltrattata, rotta, priva di serie, e il Cielo sa cosa facevamo noi bambine per sistemarla con la colla (lo scotch non esisteva all ' epoca) con pezzettini di carta: salti mortali si facevano per renderle tutte spendibili quelle povere lirette tanto importanti per la nostra parrocchia. Poi, dopo averle stirate con le mani o messe sotto un peso, le contavamo, le impacchettavamo (si facevano pacchetti da 100 banconote) e intorno mettevamo una fascetta di carta con su scritto il contenuto. Naturalmente, tutte le varie offerte venivano registrate «in entrata» su un quademetto tenuto da qualche ragazza grande che fungeva da «responsabile».
Era un tipo di servizio che mi piaceva moltissimo e che ricordo a distanza di anni con nitidezza: ci veniva offerta anche una buona merenda (e a quei tempi, credetemi, era una cosa abbastanza insolita); suscitavamo l'invidia di tutte le nostre compagne di scuola rimaste in classe, magari impegnate in un'attività poco gratificante e poi, dulcis in fundo, una volta all'anno P. Silvio, allora parroco, ci offriva la partecipazione gratuita ad una gita promossa dalla parrocchia o dall ' Azione Cattolica (meta qualche santuario della Lombardia o del Piemonte).
Questo fatto ci gratificava ulteriormente e ci stimolava sempre più ad essere disponibili per «contare i soldi». Penso che in quest'era di computer dove tutto è scrupolosamente meccanizzato e informatizzato, particolari di questo genere possano suscitare in noi tutti un sorriso e un tantino di nostalgia per i... bei tempi passati.
Luisa Bertolaja
Tanti anni con le suore
Uno dei ricordi più vivi dei primi anni di vita della nostra comunità era la familiarità che ci univa. Per esempio, dopo il 1946 con la morte di mio padre, io passavo quasi tutta la giornata con le suore; la scuola, il pranzo, i giochi. Tornavo a casa la sera e, spesso, avevo già cenato. La mia vita era tutta in quelle poche stanze di via Manzano 4 dove le suore abitavano. Di qualsiasi cosa avessi bisogno trovavo sempre qualcuna disposta ad ascoltarmi. Mi ricordo che suor Lena affondava le mani nelle sue grandi tasche e riusciva sempre a trovare quello che mi serviva.
Era proprio come una grande famiglia: schiaffi se facevi la monella, caramelle se ti comportavi bene. Poi un bel giorno (o brutto) le suore si trasferirono nel nuovo palazzo di via Inganni 12. Era bellissimo, tante finestre, pavimenti di marmo lucidissimi, un grandissimo giardino, ma che tristezza! Le suore avevano i loro luoghi privati, per le preghiere, per mangiare, per lavorare e noi bambine non potevamo entrare. Dovevi stare attenta a dove camminavi per non sciupare i pavimenti, per parlare con qualcuna di loro dovevi aspettare il momento giusto ed erano sempre molto occupate. Insomma era finita la gioia dello stare sempre insieme e mi ricordo che mi sentii come tradita ed abbandonata.
A quel tempo avevo solo 10 anni, ma mi resi conto che non sempre il benessere è indice di gioia.
Argene Baroni
Giocavamo a calcio in via Inganni
Era afoso, il pomeriggio di quel 3 luglio 1943. Arrivavo dallo Scolastico di Ponte di Piave, giovane chierico, per iniziare il mio magistero. Prima di entrare nella casa dei padri al piano rialzato di via Inganni 6, angolo via Manzano, volli entrare nella Chiesetta e raccomandare alla Mamma Celeste il mio incipiente lavoro. Poi attraversai la polverosa via Inganni e bussai alla porta n. 4 della scala. Venne ad aprirmi un sacerdote di età, basso, con due grandi occhi ed un cordiale sorriso: padre Velo.
Mi accolse a braccia aperte e mi diede un bel bacio. Era felice di avere un confratello in più sebbene non ancora sacerdote. Non dimenticherò mai quel sorriso. Poi chiamò gli altri padri: P. Silvio, P. Mario, P. Raffaele e P. Luigi. E, fatte le presentazioni, ecco il problema: c'era già un padre Luigi in casa (l 'indimenticabile e compianto P . Masiero) ora arrivava un altro Luigi... come fare? E P. Velo trovò la soluzione: il nuovo arrivato si chiamerà don Giuseppe in onore del Santo Patrono dei Giuseppini. E così, col nuovo nome, cominciai il mio lavoro milanese che durò fino al 15 ottobre 1946. Il primo ragazzo che incontrai? Pierino Rossi. Il primo uomo con cui parlai? Emilio Mandelli.
La prima signora che vidi? La mamma di due simpatici (e lo sono ancora) figlioli, Ernesto e Bertilla Perin. Potrei qui nominare i primi aspiranti? Felice Guffanti, Giuseppe Invernizzi, Giuseppe Ghilardi, Rossi Pierino, Rossi Carlo, Pugni Germano, Claudio Marchesi, Angelo Fugazzi, Mario Storti, Gianni e Bartolo Rescali, Autellitano Natale, Cremonesi Mario, Noè Giuliano, Renzo Ferrari Raimondi Francesco, Zangelmi Carlo.E i primi chierichetti: Ghidoni Italo, Autellitano Natale, Rossi Pierino, Pugni Germano, Marchesi Claudio, Bianchi Mariano.
Le adunanze le facevamo in saletta a fianco del palcoscenico. Ogni domenica alle 11 ci radunavamo e si passava un' ora felice; ma attenti a far chiasso! La porta doveva essere sempre chiusa perché il salone a quell'ora era una sola cosa con la chiesa che era affollata per la S. messa. Bastava un po' di chiasso che subito arrivava Mario il sacrista, il caro Mario inconfondibile nel suo carattere gioviale, a sgridarci per. ..ordine superiore. Che affiatamento, che allegria! Le partite al pallone sulla via Inganni e nel campo dietro la chiesa, le corse lungo la deserta via Inganni fin verso Baggio e i giochi a nasconderci nei prati dopo le funzioni del mese mariano, le escursioni alla Corba, alla Lorenteggio, a Corsico: ricordi che passano veloci e lasciano una scia di viva simpatia per tempi, luoghi e persone tanto care!
Quei tempi sono ora passati, quei luoghi ora sono cambiati: la chiesina è scomparsa per far posto alle case popolari, i prati sono spariti per dar luogo a case e giardini ed i ragazzi di allora si sono sposati, hanno avuto da Dio il dono di amabilissimi figlioli e si sono sistemati onoratamente nella vita come dirigenti di imprese, geometri, ragionieri, dottori, operai e Iddio benedetto mi ha dato la felicità di veder fiorire e maturare tre vocazioni sacerdotali: don Angelo Bozzi, don Italo Ghidoni e don Natalino Autellitano. Il 10 gennaio 1944 il P. Masiero, intraprendente oltre ogni dire, dava inizio in una delle due salette a fianco del palcoscenico alle classi elementari con la prima. lo ne fui il maestro. Ricordo tra i primi scolari: Perin Ernesto, Gabriele Bottelli, Michele Losapio, Marchetto, Galassi, ecc...
Oggi sono tutti giovanottoni e ricorderanno il triste giorno in cui andammo a passeggio fino alla Cava (dove oggi c'è la Chiesa di San Giovanni alla Creta) sulla montagna di ghiaia e là ci sorprese la sirena di allarme ed il fragore delle bombe che cadevano sulla scuola di Gorla. Tutti stretti a me come pulcini sotto la chioccia! Poveri figlioli, piangevano, tremavano e invocavano la mamma mentre sulle nostre teste passavano le ondate di apparecchi. Che momenti! ma poi tutto passò. L'anno seguente vennero altri chierici ad aiutarci: D. Giovanni Apolloni, D. Enrico Grasso, D. Pasquale Durastante, D. Quarto Sirri, e si potè sviluppare l'opera iniziata con le scuole. E così tra scuola, oratorio, aspiranti e chierichetti passarono i miei migliori anni di vita di magistero, dolci ricordi che si incentrano in quella chiesetta oggi demolita che fu per me il caldo nido delle misericordie del Signore per preparare l'alba del mio sacerdozio.
Don Giuseppe
(P. Luigi Parussini)
La messa all'aperto
Fu sul finire dell'estate o primo autunno del 1939 che venni con i miei ad abitare in un appartamento di via Apuli 5. Si entrava da via Giambellino 140: era il primo blocco di case ultimate. ..nuove; tutto attorno prati verdeggianti. Il tram fermava al vecchio rondò oltre la Tallero (ora deposito bus) poi c'era la valorosa «carioca» così confidenzialmente chiamata dagli utenti che, d'inverno, data la strada malconnessa, a volte andava a pascolare nei prati attigui. La chiesa più vicina era S. Vito al Giambellino che frequentavo regolarmente. Il prevosto era don Carlo Galli. lo facevo il chierichetto, già collaudato al mio paese natio (avevo iniziato a 6 anni dopo la prima Comunione) e a Nizza Marittima dove avevo fatto la 4a elementare ne1 1937/38 (i miei lavoravano in quella città della Costa Azzurra, stazione turistica di fama internazionale) ove frequentavo l'eglise paroissiale di St. Jean Haptiste...
A San Vito ebbi il primo impatto con il rito ambrosiano. Qui conobbi Piero Mandelli, che in oratorio aveva un incarico di fiducia: faceva il «caramelat», curava cioè il banchetto dei piccoli dolciumi e delle granatine che d' estate rinfrescavano la gola dei ragazzi golosi, come lo ero io allora. ..
Un pomeriggio, nella sacrestia di S. Vito, eravamo in diversi chierichetti (forse per servire un funerale), comparve un prete alto e magro (era P. Silvio) a chiedere all' Angioletto, il sacrista, un paio di candele per la cappella del Lorenteggio. Si scambiò qualche parola e promettemmo di venire a vedere i luoghi dove si stava iniziando la nuova parrocchia. Anche noi abitavamo giù, nel nuovo quartiere, e saremmo stati più avvantaggiati nel frequentare una chiesa più vicina. Nel frattempo mia madre ottenne una portineria in via M. Pichi, oltre porta Cica (Ticinese) e per alcuni mesi fui trapiantato a S. Maria del Naviglio, una consistente parrocchia della Milano vecchia. Poi si venne in via Inganni, 6 e qui vivemmo per molti anni con i Padri che occupavano alcuni appartamenti della scala H.
Dopo 1'incontro con P. Silvio, lasciammo quasi subito S. Vito dove si era discretamente inseriti e venimmo al Lorenteggio nel vecchio maniero, la parte più antica che ancora sussiste, mentre la rustica cascina è stata ingoiata dall'espandersi della città. Ricordo che c'era un quadro nella cappella raffigurante una Madonna di Raffaello che P. Velo chiamava la Madonna della paura.
I primi padri, Velo e Silvio, venivano da Città degli Studi situata dall'altra parte di Milano. P. Silvio era stanziato al Lorenteggio e P. Velo alla cascina Corba.
Alla domenica inizialmente si celebravano più messe sia al Lorenteggio che alla Corba.
La messa principale però, credo, fosse quella all'aperto su un altare smontabile nel cortile di via Segneri al 3, alla quale assisteva tanta gente. Mi considero tra i primi chierichetti della parrocchia con P. Mandelli, Armando Camerini, i Della Giustina, Piero Rossi... e altri.
I primi cantori mi pare che furono: Monzio Compagnoni Franco (primo soprano solista), Lambarelli, Emiliano Zini, e il sottoscritto che però, per quanto contralto passabile, avevo già in mente il seminario ed ero ormai innamorato del rito ambrosiano e tendevo più a servire che a cantare. ..
Ricordo la prima cappellina adattata nell'appartamento di via Inganni 6, dove si stabilizzò l'ufficio di P. Velo, primo prevosto della parrocchia. Il primo canto imparato, credo, fosse
l'«O Bone Jesu» del Bottigliero. Mi accorgo che mi si affollano vari ricordi, nomi e commozione e sto andando in tilt. ..siamo sulle soglie della sede prima, la chiesa provvisoria che fu eretta, credo, nell'inverno del '41 e si chiamò S. Sebastiano extra moenia per non confonderla col tempio civico di S. Sebastiano in via Torino, non molto lontano dal Duomo.
Don Italo Ghidoni parrocchiano, chierichetto, diventato sacerdote
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